Scritto da Paolo Radivo, «L’Arena di Pola», 23/07/14
mercoledì 23 luglio 2014
Recenti studi confermano quanto i polesani sapevano da sempre, ovvero che quella di Vergarolla fu una strage premeditata, non una fatalità. Come sostennero la Polizia Civile e una corte militare d’inchiesta istituita dal Governo Militare Alleato, i 28 ordigni lasciati dalle autorità anglo-americane sulla spiaggia senza recinzioni né segnali di avvertimento furono reinnescati e fatti esplodere. Grazie all’incrocio delle fonti, il numero delle vittime identificate è inoltre salito da 64 a 65. Restano però degli interrogativi irrisolti. Quanti furono i morti non identificati? E chi erano? Venivano soprattutto dalla Zona B della Venezia Giulia? Rimasero uccisi anche militari inglesi? E a quanti ammontarono i feriti? Ma soprattutto: chi furono i mandanti e gli autori? E quale movente li spinse? Per capirlo, in assenza di prove certe che speriamo emergano da nuove ricerche, possiamo al momento seguire tre strade: la logica; la disamina degli indizi storici; la valutazione delle testimonianze attendibili. Tutte e tre le strade ci conducono alla medesima pista: i servizi segreti militari jugoslavi.
IL RAGIONAMENTO LOGICO
Partiamo da un semplice ragionamento. Chi furono le vittime? T utte italiane (di Pola ma forse anche della Zona B), che non volevano la Jugoslavia e che il 18 agosto 1946 erano a Vergarolla per assistere a gare sportive di palese orientamento filo-italiano, nel 60° anniversario di fondazione della iper-patriottica Società nautica “Pietas Julia”. Fu dunque senza dubbio un attentato anti-italiano. Se poi vi perse la vita o comunque vi rimase ferito anche qualche militare inglese di stanza in città, si trattò di un effetto collaterale non voluto. Quali conseguenze provocò la strage? Indurre i polesi filoitaliani, turbati e spaventati, ad arrendersi, a smettere di mobilitarsi contro l’annessione proprio nel momento in cui a Parigi la Conferenza della pace stava per deciderne il destino. Sabato 17 agosto infatti si era conclusa la fase plenaria. Il 28 agosto alcune delegazioni presentarono alla Commissione politico-territoriale per l’Italia 14 emendamenti sul nuovo confine italo-jugoslavo e/o su quello del Territorio Libero di Trieste, esaminati poi a partire dal 3 settembre. Gli emendamenti brasiliano e sudafricano volevano estendere il TLT a tutta l’Istria occidentale, comprese Parenzo, Rovigno e Pola. Ma furono bocciati entrambi, il secondo il 20 settembre. Fino a quel giorno dunque i polesi filo-italiani avrebbero avuto ancora motivi di speranza. Ormai però il 18 agosto avevano gettato la spugna e non si scomposero nemmeno quando l’11 settembre il Governo De Gasperi presentò a Parigi una (debole) richiesta di plebiscito. “L’Arena di Pola” pubblicò l’ultimo titolone a tutta pagina il 20 agosto per dare notizia dell’eccidio: la sua volontà di battersi era fiaccata. Anche quanti, in contrasto col CLN, avrebbero voluto usare le armi desistettero. La data della strage non fu dunque scelta a caso: in vista delle imminenti e non ancora scontate decisioni definitive di Parigi bisognava togliere ogni volontà di resistenza ai filo-italiani, che il 15 agosto 1946 avevano assiepato in 20.000 l’Arena dando vita alla più grande, festosa e ottimistica manifestazione di italianità di sempre. Una città che così platealmente insisteva a grande maggioranza nell’invocare l’Italia non poteva essere ceduta alla Jugoslavia senza qualche imbarazzo internazionale.
