Il ricordo di questa situazione reale e obiettiva non comporta ovviamente nessun significato di rivendicazione territoriale o di messa in discussione dell’integrità di altri Stati, con i quali abbiamo e vogliamo avere rapporti di cordiale e sincera amicizia e collaborazione all’interno di un’Europa unita, che pure era nei voti dei protagonisti del Risorgimento.
In questa logica di giustizia storica si muove attualmente la sensibilità dell’opinione pubblica e la stessa legislazione della Repubblica, come dimostrano tre recenti leggi approvate dal Parlamento quasi all’unanimità: la Legge n. 92 del 30 marzo 2004 (Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…); la Legge n.193 del 28 luglio 2004 (Tutela del patrimonio storico e culturale delle comunità degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia), affidata nella sua attuazione al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e la Legge n.124 dell’8 marzo 2006 (Diritto di cittadinanza degli italiani nati nelle ex-province della Venezia Giulia e Dalmazia dopo la cessazione della sovranità italiana).
I – Gli eventi storici (1815-1918)
Premessa – La genesi dell’idea Stato-Nazione (L’Adriatico orientale in età napoleonica)
L’Istria, Fiume e la Dalmazia entrano a far parte per la prima volta dello Stato nazionale italiano in età contemporanea nel 1805 quando vengono annesse al Regno d’Italia, in base a valutazioni operate a Parigi e a Milano circa la loro appartenenza culturale, giuridica e linguistica all’Italia, insieme a Trieste e all’Isontino. A influenzare tale scelta furono anche le violente reazioni in più luoghi dell’Istria e della Dalmazia alla prima occupazione austriaca dopo il trattato di Campoformio (1797), che aveva ceduto all’Austria i territori della Repubblica di Venezia.
Successivamente, dovendo la Francia amministrare altre regioni contermini di lingua slava e tedesca sottratte all’Impero asburgico, furono istituite nel 1810 le Province Illiriche, cui furono annesse con Trieste e Gorizia anche l’Istria, Fiume e la Dalmazia, con quattro lingue ufficiali nei diversi dipartimenti: italiano, tedesco, sloveno e croato.
Questa prima appartenenza all’Europa napoleonica, durata circa un decennio, sotto il governo moderato del veneto Vincenzo Daldolo in Dalmazia e del dalmata Angelo Calafati in Istria, nel mentre riuscì a contenere le asprezze dell’anticlericalismo giacobino – non senza turbolenze nelle aree rurali – ebbe una profonda influenza sulle classi dirigenti locali, gettando i semi del futuro movimento patriottico italiano e prefigurando nel contempo il conflitto nazionale tra italiani e slavi.
1 – Le società segrete all’epoca della Restaurazione
La nostalgia popolare in Istria e in Dalmazia per il buongoverno della Serenissima si incontrò con la diffusione delle idee liberali nelle élites civili e militari di tutte le province adriatiche dell’Impero austriaco considerate culturalmente “italiane”. E ciò malgrado gran parte dell’aristocrazia si sentisse protetta dal governo imperiale e la maggioranza della popolazione rurale fosse acquisita all’obbedienza verso la corona, soprattutto per l’influenza del clero sloveno e croato prevalentemente legittimista. Va notato però che fino al 1853 la Dalmazia fu esonerata dal servizio militare obbligatorio per la tenace opposizione delle popolazioni rurali e montane.
Nelle città e nelle borgate si formarono nei decenni tra il 1820 e il 1840 le società segrete, con diverse denominazioni e più o meno legate – secondo i rapporti dell’imperial-regia polizia – alle logge massoniche italiane, analogamente a quanto avveniva in altri Stati italiani.
A mobilitare queste associazioni, più o meno collegate con la Carboneria, molto contribuì la solidarietà con la guerra d’indipendenza greca, in forza dei legami culturali e politici con l’aristocrazia e la borghesia greco-veneta delle Isole Ionie, anch’esse appartenute all’Europa napoleonica e ora sotto amministrazione inglese, che favoriva i moti anti-ottomani sul continente greco.
E’ nota l’amicizia di Ugo Foscolo, nato a Zante ed educato a Spalato, ove viveva la sua famiglia, con i patrioti greci Calvos e Solomòs. Come è noto l’esilio a Corfù di Nicolò Tommaseo per sottrarsi alle persecuzioni austriache. Nobili istriani e dalmati parteciparono personalmente alla guerra d’indipendenza ellenica, come Pasquale Besenghi degli Ughi da Isola d’Istria. Primo Presidente della Repubblica Greca fu tra l’altro Ioannis Capodistria, nobile corfiota di origine e cultura istro-veneta.
“Greci del Silenzio” era anche il nome di una delle prime società segrete diffusa nella regione. Un’altra si chiamava “Esperia”, con richiamo più diretto ai moti per l’unità d’Italia. Né mancava una componente di cattolici liberali, la “Setta dei Guelfi”. Un processo celebrato a Spalato e a Zara nel 1820-22 si concluse con l’inaspettata assoluzione dei cento imputati. Alla società Esperia, sorta tra gli ufficiali veneti, istriani e dalmati dell’Imperial-Regia Marina Austro-Veneta, appartenevano anche i fratelli Emilio e Attilio Bandiera (la cui madre era di origine dalmata). Alcuni di questi gruppi confluirono nella mazziniana “Giovane Italia”.
2 – La Rivoluzione del 1848-1849 e le sue ripercussioni nell’Adriatico orientale
Le rivoluzioni europee della primavera del 1848 ebbero rilevanti ripercussioni nelle province adriatiche dell’Impero austriaco. Da un lato si svilupparono nelle città moti liberali con vasto seguito popolare per chiedere all’Imperatore Francesco Giuseppe la Costituzione e il mantenimento dell’autonomia delle tre entità: la Provincia del Litorale (Trieste, Istria e Isontino), il Regno di Dalmazia e il Corpus Separatum di Fiume. Anima del movimento erano i ceti intellettuali italiani allora al governo delle amministrazioni locali. Fu costituita nelle città la Guardia Nazionale composta da cittadini “per assicurare l’ordine pubblico”.
Il movimento mantenne un profilo prevalentemente legittimista verso Vienna, ottenendo l’acquiescenza delle autorità imperiali. Non mancarono però episodi significativi come la richiesta del Comune di Spalato di aderire alla rinata Repubblica Veneta e la progettata ribellione di Zara e della sua guarnigione al comando del colonnello Sirtori, rinviata poi per volontà del Tommaseo, codittatore del governo rivoluzionario veneziano.
