Scritto da Lucio Toth
E’ questo il periodo di maggiore prosperità dei Comuni dalmati, che seppero ricavarsi una vasta area di autonomia, se non di vera e propria indipendenza, approfittando del confronto egemonico sulla loro regione tra il regno di Ungheria, che si stava affacciando alla storia dell’Europa occidentale e aumentava anche il suo ruolo nell’area balcanica, e la Repubblica di Venezia, che stava diventando la maggiore potenza talassocratica del Mediterraneo, proprio attraverso il controllo, per essa vitale, delle coste istriane e dalmate.
Va sottolineato in questa sede che la crescita della Serenissima come stato indipendente dell’Europa medievale dipende totalmente dalla potenza conquistata in Adriatico e nel Levante (Istria, Dalmazia, Cipro, Creta, Arcipelago Egeo) e che solo più tardi, tra il finire del Trecento e i primi decenni del 1400, la Repubblica estese i suoi domini sulla terraferma veneta. Non per niente la più grande festa veneziana, quella della Sanza – che si celebra il giorno dell’Ascensione – trae origine dall’impresa istro-dalmata di Pietro II Orseolo ricordata più sopra, che attribuì al doge per il futuro il titolo di “Dux Dalmatiae”.
Ed è anche il periodo di massimo sviluppo dell’ordinamento comunale, che passa dalle forme del Priorato e del Consolato (un “Prior” o più “Consules” al vertice delle magistrature) a quelle più mature del regime podestarile, seguendo la contemporanea evoluzione del diritto comunale nella penisola italiana e nella valle padana.
Occorre anzi osservare che se fino alla fine del 1100 le forme degli ordinamenti locali si modellano sulle analoghe strutture cittadine delle Puglie – intente a difendere le autonomie acquisite sotto Bisanzio dalle pretese accentratrici della nuova ed esigente dinastia normanna – a partire dal 1200, con la fine dell’autorità bizantina, i comuni dalmati guardano più verso le Marche e l’Italia centrale, in quanto l’autonomia comunale del Mezzogiorno va deperendo progressivamente per effetto della vigorosa riforma dell’imperatore svevo Federico II, mentre sono in pieno sviluppo le autonomie dell’Italia centro-settentrionale, pervenute anch’esse alla forma podestarile, prima di transitare verso il regime delle Signorie, che si concluderà più o meno nel XV secolo con la formazione degli Stati regionali (Repubbliche di Genova, Firenze, Lucca; Ducato di Savoia; Ducati di Milano, Mantova, Ferrara, Urbino; Repubblica di Venezia; ecc.).
Una figura particolare dell’ordinamento cittadino dalmato è il “Conte”. Questa carica si incontra con frequenza proprio nel periodo considerato, durante il quale i Comuni passano dai patti di dedizione a Venezia ai patti giurati con i re ungheresi e viceversa. Solitamente, ma non sempre, il Conte è designato o almeno confermato dall’autorità egemone: quella veneziana o quella regale magiara. Altre volte rimane di elezione da parte degli organi collegiali cittadini, come il Podestà, che per sua natura è sempre di nomina elettiva. E’ chiaro che la nomina esterna del Conte è il simbolo tangibile dello stato di soggezione del comune all’egemonia forestiera. Infatti resterà la carica stabile delle città dalmate durante tutto il periodo di piena sovranità veneziana, dal principio del Quattrocento alla fine della Repubblica.
La costituzione cittadina si regge, al momento della sua piena maturità, sugli organi tipici del diritto pubblico italiano: un “Magnum Consilium” o Maggior Consiglio, di cento-trecento membri in parte rinnovabili, formato per diritto ereditario dal patriziato cittadino, in gran parte di origine romano-bizantina in quanto discendente dall’antico ceto tribunizio; un consiglio più ristretto che esercita l’effettivo potere esecutivo, di venti-trenta membri, chiamato a volte “Consiglio di credenza”, altre “Consiglio dei Pregadi”. Spesso si trova anche un organo più snello, da tre a cinque membri (Consiglio dei Savi), che coadiuva direttamente il podestà o il conte nel governo della città.
Anche la struttura sociale delle città ripete lo schema di stratificazione dei comuni italiani: dai “maiores”, antichi o nuovi nobili con proprietà terriere, fondaci mercantili, attività armatoriali; “mediocres”, media borghesia cittadina di commercianti, professionisti, intellettuali (speziali, medici, letterati, notai, “mastri” di arti e mestieri, ecc.), e il cosiddetto popolo minuto o “minores” (piccoli artigiani, cordai, marinai, pescatori, ortolani, famigli delle case agiate,ecc.). E’ nella classe media che si sviluppa, come in tutto il resto d’Italia, l’organizzazione solidaristica della Confraternite (dei fabbri, dei calzolai o “caligheri, dei “papuzeri”, dei calafati, degli orafi e argentieri, dei “tajapiere” o lapicidi; dei “madoneri” o pittori di icone, ecc.).
Non è difficile immaginare come una struttura sociale così complessa ed evoluta, come in tutta l’Europa occidentale di quei secoli, incontrasse una qualche difficoltà a confrontarsi con ordinamenti e mentalità feudali non consolidate, come erano quelle dei nobili magiari, croati o bosniaci che la corona ungherese inviava a rappresentarla in Dalmazia, durante le lunghe pause del suo dominio, in alternanza con i più estesi periodi di dominio-cooperazione con Venezia.
L’incertezza della politica delle maggiori città dalmate di questi due secoli risiedeva in questo dilemma: se fosse preferibile la sovranità regale ungherese, disposta a maggiori concessioni per la sua lontananza geografica e il costante ricatto di perdere uno sbocco al mare di vitale importanza per i contatti con l’Italia e il Mediterraneo, ma dalla mentalità e dai modi non sempre conciliabili con la cultura e le abitudini dei centri urbani della costa; o se fosse da privilegiare un definitivo cedimento alle pressioni veneziane, più esigenti sul piano degli interessi economici e del potere effettivo locale, ma più comprensive, per identità di mentalità e di cultura, delle richieste di autogoverno dei ceti cittadini, per lo meno sul piano formale.
Mentre i comuni minori della Dalmazia (come Arbe, Traù, Veglia, Pago, Curzola) cederanno per prime all’egemonia veneta, anche per liberarsi dell’invadenza territoriale dei comuni maggiori, analogamente a quanto sta avvenendo sulla penisola, nelle lotte tra Firenze ed Arezzo, Treviso e Oderzo, Perugia e Todi, i comuni maggiori (Zara, Spalato, Ragusa) preferiranno cercare altre alleanze, con Pisa, con Genova, con il Regno svevo di Napoli, per sfuggire alla stretta Venezia-Ungheria.