BISOGNAVA ZITTIRLA. E COSÌ FU
Pertanto l’esplosione di Vergarolla giovò alla Jugoslavia, che d’un tratto vide affievolirsi l’opposizione dei polesi filo-italiani quando a Parigi i 21 ne avrebbero dovuto stabilire la sorte. Anche i più titubanti si rassegnarono all’esodo, già preannunciato in luglio da 28.053 concittadini nel caso di annessione e poi effettuato soprattutto nel febbraio-marzo 1947. Gli jugoslavi si trovarono così padroni di una Pola semideserta senza più persone politicamente infide, con gli italiani ridotti a una minoranza innocua e facilmente controllabile. L’esodo si rivelò perfino superiore a quello auspicato, visto che partirono anche tanti bravi operai dei cantieri e delle fabbriche, difficilmente sostituibili in tempi brevi. Basterebbe questo elementare ragionamento logico per dedurre che mandanti e autori furono jugoslavi o comunque filo-jugoslavi: verosimilmente i servizi segreti militari, dato che l’OZNA era stata ufficialmente sciolta nel gennaio 1946. Qualcuno ha sostenuto che avrebbero potuto invece essere elementi anti-comunisti italiani (fascisti, monarchici, ex partigiani “bianchi”, alti dirigenti militari e civili golpisti) o jugoslavi (ustascia, cetnici, belogardisti) miranti a far deflagrare la Terza guerra mondiale fra l’Est comunista e l’Ovest democratico-capitalista, per scalzare le forze al potere rispettivamente in Italia e Jugoslavia. Eppure né gli anticomunisti italiani (con la parzialissima eccezione del “Messaggero Veneto”) né quelli jugoslavi fondarono su Vergarolla una campagna di propaganda contro i titoisti, addossando loro la responsabilità e invocando vendetta. Sia le autorità alleate, sia il Governo italiano, sia il regime di Belgrado misero la sordina all’evento, senza additare alcun colpevole. Addirittura la stampa jugoslava non ne parlò affatto, pur essendo attentissima alla questione giuliana: probabile sintomo che aveva qualcosa da nascondere… Solo “Il nostro Giornale” e “La Voce del Popolo”, a diffusione però assai modesta, ne scrissero, limitandosi ad accusare di incuria il GMA (“Il nostro Giornale” chiamò in causa anche l’amministrazione comunale guidata dal CLN). Di certo comunque Vergarolla non restituì Pola all’Italia… Che a ordire un attentato così tecnicamente complesso fosse stata qualche scheggia impazzita locale o qualche doppiogiochista suona inverosimile. Solo un servizio segreto efficiente, aggressivo e ben radicato in città avrebbe potuto farlo. E qual era a Pola durante il GMA il servizio segreto più efficiente, aggressivo e ben radicato? Quello jugoslavo, che – guarda caso – beneficiò degli effetti politici della carneficina. Tito non voleva con Vergarolla innescare la Terza guerra mondiale contro gli anglo-americani, bensì tramortire i polesi filo-italiani. Lo si desume dall’identità delle vittime: solo italiane, appunto. Eppure in quegli stessi giorni stava facendo pericolosamente crescere la tensione con gli alleati. Se avesse voluto colpirli anche a Pola, non avrebbe scelto Vergarolla. Ormai solo qualche epigono titoista si ostina a sostenere che mandanti ed esecutori vadano ricercati nel GMA o nel Governo De Gasperi: gli stessi che dovettero poi sobbarcarsi l’onere degli indennizzi ai parenti delle vittime..