Consistente fu la partecipazione degli istriani e dei dalmati alla Prima Guerra d’Indipendenza, con l’adesione di centinaia di volontari a difesa della Repubblica di Venezia e della Repubblica Romana e nelle file dell’esercito piemontese. A Venezia, oltre a Nicolò Tommaseo, con Daniele Manin alla guida della Repubblica, molti membri del governo erano dalmati e istriani: il ministro della Marina e della Guerra Antonio Paulucci, Matteo Ballovich, Sovrintendente alla Marina, Leone Graziani, Vincenzo Solitro, Matteo Petronio. Si formò un’intera Legione Dalmato-Istriana. A Roma collabora con i Triumviri il liberale raguseo Federico Seismit-Doda (autore de “la Romana”, l’inno dei difensori di Roma), che più tardi sarà ministro nel Governo Crispi. E nella difesa della città si distinsero numerosi volontari dalmati e istriani.
In Ungheria i coscritti fiumani nell’esercito ungherese costituirono una “Legione Fiumana”, composta da italiani, che combatté a fianco degli insorti ungheresi.
Alla “normalizzazione” dopo la sconfitta di Novara e al ritiro della Costituzione da parte dell’Imperatore seguì un’aspra repressione dei quadri amministrativi e militari che avevano preso parte, in patria o fuori, agli eventi rivoluzionari: condanne al carcere e all’esilio, assegnazione dei militari semplici alle compagnie di disciplina, allontanamento dai pubblici uffici di funzionari e magistrati.
3 – Verso l’unità d’Italia (1859-1861)
Dopo l’esperienza del 1848-1849 il controllo del governo austriaco sulle province adriatiche si farà più serrato, con l’organizzazione di una rete di informatori, che teneva sotto continua sorveglianza migliaia di persone sospette di appartenere al cosiddetto “partito italiano”, sia tra i ceti sociali più elevati (armatori, industriali, professionisti) sia tra quelli popolari e piccolo-borghesi (artigiani, marittimi, impiegati). Furono inviati a presidiare le tre regioni reggimenti croati e tirolesi di sicura fedeltà, allontanandone i coscritti locali e i reparti formati da italiani del Lombardo-Veneto.
Alla vigilia della II Guerra d’Indipendenza intere aree dell’Istria e della Dalmazia (zona di Pola e Bocche di Cattaro) furono poste in stato d’assedio, per prevenire manifestazioni filo-italiane, l’ammutinamento degli equipaggi e la fuga di informazioni sulle difese navali austriache.
Anche in questo periodo si verificò un ingente afflusso di volontari istriani, dalmati e fiumani nell’esercito piemontese e nelle formazioni garibaldine, molti dei quali non rientreranno più in patria per sottrarsi alle prevedibili persecuzioni.
Particolari misure furono adottate verso i vertici del Lloyd Austriaco e delle Assicurazioni Generali, sospettati di collusione con il governo di Torino e di finanziamento clandestino nella raccolta di fondi per i volontari. Sotto stretta sorveglianza anche i comandanti della marina mercantile, per “intelligenza” con la flotta franco-sarda che incrociava lungo la costa.
Durante la breve occupazione delle isole di Cherso e di Lussino da parte delle navi franco-sarde, la popolazione organizzò manifestazioni popolari, innalzando nelle piazze il tricolore italiano e gli “alberi della libertà”.
Singolari le informazioni carpite dalla polizia al musicista spalatino Francesco De Suppè, dopo un lungo soggiorno nella città natale, circa i preparativi a Zara, Sebenico e Spalato per accogliere uno sbarco di garibaldini. “Le signore – si legge nel rapporto – usavano reggicalze bianco, rosso e verdi e …confezionavano camice rosse.” Soltanto un Von Suppè era in grado di accedere a scoperte così riservate!
4 – Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861) e la III Guerra d’Indipendenza (1866)
La proclamazione del Regno d’Italia venne salutata con manifestazioni di entusiasmo nelle città del litorale austriaco. Molti dalmati e istriani militavano nelle formazioni garibaldine e nell’esercito italiano. Si instaura tuttavia nei territori un clima di ansia e di tensione, per il deciso mutamento del governo di Vienna, sempre più favorevole all’elemento sloveno e croato. Dopo la perdita del Veneto gli italiani sono diventati una minoranza nazionale marginale, anche se sono ancora egemoni nell’economia e nella cultura di Trieste, di Fiume e di tutta la costa adriatica.
Il risveglio della coscienza nazionale croata comporta la nascita dei partiti “annessionisti”, favorevoli all’annessione dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia alla Croazia. Ad essi si contrappongono i partiti “autonomi”, il cui primo scopo è difendere l’identità italiana dell’intera regione e l’uso ufficiale della lingua italiana nelle scuole e negli atti pubblici.
Nel 1861 alla richiesta del Parlamento di Vienna di inviare una delegazione istriana la Dieta Provinciale, riunita a Parenzo nella biblioteca del palazzo de Vergottini, risponde:”Nessuno”. La stessa risposta daranno alle richieste di partecipare alla Dieta di Zagabria la Dieta della Città Libera di Fiume e la Dieta Dalmata, riunita a Zara: ”Nessuno”. Le “Diete del Nessuno” resteranno un punto fermo dell’orgoglio nazionale italiano fino alla prima guerra mondiale.
Le nuove attese per uno sbarco di Garibaldi in Dalmazia nell’estate del 1866 andarono deluse dopo la sconfitta di Lissa, dove erano presenti marinai di nazionalità italiana su entrambe le flotte, tanto che rimase la leggenda che l’ammiraglio Tegethof impartisse gli ordini in dialetto veneto. A guerra finita si rinnovarono gli arresti e le condanne dei patrioti sospettati di intelligenza con le forze armate italiane.
Il liberalismo italiano nelle province austriache dell’Adriatico cercava la solidarietà dei liberali delle altre nazionalità in seno al parlamento di Vienna. Una leale alleanza si stabilì più volte con i deputati polacchi, ungheresi, cechi, serbi e anche con i liberali tedeschi. Più difficile il rapporto con i partiti sloveni e croati, ancora legati a uno stretto lealismo asburgico.
