Morirono in sei. Senza retorica potremmo considerarli gli ultimi morti del Risorgimento. Settant’anni fa, dal 3 al 6 novembre, un numero enorme di cittadini di Trieste insorse per cercare di far sì che la città ritornasse italiana e ne nacquero scontri violenti. Una vicenda quasi dimenticata che torna a rivivere oggi al Politeama Rossetti di Trieste (alle 18:30) in una lezione spettacolo con due studiosi, Davide Rossi e Giuseppe Parlato, dal titolo I moti del ’53 e la curatela del direttore del teatro Paolo Valerio (con la collaborazione della Lega Nazionale di Trieste della Regione Friuli Venezia Giulia e del comune di Trieste).
Ma vediamo di riassumere brevissimamente cosa furono questi moti, che per il loro doloroso coraggio meriterebbero una narrazione minuto per minuto (ma per fortuna ci pensa lo spettacolo a rendere la loro drammaticità e complessità).
Con la fine della Seconda guerra mondiale fu stabilito nel 1947 dal Trattato di pace che dovesse sorgere il Territorio Libero di Trieste: indipendente sotto l’egida dell’Onu e destinato a fare da cuscinetto fra Italia e Jugoslavia. A causa dei veti incrociati tra gli ex Alleati non si riuscì a trovare un accordo. Così la Venezia Giulia rimase divisa in due zone: la Zona A, governata dagli Alleati, e la Zona B, sotto Belgrado. Per 7 anni le diplomazie italiane e jugoslave lavorarono per ottenere l’intero controllo del territorio, creando così una situazione (esplosiva) di stallo. Nell’agosto del 1953 l’appena nato governo Pella decise la mobilitazione delle truppe. Una scelta dovuta a diverse paure, un’esplosione spontanea di moti, una scelta indipendentista di Trieste, l’intervento armato jugoslavo. L’Italia intanto preme perché in entrambe le zone si svolga un plebiscito. Le tensioni crescono sino a che, il 3 novembre, anniversario di quando Trieste, nel 1918, è diventata italiana iniziano ad essere issati tricolori in molte parti della zona A. Il 4 novembre i cittadini di ritorno dal sacrario di Redipuglia improvvisano una manifestazione per l’italianità di Trieste. La Polizia, guidata da ufficiali inglesi, interviene per sequestrare il tricolore dei manifestanti: ne seguono scontri e sassaiole, che in pochi minuti si propagano in tutta la città.
Il giorno dopo, il 5 novembre, gli studenti manifestano di fronte alla chiesa di Sant’Antonio. Al passaggio di un ufficiale inglese, partono dei sassi. L’ufficiale viene strattonato e gettato a terra; intervengono dei rinforzi, i ragazzi si rifugiano dentro la chiesa, dove vengono inseguiti, molti sono feriti. Il vescovo, Antonio Santin, stabilisce per il pomeriggio la cerimonia di riconsacrazione del tempio: partecipano migliaia di cittadini. Nascono nuovi incidenti. Un ufficiale inglese apre il fuoco, lo fanno anche degli agenti: muoiono Piero Addobbati e Antonio Zavadil, mentre decine di altri vengono feriti. Il 6 novembre la città è invasa da una folla immensa, decisa a travolgere i simboli dell’occupazione. In Piazza Unità d’Italia tocca al palazzo della Prefettura: gli agenti reagiscono sparando sulla folla, ferendo decine di persone e uccidendo Francesco Paglia, Leonardo Manzi, Saverio Montano ed Erminio Bassa.
Ma a quel punto diventa chiaro a tutti che la situazione non è più gestibile. Le diplomazie devono trovare una soluzione: 11 mesi dopo, nel 1954, con il memorandum di Londra la Zona A è finalmente assegnata all’amministrazione civile italiana, la Zona B rimane alla Jugoslavia. Questa vicenda rivive nella lezione spettacolo in tutte le sue sfumature, lezione che si progetta di fare andare in tournée in Italia.
Matteo Sacchi
Fonte: Il Giornale – 07/11/2023