Scritto da Raffaele Panico
Il primo ad utilizzare il termine mala-vita per questioni legate alla vita politica nazionale è stato Gaetano Salvemini. Si riferiva all’ancora una volta presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che doveva affrontare l’ondata di proteste, scioperi e disagi di tipo economico. Giolitti in un discorso in Parlamento per lo scioglimento, in seguito a uno sciopero, della Camera del lavoro di Genova, disse: «Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche perché se su di quelle l’azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l’uso della forza». Gaetano Salvemini gli ricordò invece che nel Mezzogiorno d’Italia gli scioperi venivano sistematicamente repressi e l’intellettuale meridionale lo definì, Giolitti appunto, un «ministro della malavita» proprio per questa sua disattenzione riguardo ai problemi sociali del Sud che avrebbe provocato un’estensione del fenomeno del clientelismo di tipo mafioso e camorristico.
Giolitti inizia l’avventura politica, come primo ministro, con la caduta del governo Crispi, in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale, e dopo la breve parentesi dal 6 febbraio 1891 al 15 maggio 1892 del governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il 15 maggio 1892 venne nominato primo ministro Giovanni Giolitti, allora membro del gruppo parlamentare crispino. Dopo appena, neanche, un anno e mezzo, venne costretto alle dimissioni, il 15 dicembre 1893, in serie difficoltà per lo scandalo della Banca Romana (la Banca Romana a fronte di 60 milioni autorizzati aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, di allora ovvio, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie, doppia di banconote dalla stessa matrice) ed era anche malvisto dai grandi industriali e proprietari terrieri perché si rifiutava di reprimere con la forza le proteste da Nord a Sud, e si vociferava che volesse introdurre una tassa progressiva sul reddito. Dopo la Grande Guerra, guerra giusta in quanto Quarta guerra d’indipendenza per noi italiani, guerra vinta giustamente contro l’impero d’Austria-Ungheria che opprimeva le libertà dei popoli, nonostante un Trattato di Pace firmato a Londra a cui spettavano all’Italia quel «Tanto» che non si riuscì a difendere in pace dopo la guerra, con i nostri stessi alleati, tanto che con tale infamia si introdusse il concetto di «Vittoria mutilata». Allora Giolitti, proprio lui, si concentrò sulla questione di Fiume, prese contatti con la Jugoslavia, Stato effimero come la storia ha dimostrato ampiamente, e firma così il trattato di Rapallo nel novembre 1920, dove si decise che Fiume sarebbe diventata città libera e l’Italia avrebbe rinunciato ad ogni pretesa sulla Dalmazia a parte Zara (102 kmq anziché i 12.000 circa del Trattato di Londra, senza parlare dei compensi territoriali importanti su l’Impero Ottomano). Zara diveniva municipio del Regno d’Italia (fino al 10 febbraio 1947). Ci mise una “pezza” la Reggenza repubblicana instaurata da Gabriele D’Annunzio sulla città di Fiume a nome dell’Italia intera che non voleva riconoscere il trattato di Rapallo. A Fiume venne redatta anche una Costituzione forse la più bella di tutti i tempi, che meriterebbe essere studiata ed approfondita per i suoi aspetti di autodeterminazione della Donna, di «fantasia al potere» e di «estetica della bellezza e delle arti», la tutela delle libertà dell’individuo, una spinta verso «l’amore libero», i centri Yoga, i manifesti sui muri dei liberi pensieri (chiamati poi tazebao come se fosse roba cinese e non già italiana), insomma tutti aspetti che poi, solo nel 1968 riappariranno in Europa “ripresi” da movimenti postumi a quella grande rivoluzione dei sentimenti fatta dagli italiani a Fiume.