La battaglia per l’autonomia sarà vincente in Istria e a Fiume, dove le amministrazioni locali restarono quasi tutte al partito autonomista italiano. In Dalmazia la maggioranza autonomista alla Dieta venne meno nel 1870 e nel 1882 erano stati conquistati dal partito annessionista croato tutti i comuni, ad eccezione di Zara, che resterà al partito italiano fino al 1915. Ciononostante la Dalmazia restò amministrativamente autonoma e direttamente dipendente da Vienna, con l’italiano riconosciuto come lingua ufficiale, accanto al tedesco e al serbo-croato.
5 – La difesa dell’identità italiana all’epoca della Triplice Alleanza (1882-1915)
Con la stipula della Triplice Alleanza tra Italia, Germania e Austria-Ungheria nel 1882 la situazione degli italiani nelle province adriatiche dell’Impero si fece ancora più difficile, non avendo il governo di Roma l’interesse politico di proteggere la minoranza italiana, per non turbare i rapporti con il governo di Vienna. La difesa del carattere italiano e la continuità nell’uso della lingua italiana nelle scuole e nei pubblici uffici restò quindi affidata alle autorità locali quando i comuni erano retti da partiti italiani, come in gran parte dell’Istria e a Fiume, o all’iniziativa privata della componente italiana della popolazione.
Determinante fu il ruolo della Lega Nazionale, con sede centrale a Trieste e sovvenzionata da contributi privati raccolti prevalentemente nelle stesse province definite “irredente”.
L’irredentismo fu una mutazione spontanea del movimento autonomista nel momento in cui le élites politiche italiane si resero conto che il lealismo al governo austriaco e anche a quello ungherese a Fiume non pagavano e che la protezione dell’identità italiana o di quanto ne restava non poteva più affidarsi alla buona fede dell’amministrazione imperiale e alla simpatia personale dei suoi dirigenti. All’aspirazione all’autonomismo si sostituì, alla fine dell’Ottocento, un’aperta volontà di entrare a far parte dello Stato italiano.
Più stringenti divennero quindi le persecuzioni delle autorità – specie dopo il fallito attentato e l’esecuzione di Guglielmo Oberdan – e numerosi intellettuali trovarono rifugio in Italia, ove presero a svolgere un’intensa opera di propaganda per la “causa adriatica”. L’unico provvedimento favorevole adottato dal parlamento italiano fu la legislazione speciale per gli “italiani non regnicoli”, che consentiva ai trentini, ai giuliani e ai dalmati di nazionalità italiana l’acquisizione automatica della cittadinanza del Regno e l’accesso alle cariche pubbliche. Si intensificò quindi l’affluenza dei giovani alle università (negando l’Austria l’istituzione di un’università italiana a Trieste) e alle accademie militari del Regno, come di docenti universitari, di artisti, di giornalisti e di professionisti, che si trasferirono a Roma, a Firenze, a Milano, a Bologna, abbandonando gradualmente le posizioni personali acquisite a Vienna, a Graz o a Budapest.
Malgrado il carattere chiaramente nazionale dell’irredentismo esso conservò tuttavia fino al 1915 un’aspirazione trans-nazionale ereditata dal pensiero mazziniano e cattolico-liberale, mantenendo contatti culturali e politici con tutte quelle che venivano considerate le “nazionalità oppresse” della Duplice Monarchia, comprese le nazionalità slovena, croata e serba, con le quali si condivideva lo stesso territorio. A posizioni più marcatamente nazionalistiche si accompagnarono sempre e prevalsero le posizioni di apertura e di dialogo, come dimostrano le opere e gli atteggiamenti concreti degli scrittori triestini, istriani e dalmati italiani e la loro attenzione alle culture e alle discipline linguistiche dei popoli vicini. I più importanti germanisti, slavisti e studiosi di lingua ungherese erano proprio giuliani, dalmati e fiumani di sentimenti irredentisti.
Gli eventi italiani venivano seguiti dalla stampa locale con la massima partecipazione. Dal terremoto di Messina del 1908 alla conquista italiana della Libia nel 1911 la solidarietà delle città e della popolazione italiana dell’Istria, della Dalmazia e di Fiume fu sempre manifestata apertamente sfidando la tolleranza delle autorità di polizia. Le vie e le piazze si riempivano di tricolori italiani ad ogni occasione e le società ginnastiche, filarmoniche, come le società operaie di mutuo soccorso, furono focolai costanti di un patriottismo sofferto, ma ostentato con dignità e orgoglio.
Significativo fu anche nelle province irredente il fenomeno del volontarismo garibaldino. Triestini, istriani, dalmati e fiumani parteciparono in gran numero alle spedizioni garibaldine in Grecia nelle guerre per la liberazione di territori ancora soggetti all’Impero ottomano, distinguendosi più volte, come a Domokòs nel 1891.
L’affermarsi dello iugoslavismo, cioè di una unione di tutti gli slavi del sud di cui era stato precursore lo studioso ed ecclesiastico croato Josip Strossmayer (1815-1905), contribuì all’inizio del Novecento ad orientare parte dell’opinione pubblica croata della Dalmazia verso la collaborazione con la Serbia. Frequenti furono nelle città dalmate del centro-sud dimostrazioni di entusiasmo per le vittorie serbe durante le guerre balcaniche (1912-1913) contro l’impero ottomano.
Aspirazioni opposte si sovrapponevano: tra gli italiani si diffondeva sempre più l’irredentismo, per l’unione all’Italia, ancorché alcuni pensassero ancora che l’Austria fosse l’unica garanzia contro la prevalenza slava all’interno dell’impero; tra gli sloveni e i croati gli animi erano divisi tra la fedeltà agli Asburgo con un nuovo equilibrio federale tra tedeschi, magiari e slavi (trialismo), alimentata dal clero cattolico, e l’unione con i serbi in un nuovo stato unitario.
Non estranea a quest’ultima tendenza, ma non necessariamente connessa, era l’idea pan-slavista, coltivata dagli ambienti nazionalisti russi. Da un lato quindi si confermò nell’opinione pubblica slovena e croata una generale tendenza anti-italiana, per soffocare le aspirazioni dei giuliani e dei dalmati italiani all’unione con il Regno dei Savoia, mentre dall’altro venne meno in Dalmazia quell’intesa tra italiani e serbi che aveva rafforzato nelle amministrazioni locali il movimento autonomista.