GLI INDIZI STORICI
Oltre che da questi ragionamenti logici, possiamo desumere la matrice jugoslava dell’attentato anche da una gran mole di indizi storici. A guerra finita i titini avevano infatti già compiuto stragi di massa contro italiani e jugoslavi anticomunisti, oltre che atti violenti contro militari anglo-americani. Ricordiamone quelli più assimilabili all’esplosione di Vergarolla. Nel maggio 1945 dei militari con la stella rossa fecero prigionieri alle Isole Brioni una quarantina di soldati della Milizia Difesa Territoriale istriana e della X MAS, li condussero a Val de Rio, presso Lisignano, li posizionarono intorno a una mina subacquea arenata sulla spiaggia e li trucidarono facendola esplodere. I brandelli straziati dei loro corpi rimasero per giorni appesi sui rami degli alberi e sulle siepi circostanti. Il 21 maggio 1945 militari jugoslavi portarono (dolosamente?) la vecchia motocistema “Lina Campanella”, carica di circa 350 prigionieri italiani prelevati dalle carceri di Pola e poi imbarcati a Fasana, in un campo minato marino fra l’Istria orientale e Cherso. Lo scoppio e il conseguente inabissamento della nave causarono la morte o il ferimento di molti prigionieri. Quanti finirono in mare furono maciullati dalle eliche o spietatamente mitragliati dai titini. Coloro che invece nuotarono fino a riva vennero trasferiti in campi di concentramento o ai lavori forzati. Solo pochi trovarono scampo. Il 5 dicembre 1945 a Pola esplose un deposito di munizioni presso il Molo Carbone causando un morto, 15 feriti e tantissimi danni. Poco tempo dopo, due individui sospetti provenienti dalla Zona B furono sorpresi nel recinto del deposito di esplosivi del Forte San Giorgio con carte di identità non perfettamente in regola e privi di idonea giustificazione. Il 12 gennaio 1946 uno scoppio di munizionamento alla polveriera di Vallelunga provocò un morto, 40 feriti e gravi danni. Secondo un’informativa dei Carabinieri, le autorità britanniche riconobbero come responsabili e licenziarono alcuni operai della Zona B che vi lavoravano. Il tenente colonnello Orpwood, responsabile del GMA per gli Affari civili a Pola, scrisse nel gennaio 1947 che, se per Vergarolla vi erano «forti basi di sospetto» circa un sabotaggio, vi erano «delle possibilità» di un atto doloso anche per Vallelunga. Il 20 maggio 1946 il Dipartimento di Stato USA trasmise al Governo jugoslavo una nota di protesta che denunciava fra l’altro l’«attività criminale e terrorista» in Zona A di alcuni membri dell’esercito jugoslavo e di altre organizzazioni paramilitari controllate da Belgrado. Il 30 giugno 1946 a Pieris (Gorizia) militanti filo-jugoslavi interruppero la tappa del Giro d’Italia a colpi di pistola, ferendo un agente della Polizia Civile. Il giorno successivo a Trieste una bomba ferì 9 militari anglo-americani, mentre elementi filo-jugoslavi spararono contro manifestanti filo-italiani, che si scagliarono contro alcune sedi filo-titoiste. A fine luglio soldati jugoslavi sconfinarono nella Zona A presso Gorizia uccidendo un soldato americano. Alcuni giorni dopo militari jugoslavi spararono contro soldati inglesi presso il posto di blocco di Prebenico (fra Trieste e Capodistria). Il 31 luglio 1946 l’agenzia ANSA informò di un rastrellamento anglo-americano in corso nella zona di Monfalcone per sventare un atteso colpo di mano jugoslavo.
