Spazzali: Quella fuga di massa che fece di Pola una città morta

Scritto da «Il Piccolo», 17/10/10

Da Pola operaia (1856-1947) di Roberto Spazzali, edito dal Circolo di cultura istro-veneta “Istria” di Trieste, anticipiamo un brano dal capitolo finale intitolato “La città morta”. Il libro sarà presentato il 5 novembre alla Libreria Minerva di Trieste.

di ROBERTO SPAZZALI

Dall’agosto 1946 si costituiva a Venezia l’Ufficio per la Venezia Giulia, dipendente dal Ministero degli Interni, retto dal prefetto Mario Micali, con il compito di pianificare, organizzare e attuare l’esodo della popolazione da Pola e dai territori italiani della zona B che sarebbero passati alla Jugoslavia. Anche se le diplomazie non si erano espresse ufficialmente e si era ancora lontani dal Trattato di pace, era chiaro che si andava in quella direzione.
Sul piano organizzativo c’erano dei precedenti riguardanti gli italiani residenti a Rodi e i coloni inviati ai suoi tempi in Tunisia e nei possedimenti dell’Africa orientale, evacuati già nel 1940 e poi nel corso del conflitto, ma erano nuclei familiari costretti a partire con poco bagaglio al seguito. Qui invece si trattata di svuotare un’intera città, Pola, con masserizie private, laboratori artigianali, attrezzature commerciali, un volume di oggetti valutato in circa 170 mila metri cubi di mobili e arredi e 6 mila tonnellate di materiali provenienti da vari impianti che dovevano essere portati via e sistemati in magazzini in attesa della destinazione definitiva. C’erano poi tutti gli uffici amministrativi, i degenti negli ospedali, i ricoverati negli ospiti e nell’ospedale psichiatrico, perfino i detenuti nelle carceri, che non potevano lasciare la città prima della popolazione e soprattutto c’era il grande problema di cercare e trovare una sistemazione alloggiativa e lavorativa per non meno di 30 mila persone.
Tutto cià avveniva in un’Italia ancor asegnata dalla guerra con decine di migliaia di sfollati, infrastrutture fortemente danneggiate, edifici privati e fabbriche inagibili per causa dei bombardamenti. Fu deciso che l’esodo da Pola avrebbe seguito una precisa dinamica, disegnata nel ”Piano per l’esodo”. Prima sarebbero partite le masserizie e poco dopo la popolazione; entrambe destinate a quattro località di grande raccolta: Trieste, Venezia, Ancona e Brindisi. Furono reperiti magazzini e depositi nei porti e nei granai di Ravenna e incaricata la ditta Acomin di Roma – che aveva già organizzato l’esodo italiano da Rodi – di svolgere tutta la parte pratica. Le masserizie furono pure assicurate contro eventuali danni o perdite con una polizza sottoscritta con un gruppo di assicurazioni italiane guidate dalle Assicurazioni Generali e lo Stato italiano garantì la copertura finanziaria all’intera operazione compresi i sussidi da destinare ai capifamiglia per ovviare a quella fase di inevitabile e lungo disagio.
Però dopo il 10 febbraio 1947, la data di entrata in vigore del Trattato di pace non era nota a nessuno, nemmeno al Governo italiano, per cui l’operazione doveva svolgersi in un tempo ritenuto necessario ma non definibile con certezza. Di una cosa si era certi: che la scadenza sarebbe stata accompagnata dal ritiro delle truppe alleate da Pola, come aveva annunciato l’ammiraglio Stone già il 28 dicembre 1946.
In una relazione del 15 febbraio 1947 inviata alla presidenza del Consiglio si lamenta che a Pola si era diffusa «una certa ansia, poichè tutti sanno che l’esodo deve essere ultimato per il 5 marzo p.v.: chi abbia stabilito tale data non si sa, ma tutti sono ossessionati da tale termine! tutti sono ormai stanchi in quest’attesa che sfibra e logora i nervi: e di tale stato di spossatezza approfitta una sottile e subdola propaganda slava, ma questi ottimi italiani resistono, anche se in cuor loro predomini il desiderio che questa lenta agonia abbia sollecitamente a cessare!».