6 – La Prima guerra mondiale (1915 – 1918) e i Tratatti di Rapallo (1920) e di Roma (1924)
Alla luce di tali premesse risulta naturale, dopo l’attentato di Saraievo, la partecipazione degli irredentisti giuliano-dalmati al movimento interventista, che poteva contare su qualificati ambienti intellettuali italiani (come il gruppo fiorentino de “La Voce”), sui ceti popolari di orientamento repubblicano, radicale e anarchico, oltre che su ambienti economici influenti, ma anche su ambienti cattolici liberali, come ad esempio Luigi Sturzo. Un dissenso invece si determinò tra i socialisti giuliani e trentini, appoggiati da alcuni ambienti sindacali di sinistra, e la maggioranza del partito socialista italiano, di indirizzo neutralista, che avrà le note conseguenze nel dopoguerra.
Migliaia furono i “volontari irredenti” nella marina e nell’esercito italiano con un alto tributo di eroismo e di sangue. Sono rimasti nell’immaginario collettivo, vicino al socialista trentino Cesare Battisti, i triestini Scipio Slataper e Spiridione Xidias, gli istriani Fabio Filzi, Nazario Sauro, Giani e Carlo Stuparich, il dalmata Francesco Rismondo.
Febbrile fu l’attività dei politici giuliani e dalmati rifugiati a Roma anche in occasione del Patto di Londra con l’Intesa dell’aprile 1915, anche se prevalsero in quella sede, nel profilo dei futuri confini, criteri di carattere prettamente militare, anziché quelli di carattere linguistico, storico e culturale suggeriti dagli irredentisti delle regioni interessate.
Altri due fenomeni significativi con carattere di massa fu l’internamento nelle province continentali dell’Impero austro-ungarico di oltre 50.000 civili di nazionalità italiana provenienti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, con interi consigli comunali; misura adottata dalle autorità per la manifesta ostilità anti-austriaca e filo-italiana di tali regioni, nonché l’esodo in territorio italiano di circa 40.000 persone provenienti dalle stesse province adriatiche, proprio per evitare le misure repressive dell’Austria (ved. Atti della Commissione Parlamentare istituita nel dopoguerra sul problema dei profughi).
Per converso si rafforzò durante la guerra nelle élites croate e slovene la tendenza iugoslavista fino a stringere con la Serbia il patto di Corfù nel 1917, in previsione di una sconfitta dell’Austria-Ungheria e in funzione unionista e anti-italiana.
Di fronte a questa minaccia si fece sempre più accesa nella popolazione italiana del Litorale, di Fiume e della costa dalmata l’attesa di una vittoria dell’Italia e di una “redenzione” delle loro regioni dal giogo austriaco e dal pericolo di un’annessione ad uno stato slavo unitario.
Entusiastica fu quindi l’accoglienza dei soldati e dei marinai italiani da parte delle popolazioni delle città istriane e dalmate nei primi giorni del novembre 1918, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, come attestano le documentazioni filmate e fotografiche.
Fu in quei giorni che gli istriani e i dalmati sentirono compiuto il cammino del Risorgimento. Si aprì invece la questione fiumana, con l’impresa di Gabriele D’Annunzio e dei suoi volontari, formati da interi reparti delle forze armate, formalmente disertori, e da civili locali.
Il confine trovò sistemazione definitiva con il Trattato italo-iugoslavo di Rapallo del 1920, che assegnava all’Italia la Venezia Giulia (secondo la definizione del geografo goriziano Isaia Ascoli) fino al crinale alpino e alle isole quarnerine di Cherso e Lussino- con l’esclusione di Fiume – l’enclave di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa in Dalmazia, e con il Trattato di Roma del 1924, che riconosceva al Regno anche la città di Fiume.
Si pose in quegli anni il problema dei rapporti con le numerose minoranze slovene e croate delle province annesse, circa un terzo della popolazione, nettamente prevalenti in alcune zone delle Alpi Giulie e del Carso. Né il governo liberale degli anni 1918-1922, né tanto meno il successivo regime fascista, seppero affrontare la situazione con l’equilibrio e la saggezza necessari, suggeriti soprattutto – come dimostrano i documenti dell’epoca – dalle classi dirigenti locali di prevalente indirizzo liberale, che ben conoscevano le situazioni reali e le tradizioni storiche di convivenza di quelle regioni plurali.
Sono queste le ragioni per le quali è giusto e doveroso che l’Italia democratica di oggi affronti con maturità politica e culturale il problema storico del confine orientale, per restituire a tutti gli italiani il senso dell’identità nazionale e stabilire un rapporto fecondo di comprensione e di cooperazione con i popoli degli Stati confinanti, che hanno raggiunto a loro volta, con tanti sacrifici, la loro indipendenza e sovranità.
II – I protagonisti (personalità della cultura e della politica)
Pier Alessandro Paravia (1797-1857)
Nasce a Zara e dopo gli studi al Liceo Convitto Marco Foscarini di Venezia si laurea in legge a Padova, secondo la consolidata tradizione dei giovani intellettuali dalmati. A Venezia inizia i suoi studi filologici sulle lingue italiana e latina, con le prime traduzioni e pubblicazioni, finché viene chiamato nel 1830 alla cattedra di eloquenza italiana all’Università di Torino.
Qui svolge la sua opera di ricercatore, di storico e di educatore per venticinque anni, decisivi nella formazione delle classi dirigenti piemontesi e italiane che faranno il Risorgimento. Ardente patriota, pur nella modestia e nell’equilibrio del carattere, è un sostenitore della purezza della lingua come fondamento dell’unità nazionale italiana, che egli vede chiarissima con i suoi occhi di dalmata, dalle Alpi alla Sicilia. “Nel Risorgimento della lingua – egli afferma – sta il Risorgimento della Nazione”.
Convinto del profondo legame tra la cultura cristiana e lo spirito nazionale, i suoi primi saggi affrontano i temi “Sulle relazioni del Cristianesimo con la letteratura” e “Del sentimentopatriottico”.
In corrispondenza e amicizia con le personalità più rilevanti del suo tempo, come Rosmini e Tommaseo, è autore di opere rimaste fondamentali, come il“Canzoniere nazionale” stampato nel 1849, le “Memorie veneziane di letteratura e storia” del 1851 o le “Lezioni di storiasubalpina” del 1854, nelle quali esorta la gioventù piemontese all’amore e alla conoscenza della lingua italiana, affinché il Piemonte potesse adempiere al compito storico di unificare la nazione.