Il 9 agosto 1946 soldati jugoslavi assaltarono con bombe a mano una manifestazione filo-italiana a Gorizia. L’11 agosto una bomba fu rinvenuta a Trieste sotto la tribuna della giuria di una gara internazionale di canottaggio, dopo che i filo-jugoslavi avevano espresso la volontà di boicottare qualsiasi manifestazione, anche sportiva, italiana. Il 19 agosto 1946, in concomitanza con la crisi dovuta al sequestro di un aereo anglo-americano e all’abbattimento di un altro da parte jugoslava, i britannici accusarono la Jugoslavia di fomentare disordini e proteste in Zona A anche «sostenendo attività criminali e terroristiche». All’inizio di settembre furono segnalate sei squadre di agenti sabotatori jugoslavi a Trieste, Monfalcone, Grado, Cervignano, Latisana e Pordenone volte a una presunta attività terroristica. Ad Auzza, in Zona B, una loro squadra avrebbe fatto saltare le dighe di Sottosella e Canale d’Isonzo in caso di assegnazione all’Italia (poi non avvenuta). Altri specialisti di demolizioni avrebbero operato a Trieste, Monfalcone e Gorizia. In Istria unità d’assalto dei servizi segreti militari con base a Dignano, Gallesano, Fasana, Pola, Capodistria, Rovigno, Parenzo e Pisino avrebbero avuto l’incarico di compiere anche attività terroristiche e atti di sabotaggio. Il 14 settembre una bomba esplose di notte a Trieste in un ricreatorio comunale distruggendone due piani e la facciata. Ai primi di ottobre sempre del 1946 furono segnalati a Trieste una trentina di ex prigionieri tedeschi equipaggiati dagli jugoslavi con fucili ed esplosivi per compiere sabotaggi e attentati in Zona A contro gli anglo-americani. Il 3 novembre 1946, inoltre, elementi filo-jugoslavi assassinarono l’autista del sindaco filo-italiano di Monfalcone. La strage di Vergarolla è dunque perfettamente compatibile con la politica aggressiva e terroristica attuata da Tito in quel periodo contro i filo-italiani e gli anglo-americani nella Venezia Giulia. E Non vanno dimenticate le contemporanee ardite attività jugoslave in Grecia, Albania e Spagna.
LE TESTIMONIANZE
Ci sono infine i testimoni della strage. All’epoca qualcuno parlò di uno sconosciuto visto arrivare su una barchetta di idrovolante alla banchina del cantiere navale “Lonzar”, vicino alla spiaggia di Vergarolla; avrebbe detto di venire da Brioni, che era Zona B. Il galleggiante di uno degli idrovolanti già utilizzati dalla X MAS sull’isola potrebbe essere stato riciclato dagli jugoslavi per raggiungere il luogo del crimine. Dopo l’esplosione il prof. Giuseppe Nider e un maggiore britannico trovarono in una cava vicina alla spiaggia tracce di apparati per l’innesco remoto di esplosivi uguali a quelli usati nelle miniere dell’Arsa, allora Zona B. Come ignorare poi la testimonianza del defunto giornalista croato David Fistrovic, il quale sul “Glas Istre” di Pola raccontò di un polese che nella lettera d’addio scritta nel 1979 prima di suicidarsi avrebbe ammesso di aver agito «su ordine di Al-bona»? Fistrovic rivelò al consigliere del Libero Comune di Pola in Esilio Lino Vivoda il nome di questo attentatore: Ivan Nini Brljafa, nel 1946 agente dei servizi jugoslavi con sede tra Fasana e Peroi (ossia proprio davanti alle Isole Brioni). Un signore residente a Pola ha inoltre rivelato al nostro socio Claudio Bronzin di conoscere i nomi di due polesani che il giorno dopo l’attentato avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner. In questo numero ripubblichiamo la confidenza fatta a un altro esule polese, il defunto Sergio Rusich, da un connazionale residente, secondo cui quattordici polesi brindarono in un’osteria di Monte Grande dieci giorni dopo la strage. Pubblichiamo altresì la testimonianza resa alla “Voce del Popolo” da una polesana “rimasta”, secondo la quale molti degli attentatori erano comunisti italiani di Pola i cui nomi sono noti in città. Un anziano rovignese assai attendibile ci ha inoltre riferito che a Rovigno alcuni ferventi titoisti esultarono appena seppero della “lezione” data alla “reazione” italiana. Purtroppo tuttora a Pola chi conosce l’identità degli esecutori ha paura di parlare. Un timore comprensibile, che però non fa cessare le illazioni sui responsabili di quel massacro.