Caduto in battaglia il 28 maggio 1917, fu al centro della liturgia dannunziana durante l’avventura fiumana.
Due mesi dopo aver preso possesso di Fiume, Gabriele d’Annunzio destò nuovamente preoccupazione e scalpore nella classe dirigente liberale italiana: con una flottiglia di navi della Regia Marina, che avevano disertato per sostenere il suo sforzo finalizzato all’annessione del Carnaro all’Italia, il Vate si presentò a Zara, capoluogo di quella Dalmazia che il Patto di Londra del 1915 assicurava a Roma e che in quell’autunno 1919 invece sembrava destinata a far parte del neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
In attesa delle decisioni della Conferenza di Pace vigeva un Governatorato Militare, al cui vertice era l’Ammiraglio Enrico Millo, che non si peritava di manifestare, coerentemente con i desiderata dei vertici della flotta da guerra italiana, la necessità di annettere tutta la costa dell’Adriatico orientale (ancorché la comunità italiana rappresentasse una minoranza rispetto alla componente croata e serba) al fine di garantire il dominio di quelle acque.
Invece di trattare d’Annunzio come un disertore, Millo si intrattenne a pranzo con lui. Quindi i due arringarono la folla accorsa davanti al Palazzo del Governatore: nel momento culminante della sua orazione, il Comandante di Fiume srotolò un Tricolore visibilmente macchiato di sangue, coinvolgendo il pubblico già entusiasta in un momento di solenne sacralità. Si trattava della bandiera che aveva avvolto la salma del Maggiore Giovanni Randaccio, irredentista piemontese caduto in guerra proprio cent’anni fa. Un martire per la causa dell’unificazione nazionale, che ebbe come suo sudario la bandiera tricolore (sventolata più volte anche nel corso dei comizi fiumani), la folla ed il suo demagogo: erano tutte componenti della Religione della Patria.
Randaccio era morto in battaglia il 28 maggio 1917, meritando la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria, che arrivò dopo tre Medaglie d’Argento conseguite nei primi mesi di guerra, durante i quali era stato promosso sul campo ed aveva subito una gravissima ferita. Infuriava allora la decima battaglia dell’Isonzo e Randaccio aveva tentato una difficilissima missione offensiva presso le foci del fiume Timavo, a pochi chilometri da Trieste, con lo scopo di occupare le rovine del castello di Duino. In quel punto, però, le difese austro-ungariche, imperniate sulla fortezza naturale del monte Ermada, risultavano particolarmente robuste. Ciononostante, infervorato anche dall’amico D’Annunzio – che su quel settore di fronte aveva a suo tempo svolto un’incursione aerea – Randaccio decise di condurre all’assalto dell’altura Bratina il reparto del 77° Reggimento della Brigata “Toscana” da lui comandato. La posizione fu conquistata a costo di enormi perdite e la reazione delle imperial-regie truppe non si fece attendere: i rinforzi per consolidare la conquista non arrivarono e le mitragliatrici austriache fecero strage, colpendo a morte anche Randaccio.
Due giorni dopo d’Annunzio tenne nel cimitero di Monfalcone l’orazione funebre dell’amico, contribuendo a creare attorno alla sua figura un alone di sacralità. Oggi, nel punto in cui si consumò la tragica fine del neanche trentatreenne ufficiale torinese (al quale è intitolato il vicino acquedotto triestino), un cippo ne ricorda il disperato sacrificio. Vicino una scultura bronzea raffigura dei lupi: essi sono i “Lupi di Toscana”, epiteto che i fanti della brigata Toscana si meritarono per l’ardore dimostrato sul campo di battaglia.
Comitato 10 febbraio, 13 luglio 2017