Sognavano l’Italia ed erano pronti anche a morire per lei. Consideravano la prima guerra mondiale come il teatro perfetto per mettere in scena la fine dell’odiato Impero austroungarico. Ma quando i cannoni smisero di tuonare, e il tricolore venne issato ai quattro angoli della città, gli irredentisti triestini si risvegliarono al centro di un incubo. L’amata patria aveva risposto al loro richiamo portandosi appresso l’arroganza del fascismo. La violenza di una dittatura che sarebbe durata a lungo. E allora? L’anima di Trieste si divise in due. Come racconta Renate Lunzer, docente di Letteratura italiana e Teoria della traduzione all’Università di Vienna, nel suo affascinante e fluviale saggio Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ’900, tradotto da Federica Marzi e curato da Gianfranco Hofer per Lint Editoriale (pagg. 467, euro 25). Maturata la delusione per un’Italia che corrispondeva assai poco a quella che avevano atteso a lungo, intellettuali come Biagio Marin, Giani Stuparich, Ervino Pocar, Alberto Spaini, Enrico Rocca, cominciarono a subire, come spiega Mario Isnenghi nella prefazione al libro, il fascino della Mitteleuropa. Iniziarono a elaborare quel mito asburgico che nulla aveva a che fare con la nostalgia degli Asburgo in carne e ossa, ma che li portò pur sempre a trasformarsi in mediatori della cultura austriaca in Italia.
E quel percorso di riappropriazione di un passato che non si poteva cancellare, neanche in presenza di una componente ultranazionalista sempre pronta a rinnovare la propria incrollabile fede patriottica, ha valicato l’orrore della seconda guerra mondiale. Contagiando intellettuali come Roberto Bazlen, Giorgio Voghera e suo padre Guido, Carolus Cergoly, Ferruccio Fölkel, Carpinteri e Faraguna, fino ad arrivare a Claudio Magris, che dagli irredenti redenti hanno raccolto il testimone. «Durante il servizio militare, Biagio Marin arrivò a dire ad alta voce ”Noi austriaci” – spiega Renate Lunzer -. Ovviamente, quella era un’espressione forte rivolta a un capitano italiano da cui voleva distinguersi. Ma dimostra pur sempre l’ambivalenza dell’anima del poeta».
E non solo quella di Marin…
«No, è una frase che diventa un simbolo per tutto un mondo di intellettuali, di irredentisti. Che anelando al ritorno dell’Italia, si sentono pur sempre diversi dagli italiani reali quando si trovano a contatto con loro».
Come è nata l’idea di scrivere un libro sugli ”Irredenti redenti”?
«All’inizio ad affascinarmi è stato soprattutto il libro di Claudio Magris e Angelo Ara ”Trieste. Un’identità di frontiera”. Leggendo quelle pagine ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire il tema della cultura austro-germanica nel mondo intellettuale giuliano e goriziano. Con particolare attenzione al tema della ”redenzione” di Trieste dall’Austria. Alla dimensione tragica dell’irredentismo».
Perché tragica?
«Perché in quello che è stato definito il Risorgimento della Venezia Giulia c’era incanto e disincanto, illusione e disillusione. Insomma, Trieste ritorna alla madre patria, ma dopo pochi anni il compimento di quel sogno assume le sembianze di un tradimento. Il ”redentore”, infatti, ha le fattezze di Benito Mussolini. L’Italia si porta appresso una dittatura: il fascismo. Lo racconto nel capitolo ”Dall’aquila bicipite alla lupa romana”».
Una beffa per chi muore in guerra, ma soprattutto per chi ritorna a casa?
«Direi soprattutto un grande dolore. ”Nei colloqui con mio fratello”, un libro purtroppo poco noto, si percepisce nettamente l’amarezza, il disincanto di uno scrittore come Giani Stuparich, che è partito volontario per la Grande guerra. Che ha perso il fratello Carlo sul Monte Cengio nel 1916, morto suicida per non cadere prigioniero degli austriaci. E non dimentichiamo Scipio Slataper e Ruggero Timeus Fauro».
E allora, piano piano, subentra una sorta di nostalgia per il vecchio mondo?
«Sì, subentra una delusione per quell’Italia ideale che, nella realtà, si rivela ben diversa. E una rivalutazione per quell’Impero della mediocrità che, fino ad allora, avevano bersagliato di critiche. Tanto che gli irredentisti democratici, venuta meno l’urgenza della rivendicazione nazionale, diventano importanti mediatori della cultura austriaca in Italia».
Nasce così il mito di Franz Joseph?
«Sì, lo ricorda anche Magris nel ”Mito asburgico”. Il primo impiegato dell’Impero austroungarico, quello che era stato irriso come il sommo burocrate della vecchia Austria, tutto sommato rischiava di apparire un grande imperatore liberale, se confrontato ai nuovi despoti fascisti. Ma il mio libro non si interessa degli Asburgo in quanto tali».
E neanche dei nostalgici dell’Impero giallonero.
«Infatti. Chi legge la mia ricerca in questa chiave, sbaglia. Io ho voluto raccontare il divenire di una serie di intellettuali che, innamorati di un’Italia ideale e delusi da quella reale, finirono per riappropiarsi dei concetti di multinazionalità, di convivenza tra culture diverse, propri della Mitteleuropa».
Un fantasma, quello del mito asburgico, che è arrivato fino a noi?
«Magris mi ha detto più volte di avere scritto ”Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna” grazie a quello che Marin e la generazione dei ”vociani” gli avevano trasmesso. E appropriarsi del passato, del ”milieu” culturale triestino, è stato importantissimo. Per questo rientra anche lui nel libro degli irredenti redenti».
Lui come Bazlen, Cergoly, Fölkel, Voghera e tanti altri.
«Il destino degli irredentisti democratici, e quindi anche di Bazlen, Cergoly, Fölkel e di chi è venuto dopo di loro, è quello di avere elaborato un sogno che era molto avanti rispetto al tempo in cui vivevano. Perché speravano, sconfiggendo le forze del passato, di rientrare in un’Italia incastonata nell’Europa libera. Un’idea modernissimo. Sovrannazionale».