Prima di morire a Torino nel 1857 vuole fare dono alla città natale della sua biblioteca, ottenendo la collaborazione dei più illustri letterati italiani che da ogni regione inviano a Zara migliaia di volumi pregiati, che il Comune ospitò nella elegante Loggia cittadina, fondata nel 1300 e ricostruita da Giangirolamo Sammicheli nel 1565. La Biblioteca Paravia fu la fonte dell’italianità dalmatica fino alla distruzione di Zara nella seconda guerra mondiale. Oggi ha cambiato nome, ma il suo archivio, pur danneggiato dai bombardamenti alleati e da atti vandalici al momento dell’occupazione iugoslava della città nell’ottobre 1944, rimane una testimonianza incancellabile della cultura latina e veneta della Dalmazia.
Niccolò Tommaseo (1802-1874)
Nasce a Sebenico. Compie gli studi a Padova. La sua opera di linguista e di lessicografo (“Il Vocabolario della lingua italiana”e il“Il Vocabolario dei sinonimi”) costituisce a tutt’oggi un pilastro della lingua italiana moderna ed esercita quindi un’influenza determinante sull’unificazione culturale e politica del Paese. In contatto con le personalità di rilievo del suo tempo, nonostante il carattere schivo e angoloso, si pone al centro del dibattito culturale e politico, come dimostrano i suoi carteggi con gli esponenti più qualificati della cultura filosofica e letteraria del Risorgimento.
Negli anni di esilio all’estero, per sfuggire alle persecuzioni austriache a causa delle sue idee e della sua azione politica, viene a contatto con le correnti più avanzate del pensiero contemporaneo europeo, elaborando una visione unitaria e realistica della nazione italiana e del nuovo Stato nazionale che si va formando. Protagonista delle rivoluzione veneziana del 1848-1849, si trova a capo, con Daniele Manin, della rinnovata Repubblica Veneta di impronta liberale.
Fervente cattolico con una vena tradizionalista, non teme di mettersi in contrasto con la Chiesa per la sua opposizione al potere temporale dei Papi e la sua libertà di pensiero. Spirito ecumenico verso le chiese ortodosse e sensibile alle aspirazioni di libertà di tutti i popoli studia e diffonde in Europa la poesia popolare neogreca, serbo-croata e corsa. Promotore della laicità dello Stato nel pensiero e nell’azione politica, afferma l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, con particolare attenzione alle comunità israelitiche, che vuole libere da ogni condizionamento giuridico e pregiudizio razziale.
La sua poesia e la sua narrativa (“Scintille / Iskrice” , “Fede e bellezza”, “Il Duca di Atene” e gli altri romanzi storici tesi a ricuperare le grandi passioni politiche degli italiani nel Medio Evo e nel Rinascimento), pur non raggiungendo una compiutezza estetica, innovano profondamente la lirica e il romanzo italiani, inserendoli nelle correnti più vive della letteratura europea, con anticipazioni psicologiche e una forza mistica che avvicinano alcuni suoi passi più felici ai grandi autori francesi e russi dell’Ottocento. Le sue intuizioni troveranno eco nella poesia, nel teatro e nella narrativa italiana del primo Novecento. Muore nel 1874 a Firenze, la città che amava come il centro più fecondo dell’arte, della lingua e della civiltà italiane.
Carlo De Franceschi (1809-1893)
Nasce a Moncalvo, presso Pisino, al centro dell’Istria, e compie gli studi nel ginnasio-liceo di Capodistria e all’Università di Graz. Tornato in patria si unisce a un gruppo di giovani intellettuali liberali che pubblicano segretamente il “Giornale critico politico”, di forte intonazione antiaustriaca. Entra nella Imperial-regia magistratura, come molti altri intellettuali delle province austro-italiane, essendo l’italiano lingua ufficiale nell’attività giudiziaria.
Sorvegliato dalla polizia per la sua propaganda liberale e a favore dell’unità italiana, nel 1848 partecipa ai moti popolari per la Costituzione e viene eletto deputato di Pisino al Parlamento costituente dell’Impero, insieme ad altri deputati italiani dell’Istria (Michele Fachinetti, Antonio Madonizza, Francesco Vidulich, Giuseppe Vlach). Con essi di oppone efficacemente alla richiesta di aggregazione dell’Istria alla Confederazione Germanica, rivendicando l’appartenenza all’Italia della regione natale.
Manifesto dell’autonomismo istriano divenne il suo articolo “Per l’italianità dell’Istria”, pubblicato prima a Vienna e poi a Trieste, con l’appoggio del patriota e dantista spalatino Giulio Solitro.
A seguito della sua costante attività politica, il Governo austriaco nel 1854 lo espelle dalla magistratura imperiale, accusandolo di essere un “noto apostolo del Mazzini”. De Franceschi si trasferisce a Fiume e torna in Istria nel 1861 per partecipare a Parenzo alla “Dieta del Nessuno”, assunta ad evento emblematico della volontà degli istriani di staccarsi da Vienna per entrare a far parte del nuovo Stato Italiano.
Perseguitato ancora dalla polizia, non deflette dalle sue posizioni liberali con la politica attiva e le sue pubblicazioni sulla storia delle città e dei comuni dell’Istria, ponendone in risalto le tradizioni e il carattere italiani. Muore nella casa natale di Moncalvo di Pisino nel 1893.
Carlo Combi (1827-1884)
Nasce a Capodistria da nobile famiglia di patrioti e compie gli studi liceali tra la città natale, Trieste e Padova, dove – come centinaia di giovani giuliano-dalmati – frequenta quell’università, trasferendosi poi a Genova durante la Prima Guerra d’Indipendenza, dove si laurea in diritto.
Dopo aver collaborato giovanissimo al periodico milanese “Pio IX”, proseguito nel quotidiano “L’Avvenire d’Italia”, e altri fogli milanesi e liguri, nel 1851 rientra in Istria aderendo al movimento liberale e iniziando la sua vasta attività di pubblicista nei giornali italiani che si stampano in Istria, a Trieste e a Fiume.
Erede delle posizioni politiche del padre Francesco, già Podestà di Capodistria, e assertore deciso della “venezianità” dell’Istria e del suo ruolo di “Porta Orientale d’Italia”, si batte per l’unione della regione al Lombardo-Veneto, così da legarne i destini nel processo di unificazione italiana. Visione lungimirante che, al termine della II Guerra d’Indipendenza, pagò con l’espulsione dall’insegnamento dal liceo capodistriano e da ogni incarico pubblico, essendo stato promotore del passaggio dell’Istria all’Italia nei preliminari della Pace di Villafranca,.