Però resta del tutto ignoto il motivo di abbandonare la città in pieno inverno e in cattive condizioni atmosferiche – in molte immagini si vede la coltre di neve che copre il selciato del molo e i mobili accatastati e si percepisce la sofferenza tra i più anziani e i bambini – in una condizione di effettivo esodo ”biblico” con le masserizie trasferite oltre l’Adriatico a bordo di burchi trainati da rimorchiatori oppure per mezzo di vagoni ferroviari fatti transitare per la zona B. La popolazione era stata caricata sui piroscafi ”Toscana” (già impegnato per analoga missione a Rodi), ”Montecucco”, ”Messina” e sul ”Pola” di linea con Trieste con le destinazioni già assegnate e un servizio di assistenza sanitaria, sociale e religiosa di buon livello .
Ma va detto che le concrete iniziative per l’organizzazione dell’esoto, dopo aver raccolto le adesioni, iniziarono a Pola soltanto nel corso dell’autunno 1946: è ben vero che non c’erano grandi speranze per una moratoria e si attendeva che accadesse qualcosa in grado di sovvertire il destino segnato. E infatti i funzionari dell’Ufficio per la Venezia Giulia dovettero sollecitare non poco l’avvio della fase pratica spesso caratterizzata da piccoli e grandi problemi come la mancanza di materiali per gli imballi, oppure di mezzi di trasporto delle masserizie. Eppure, dopo la visita dell’on. Fausto Pecorari, triestino, vicepresidente dell’Assemblea Costituente, era sopraggiunto un momento di illusione, tanto che – così scrive un funzionario presente a Pola – «occorre sospingerla per far caricare i mobili sui natanti pronti e attraccati al molo, salvo poi far ressa all’ultimo momento; ma è comprensibile: questa gente, profondamente italiana e perciò sentimentale, lascia qualcosa che vale ben più dei vari beni e interessi e cerca di ritardare il più possibile la partenza»
La spinta alla partenza era giunta dai partiti del Cln dopo il fallimento della loro missione a Parigi, la caduta della richiesta di plebiscito, il declino dell’ipotesi di ampia autonomia regionale per la Venezia Giulia. Addirittura si era sparsa la voce che il 10 febbraio fosse il termine perentorio per lasciare la città. Ma altri erano i fattori di influenza, almeno a detta dei funzionari del Ministero degli Interni: il timore per una nuova e definitiva occupazione jugoslava – memore quella del maggio-giugno ’45 e l’inaccettabile distacco dall’Italia. Come tale voce diventava sempre più consistente, così cresceva la decisione di partire. Il fatto poi di vedere partire con mezzi propri le famiglie più facoltose scatenò una grande preoccupazione tra i meno abbienti.
È una decisione davvero collettiva che si consuma in pochi mesi e trova la sua massima espressione nell’ultimo veglione di San Silvestro del ’46, folle e tragicamente spensierato, per non pensare, appunto. Ricorda Livio Dorigo: «La gente non sapeva neanche dove andare e come andare via. L’ultimo dell’anno abbiamo fatto una grande festa al ”Cescutti”. Una festa d’addio alla città, con spumante; un’orchestra ha suonato fino alle tre del mattino la canzone che accompagnò i polesi quando sono andati via».
Il 17 aprile 1947 una relazione indirizzata alla presidenza del Consiglio dei ministri esordiva in questi termini: «Ormai l’esodo della popolazione di Pola si può considerare ultimato: Pola non vive più, la sua attività è ora limitata “alla giornata”, poiché attende trepida il compimento del suo destino: Pola può davvero considerarsi una città morta».