Giolitti, ministro della malavita non si smentì, e allora mandò contro la città ribelle il regio esercito e la marina che, guidati da Enrico Caviglia, bombardò la città. Numerosi i morti tra gli italiani liberi di Fiume, solo simbolica fu la resistenza dei fiumani non volendo spargere altro sangue e scatenare una ferocia tra italiani di una sponda orientale Adriatica e l’altra: e D’Annunzio firmò la resa il 31 dicembre 1920. L’infamia venne chiamata il Natale di Sangue, nacque così lo Stato libero di Fiume e la questione si risolse qualche anno dopo con l’annessione al Regno d’Italia. Ecco, questa Italia dov’è? Queste pagine belle di Storia, anziché il tedio e gli scandali ricorrenti e la forzosa e sterile quanto inutile diatriba Nord Sud, chi le ricorda?
Ad esempio, sentiamo Niccolò Tommaseo, questi chiama «Stati romani», le regioni dell’Italia centrale, governate dal fu papa-re, Stato teocratico eliminato dagli italiani con la Breccia di Porta Pia, e per analogia ad un solo corpo, quella parte geografica, lo stesso Tommaseo, lui dalmata (l’altra Italia, la Quarta sponda, la Dalmazia, che oggi è in Croazia, ma che ha prodotto pensiero italiano che mai si potrà cancellare) le definisce le «viscere del Bel paese».
Dai pensieri – scrisse – Tommaseo vengono preparate le rivoluzioni, e dalle passioni degli uomini le rivoluzioni vengono messe in moto. La rivoluzione del 1848-49, ormai era finita quando egli scrive la sua opera – da cui qui citiamo il suo pensiero – «Roma e il mondo» (siamo nel 1851!, andassero a leggerla i politici, quanto il dalmata è stato profetico!) ma proprio dalla sciagura, viene l’impegno a procurare il bene e la giusta ricompensa per il futuro d’Italia.
Tra le grandi leggi della storia ricorda questa, e sostiene, essere la più importante: «le sconfitte nel mondo sensibile, si convertano in vittorie nel mondo interiore» Ed aggiunge: «la parola va innanzi al fatto, e racconti; essa è base e cima di ogni edificio: essa rivolgersi alla coscienza del vincitore per sottometterlo, e in sua vece fa il vinto trionfare». Ha anticipato con la sua previsione la risoluzione delle sorti della patria di un paio di decenni, e di diversi decenni, la fine del papa-re nel Centro dell’Italia. Si domanda Tommaseo, se il potere temporale dei papi è veramente necessario alla maestà della chiesa. O, forse, è meglio la rinunzia, dal momento che la rivoluzione è cessata e le armi sono passate, ed è necessario un profondo ripensamento prima che nuovi fatti si compiano di nuovo. Una rinuncia della Chiesa al potere temporale è la sua redenzione, un segno di giustizia, che giova veramente alla maestà della chiesa, sbarazzarsi di un’autorità che essa è una religione.
Esaminata la formazione del potere temporale della Chiesa, dal primato di Pietro fondatore a Roma della Chiesa universale, crisalide dell’impero romano, consta come proprio dopo il periodo dell’esilio avignonese, il papato si consolida, da Patrimonio di San Pietro a Stato della Chiesa. Non concorda invece con Machiavelli sulla divisione d’Italia perseverata dai papi fin dall’alto medioevo con la chiamata dei franchi contro i longobardi che, scesi in Italia da oltralpe, stavano per compiere l’unificazione. Quanti principi italiani hanno fatto lo stesso; solo la Repubblica di Venezia non ha mai chiamato lo straniero contro l’espansione di uno stato d’Italia contro l’altro stato italiano della penisola. E poi, non vi era la percezione dell’unità del popolo, dei popoli d’Italia nella nazione italiana, prima vi era la cittadinanza romana e non una nazionalità latina, fusasi poi in latino-germanica con le infiltrazioni e le invasioni.
I mali d’Italia iniziarono proprio con il maggiore consolidamento, pretestuoso ed arrogante del potere dei preti, agli inizi del ‘500, che, oltralpe, in Germania, provocava la scissione da Roma con le tesi luterane e calviniste. È solo uno squarcio, ma l’Italia è molto più grande nei pensieri e nei gesti in tanti secoli di storia, soprattutto negli uomini nati in terre oggi perdute della Patria.
Fonte: «Rinascita», 15/10/09.