Nel 1861 lo troviamo – con Michele Fachinetti, Carlo De Franceschi, Niccolò De Rin, Tomaso Lucani, Antonio Madonizza – tra gli animatori della “Dieta del Nessuno”, che rifiutò di inviare al Parlamento di Vienna i deputati istriani, per affermare l’autonomia della regione.
I suoi saggi storici (tra gli altri “La frontiera orientale d’Italia e la sua importanza” e“Importanza dell’Alpe Giulia e dell’Istria per la difesa dell’Italia orientale”) pubblicati sulle riviste locali e sui più qualificati periodici italiani, come il “Politecnico” di Milano, diretto da Carlo Cattaneo, diventano le idee-guida del liberalismo italiano della regione giuliana.
Per queste attività viene infine bandito dall’Impero austriaco nel 1866, durante la III Guerra d’Indipendenza, accusato di “intelligenza” con il governo e i comandi militari italiani, e si rifugia a Venezia, dove con altri esuli istriani prosegue la sua battaglia di idee per il congiungimento all’Italia della terra natale. Muore a Venezia nel 1884.
Antonio Baiamonti (1822-1891)
Nasce a Spalato da famiglia patrizia. Dopo gli studi di medicina a Padova prende parte attiva ai moti liberali in Dalmazia, divenendo membro della Dieta Dalmata e successivamente del Parlamento di Vienna e leader del “Partito Autonomo” dell’intera regione.
Più volte perseguitato dalle autorità austriache per le sue idee e la sua azione a difesa del carattere italiano della sua città e della Dalmazia, assume piena coscienza della realtà plurinazionale della regione e della condizione minoritaria dell’elemento italiano, guidando in tal senso il partito autonomista e acquisendo consensi anche tra la popolazione di lingua slava. Promuove l’emancipazione sociale delle classi più emarginate e l’introduzione dell’istruzione pubblica in lingua croata e serba. Podestà di Spalato per circa venti anni, trasforma la sua città in un vivo centro di attività industriali e marittime, rinnovandone l’aspetto l’urbanistico e collegandola con le regioni interne dell’Impero austro-ungarico.
Carattere saldo e inflessibile, resterà esempio per tutti gli spalatini e i dalmati di coerenza politica e di fedeltà alla causa italiana. Fu definito “Podestà Mirabile” da tutte le componenti etniche della città natale.
Michele Maylander (1863-1911)
Nasce a Firenze da famiglia fiumana e dopo gli studi liceali si laurea in giurisprudenza nel 1888 all’Università di Budapest, da cui all’epoca la città dipendeva direttamente come “Corpus Separatum” della Corona di Santo Stefano.
Partecipa attivamente alla vita culturale e politica della sua città, fondando la “Società filarmonica-drammatica”, il “Circolo Letterario” e il settimanale “La Difesa”, tutti orientati alla tutela del carattere italiano del capoluogo del Quarnaro di fronte alle pretese croate di inglobarlo nel Regno di Croazia. La difesa dell’autonomia della città, per la sua proiezione marinara e per le sue peculiarità etniche ed economiche – che ne fanno un punto di incrocio tra la cultura italiana e le culture slave, germanica e ungherese – diventa lo scopo essenziale dei circoli italiani di Fiume, in un periodo di grande espansione industriale, commerciale e demografica, che ne rafforza la maggioranza di lingua italiana.
Maylander si pone con la sua azione e le sue idee di intonazione moderata nel punto di snodo storico in cui viene a cessare lo spirito di collaborazione italo-magiaro (in funzione inevitabilmente anti-croata e anti-tedesca), il cosiddetto “idillio ungherese”, per dar luogo ad atteggiamenti più chiaramente irredentisti, cioè di aspirazione all’unione all’Italia, insieme a Trieste e all’Istria, in quanto parte di quella Venezia Giulia delineata da Isaia Ascoli.
Dopo avere ricoperto la carica di Podestà elettivo di Fiume tra il 1887 e il 1901, si dedica agli studi storici, scrivendo una “Storia delle Accademie Italiane” tra il XV e il XIX secolo, che verrà pubblicata postuma nel 1926.
Eletto al Parlamento di Budapest in rappresentanza del partito autonomista della sua città, muore improvvisamente nell’atrio di quel palazzo, luogo di tante lotte politiche dei deputati fiumani, nel 1911.
Vittorio Zupelli
Elio Italico Vittorio Zupellinasce cittadino austriaco a Capodistria nel 1859. Dopo aver frequentato il locale ginnasio italiano entra all’Accademia Militare di Modena e percorre tutti i gradi della carriera, ricoprendo a più riprese incarichi di grande responsabilità nello Stato Maggiore, con particolare competenza per la Scacchiera Orientale. Conoscitore della lingua tedesca viene inviato più volte in missione diplomatica all’estero. Prende parte attiva alle operazioni militari per la conquista della Libia nel 1911 e nel 1912 viene incaricato di una delicata missione segreta a Berlino per regolare problemi di cooperazione strategica ai tempi della Triplice, difendendo davanti a Von Moltke le tesi italiane circa l’applicazione delle clausole dell’alleanza, con riguardo alla crisi bellica nei Balcani.
Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915 Zupelli è Ministro della guerra nel Governo Salandra e avrà tutta la responsabilità della mobilitazione generale. Lascia l’incarico ministeriale per prendere parte alle operazioni belliche al comando di una grande unità sul fronte del Trentino. Ritornerà alla carica di ministro dopo la sconfitta di Caporetto e dirigerà con il Gen. Diaz la riorganizzazione delle forze armate fino alla vittoria finale. Sarà presso la sua residenza a Villa Giusti che verrà firmato l’armistizio con l’Austria-Ungheria. Singolare destino per un “italiano irredento”. Alla sua figura fa riferimento evidente Pier Antonio Quarantotti Gambini nel suo romanzo “La rosa rossa”, comparando la situazione del ministro italiano ad un cugino istriano, che ha servito l’Imperatore come generale austriaco nella stessa guerra.
Roberto Ghiglianovich (1863-1930)
Nasce a Zara, figlio di un avvocato di successo e deputato autonomista alla Dieta Dalmata. Compie gli studi di diritto a Graz e a Vienna, dove entra in contatto con i circoli liberali degli studenti italiani e conosce Luigi Lapenna, alto magistrato e guida del partito autonomista dalmato (prima di essere allontanato dal governo austriaco per organizzare i Tribunali Internazionali del Cairo e di Alessandria d’Egitto).
