Scritto da Mary Barbara Tolusso, «Il Piccolo», 21/10/10
Il profugo e il narratore. Due diversi ruoli, un denominatore comune: lo spazio e la sua ricerca. Nel caso del narratore poi, ecco la terra dove far vivere i suoi personaggi, reali o immaginari, comunque ospiti di luoghi vissuti e meditati. Ecco Trieste, quindi, nei percorsi di Fulvio Tomizza. Trieste in ciò che ha saputo offrire a molti autori, accogliente o ostile che sia. Nessun posto forse, per storia, geografia, temperamento, sa offrire quel dedalo di contraddizioni che ne fa spazio letterario per eccellenza. Perché in fondo Trieste non è la Trieste di Joyce, Rilke o di Richard Francis Burton, non diviene letteraria grazie alla presenza o al passaggio di questi autorevoli romanzieri, ma piuttosto è l’idea della città che si fa grande nella testa di questi autori. Un mito, forse troppo cristallizzato, ma in fondo innegabile. Può capirlo chi, come Tomizza, l’ha eletta a una sorta di patria bizzarra, facendone il luogo di un’utopia, non ancora totalmente realizzata. Itinerari Tomizziani a Trieste si intitola il libro curato da Stella Rasman e Patrizia Vascotto (viene presentato oggi alle 18, al Circolo della Stampa in corso Italia 13 a Trieste, da Fulvio Senardi e Marta Moretto), nato da un progetto del Gruppo 85 e pubblicato in versione bilingue, italiano e sloveno. Proprio grazie all’antidogmatismo di Tomizza, le due curatrici hanno potuto ideare un tragitto piuttosto lineare, dove i valori della possibile convivenza si riflettono nelle sculture dei palazzi, nelle architetture e atmosfere dei rioni e assumono un significato che va al di là dei confini. Lo dice Elvio Guagnini in introduzione, tracciando la figura dello scrittore quale individuo spontaneamente curioso (in senso buono) verso le cose e le persone, bacini inesausti di mondi possibili. E lo ripete Milan Košuta, che oltre alla capacità di straniamento, osserva il viaggio che Tomizza ha sempre fatto verso l’alterità (soprattutto degli umili e degli emarginati), ma anche verso quell’interiorità che, dalle parole dello stesso Tomizza, ne faceva un individuo: «profugo mille volte».
Il fine del suo viaggio, con i tanti percorsi che Rasman e Vascotto ci indicano, è stato quello di evitare dogmatismi, ideologie nazionali e religiose. Il tutto con un linguaggio familiare e storico, lo stesso metodo applicato ai luoghi, a partire da San Giovanni con le sue osterie (si ricorderà quella della Gigia ne La città di Miriam e L’amicizia), o la Rotonda del Boschetto con i suoi caseggiati, ben noti a Tomizza che lì trovò casa dopo il matrimonio. Ed è attraverso lo Slargo intitolato recentemente a suo nome che si entra nello spazio urbano, e qui i luoghi abbondano, non solo nei romanzi autobiografici. Dal bellissimo Palazzo Leitemburg alla Sinagoga. E poi imboccando via Rossetti si entra nel cuore di altre trame, a lungo dimenticate e riportate alla luce dal senso di equità del romanziere. Ma al di là di vie, palazzi, istituzioni, descritti con dovizia di particolari (con allegata una mappa esplorativa dei tre romanzi: Gli sposi di via Rossetti, Franziska e Il male viene dal nord), il libro ci suggerisce vere e proprie curiosità architettoniche, da un lato tese a mostrarci i cambiamenti del territorio, dall’altro a evidenziarne, anche nelle forme dell’arte, vecchie metafore. Chi direbbe, oggi per esempio, che dove sorgono i trafficati Portici di Chiozza, c’era un cancello di ferro che chiudeva l’accesso a un ponte che permetteva di attraversare il torrente di San Giovanni? O forse non tutti sanno che il leone posato sopra Palazzo Vianello (in piazza Oberdan) ruggisce proprio in direzione del Narodni Dom (oggi Scuola Interpreti), la vecchia casa simbolo della comunità slovena. Insomma un discorso articolato e preciso, che oltre a rinnovare la geografia letteraria, permettere di individuare quell’intuizione tomizziana: «di una città che deve mantenere l’unità nel rispetto della propria interiore diversità».