Tornato a Zara come magistrato imperiale, Ghiglianovich deve constatare che solo il Comune di Zara, guidato da Nicolò Trigari, è riuscito a sottrarsi alle manovre austro-croate per impadronirsi dei comuni dalmati e della maggioranza della Dieta Provinciale. Inizia la sua lotta, insieme a Ercolano Salvi di Spalato, Natale Krechich di Scardona, Giovanni Lubin di Traù, Stefano Smerchinich di Curzola e Luigi Ziliotto di Zara, per la difesa delle scuole italiane e dell’uso dell’italiano nelle pubbliche amministrazioni e la diffusione delle società sportive e culturali italiane in tutte le città della costa. E’ in questa fase che si compie la metamorfosi ideologica e politica dall’autonomismo, come difesa dell’identità italiana all’interno dell’Impero asburgico, all’irredentismo, come aspirazione a congiungere all’Italia tutta la Dalmazia, da Arbe alle Bocche di Cattaro, in nome della sua tradizione latina e veneta e della determinate componente italiana autoctona, ancora egemone sul piano economico e culturale.
Il suo irredentismo, tuttavia, alla luce del pensiero di Tommaseo e dei padri dell’autonomismo, è aperto alla collaborazione con le componenti maggioritarie croata e serba della popolazione dalmata, una parte cospicua della quale condivide l’idea di una peculiarità plurietnica della regione che merita di essere salvaguardata come suo patrimonio prezioso.
Alla vigilia della Grande Guerra, accusato di alto tradimento, ripara a Roma e collabora attivamente con il Governo, insieme con i conterranei Alessandro Dudan e Antonio Cippico, sia per la stipula del Patto di Londra del 1915 che nelle trattative per il Trattato di pace dopo la Redenzione della sua terra, non senza aver preso parte ad operazioni belliche.
Il suo attivismo lo portò negli Stati Uniti, accolto trionfalmente dalle comunità italiane, per conquistare l’opinione pubblica americana alla causa adriatica. Era convinzione sua e dell’irredentismo liberale dalmata che solo un paese di alta civiltà giuridica avrebbe consentito alle popolazioni slovene, croate e serbe, una convivenza pacifica garantendo loro la tutela della lingua, dei costumi, delle tradizioni con uno speciale regime di autonomia. E credeva che tale paese fosse l’Italia. Consigliere di Cassazione e Senatore del Regno, morirà a Roma nel 1930.
Antonio Grossich (1849-1926)
Nasce a Draguccio d’Istria e frequenta le prime scuole in varie città istriane, per poi iscriversi alle Università di Graz e di Vienna, ove si laurea in medicina nel 1875.
Diventa medico condotto a Castua, presso Fiume, sperimentando le forti tensioni tra italiani e croati che si stavano determinando nella regione. Nominato primario dell’ospedale di Fiume, si dedica all’attività di medico con umiltà e spirito di ricerca, introducendo importanti novità in campo chirurgico come l’antisepsi cutanea preventiva. Per le sue innovazioni riceverà riconoscimenti da vari Paesi, tra i quali nel 1913 la commenda della Corona d’Italia.
Ma la passione politica lo attrae verso gli ambienti patriottici fiumani, impegnati nella difesa dell’autonomia del “Corpus Separatum” e del carattere italiano della città. Membro del Circolo Letterario e della Società filarmonica-drammatica viene eletto nel 1898 al Consiglio Comunale di Fiume, prendendo più volte posizione contro le autorità ungheresi a “difesa strenua della nostra nazionalità, della nostra cultura, della nostra lingua italiana…Se questo si intende per irredentismo, tutti a Fiume sono irredentisti”.
Sciolto d’autorità il Consiglio Comunale alla vigilia della Grande Guerra, il Grossich verrà eletto presidente del Consiglio Nazionale Italiano che alla fine d’ottobre del 1918 promuove una manifestazione plebiscitaria di popolo per chiedere l’annessione della città all’Italia.
A seguito degli eventi drammatici dei mesi successivi il 12 settembre 1919 giunge a Fiume, chiamato dallo stesso Consiglio Nazionale Italiano, Gabriele d’Annunzio con i suoi Legionari, ponendo termine all’occupazione inter-alleata. Accolto con entusiasmo dalla popolazione, sopravvengono tuttavia dissidi tra il Comandante e il Consiglio Nazionale, che porteranno alle dimissioni di Grossich dopo la proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro, che di fatto esautorava il Consiglio Nazionale della città.
Dopo il bombardamento italiano di Fiume nel “Natale di sangue” del 1920 e la resa di D’Annunzio e dei Legionari al Governo Giolitti, Grossich ritorna a presiedere un “Governo provvisorio” di Fiume, fino alle elezioni del 1921, vinte dal partito indipendentista di Riccardo Zanella, che per salvare l’italianità della città accettava la soluzione di uno “Stato Libero di Fiume”. Il Trattato italo-iugoslavo di Roma del 1924 porrà fine alla vicenda con l’annessione della città all’Italia. Sarà Grossich, nominato Senatore del Regno, ad accogliere Vittorio Emanuele III sulle rive della sua città il 25 marzo 1924.
Francesco Salata (1876-1944)
Nasce a Ossero, nell’isola di Cherso. Dopo gli studi liceali a Capodistria si iscrive alla facoltà di legge dell’Università di Vienna, ma deve interrompe gli studi per le precarie condizioni economiche. Trova impiego nel quotidiano “Il Piccolo” di Trieste, della cui redazione fa parte per dieci anni, contribuendo in modo decisivo al prestigio del giornale come principale strumento mediatico nella difesa dell’italianità di Trieste e delle terre adriatiche soggette all’Impero austro-ungarico. Nel 1909 viene eletto deputato alla Dieta Provinciale dell’Istria, rivelando capacità organizzative nel riordino degli enti locali.
Nella primavera del 1915 deve riparare a Roma, per sfuggire all’internamento disposto contro gran parte degli esponenti irredentisti. Collabora strettamente con i Ministri Salandra e Sonnino nella fase preparatoria del Patto di Londra, che assegnava all’Italia in caso di vittoria dell’Intesa tutti i territori al di qua delle Alpi e una parte cospicua della Dalmazia continentale e delle sue isole.
Iniziata la guerra, viene assegnato al Segretariato Generale per gli Affari Civili presso il Comando Supremo militare, assumendo la responsabilità dei rapporti tra le Forze Armate e la popolazione delle aree investite dalle operazioni belliche. Nominato Prefetto fa parte nel 1918 della delegazione italiana per il Trattato di pace e viene posto a capo dell’Ufficio Centrale per le Nuove Province, da lui stesso sollecitato e organizzato come un vero ministero, per favorire il rapido passaggio dal regime di occupazione militare a una regolare amministrazione civile.
Per la sua esperienza amministrativa e la conoscenza delle tradizioni di autonomia e di rispetto delle diversità linguistiche ed etniche delle nuove province viene spesso in conflitto con il centralismo della formazione dei quadri ministeriali e la inattesa diffidenza dell’amministrazione militare e civile verso le popolazioni, sia tedesche e slavofone che romanze e italiane, malgrado l’entusiasmo con cui queste ultime avevano accolto la “Redenzione” e l’unione alla Madrepatria.
Nel 1922 per l’acuirsi dei contrasti con i metodi del Governo lascia l’incarico e si dedica agli studi storici e ai doveri di Senatore del Regno e di Consigliere di Stato. Muore a Roma nel 1944 nell’amarezza per le sorti del Paese che amava, tragicamente diviso.
Giani Stuparich (1891-1961)
Nasce a Trieste da famiglia originaria di Lussino, cui si sentirà sempre legato e ove trascorrerà lunghi periodi nella casa paterna fino alla catastrofe della II guerra mondiale. A Lussino sono dedicate le sue pagine più belle. E istriano si è sempre sentito sia a Trieste che negli altri luoghi ove visse: Praga, Firenze o Roma.
Scrittore raffinato e civilmente impegnato, appartiene a pieno titolo al clima e al pensiero del più genuino e consapevole irredentismo d’impronta liberale e democratica, fedele all’idea della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli, per i quali il ricongiungimento dei territori orientali d’Italia avrebbe reso compiuto il Risorgimento.
“Le prime opere di Stuparich – scrive Giorgio Luti – segnano una stagione di intensa riflessione morale e storica”, all’interno della quale spicca, a conferma della matrice mazziniana del suo irredentismo, la pubblicazione a Catania sulla “Nazione ceca” (1915), la prima in Italia che inquadrasse il problema dell’identità e delle aspirazioni nazionali all’interno dell’impero asburgico, denunciandone l’involuzione verso una sempre più opprimente egemonia nazionalista austro-tedesca sugli altri popoli della monarchia.
Negli anni precedenti si era sviluppata la sua collaborazione alla rivista “La Voce” di Giuseppe Prezzolini, nel vivace e fecondo ambiente dei giuliani e dalmati presenti a Firenze, ai quali si deve un’appassionata, ma anche lucida, attività di produzione e di divulgazione di argomenti cari alle aspirazioni italiane. E’ lì che si incontrano Scipio Slataper, caduto poi sul Podgora, volontario irredento, il fratello Carlo Stuparich, caduto sull’Altopiano di Asiago, anche lui, come Giani, ufficiale dei granatieri italiani, e i fiumani Enrico Burich, Egisto Rossi e Mario Angheben, ufficiale degli alpini caduto nel 1915.
Il fascismo non trova in Giani Stuparich un sostenitore. Le sue ferme convinzioni politiche lo portano verso un totale isolamento, nel quale matura tuttavia la sua alta visione della vita e il suo dovere di educatore nelle scuole triestine. Non cessa l’attività letteraria, nella quale ritorna il ricordo del fratello (“Ritorneranno”) e della Trieste del primo Novecento. Dai racconti “Un anno di scuola” e “L’Isola” Franco Giraldi trarrà due film di rara eleganza e stile.
Il tragico epilogo della II guerra mondiale nella Venezia Giulia lo coinvolge in pieno. Imprigionato durante l’occupazione tedesca nella Risiera di San Sabba, perché sospettato di appartenere alla Resistenza, viene liberato per l’intervento del Vescovo Antonio Santin. Nei mesi successivi vive il dramma della città e della sua Istria, dopo l’occupazione delle truppe partigiane di Tito: gli eccidi delle Foibe e l’esodo dei suoi conterranei dalla terra natale. In quegli anni il suo impegno civile si rinnova nella denuncia delle violenze del regime comunista iugoslavo e nella difesa dell’italianità di Trieste e dell’Istria, collaborando alla rivista “Il Ponte” di Piero Calamandrei. Muore a Trieste nel 1961, dopo aver potuto salutare almeno il ritorno della città all’Italia.
Giuseppe Pagano Pogatschnig (1896-1945)
Nasce a Parenzo nel 1896. Già durante gli studi liceali a Trieste dà prova di un carattere fortemente critico per le sue idee politiche ed estetiche. Come migliaia di altri giovani delle province austro-italiane lascia l’Istria nel 1915 per arruolarsi nell’esercito italiano, assumendo il cognome di Pagano (in onore del martire napoletano del 1799 Francesco Mario Pagano) per celare la sua qualità di irredento e sottrarsi all’accusa di tradimento e all’impiccagione in caso di cattura da parte austriaca.
Spirito indomabile viene due volte ferito e due volte catturato dal nemico. Riesce ad evadere dalla prigionia e a tornare in linea. Legionario fiumano con D’Annunzio tra il 1919 e il 1921, si laurea finalmente in architettura a Torino, iniziando una brillante carriera di progettista e di urbanista, aperto alle più avanzate idee dell’epoca, contribuendo a diffondere in Italia le linee di Gropius e Le Corbusier. Con la sigla Pagano-Levi Montalcini è sostenitore di una nuova architettura impressionista, che finì per imporsi nella elaborazione dei piani regolatori dell’Esposizione Universale– EUR e della Città Universitaria di Roma e di alcune nuove città in Sardegna.
Dopo aver diretto la prestigiosa rivista “Casabella” e aver partecipato e organizzato le più importanti mostre di architettura degli anni Trenta, all’inizio della II guerra mondiale torna a indossare l’uniforme di ufficiale nella campagna di Grecia e a progettare nel contempo un piano di opere pubbliche per la Dalmazia. Ma proprio a Corfù matura la sua crisi politica nei confronti del regime fascista. Dopo l’8 settembre 1943 entra nella Resistenza clandestina e viene arrestato a Carrara e trasferito a Brescia, dove organizza una fuga di massa dal carcere. Tradotto a Milano, a Villa Triste, viene sottoposto a torture, che regge con dignità e coraggio. Deportato nel lager di Mathausen, muore il 23 aprile 1945, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate.