S. Zecchi, «Quando ci batteva forte il cuore»

Scritto da Marta Moretti
S. Zecchi, Quando ci batteva forte il cuore, Milano, Mondadori, 2010, pp. 215.

L’Autore propone un romanzo che interpreta, affronta e rivela la tragedia vissuta nel dopoguerra dalle genti giuliano-dalmate, assai meglio di quanto abbiano fatto molti storici contemporanei. Zecchi, con uno stile estremamente semplice e mai prolisso, che non tralascia descrizioni molto accurate dei luoghi che fanno da sfondo alla vicenda e attraverso un linguaggio di qualità, lineare ed elegante, narra una storia troppo a lungo trascurata, tralasciata o raccontata mediante semplificazioni, omissioni e banalizzazioni. Alla precisa ricostruzione storica (arricchita dalla citazione di episodi salienti e particolarmente tragici quali le stragi delle foibe nell’estate del 1943 e alla fine della guerra, l’eccidio di Vergarolla, il 18 agosto 1946 e l’uccisione del Comandante della guarnigione inglese a Pola il 10 febbraio 1947), l’autore unisce il racconto di una vicenda intima e personale che fa assumere a questa narrazione, il carattere di romanzo di formazione.

È il 1945, Sergio, un bambino polese di sei anni, è il protagonista: inizialmente appare come inconsapevole testimone del dramma che va a colpire in quei mesi gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, la cui esistenza è travolta e stravolta dalla Storia; finita la guerra si trova ad affrontare il primo incontro con il padre Flavio, appena rientrato dal fronte: questii viene percepito come un estraneo, un intruso nei confronti del quale il bimbo prova soggezione e diffidenza, soprattutto perché la sua ricomparsa sembra essere una minaccia per l’esclusivo e strettissimo rapporto di Sergio con sua madre Nives. Costei è, senza ombra di dubbio, la figura più plastica, appassionata e interessante di tutto il romanzo: donna colta, autorevole, generosa, impavida e fiera, che non rinuncia, nonostante i pericoli incombenti, al proprio attivismo politico in nome della difesa dell’italianità di Pola e dell’Istria; instancabilmente e strenuamente si oppone al panslavismo etnofago che caratterizza la Jugoslavia titina, ma che di fatto risulta avvallato dalle decisioni delle Grandi Potenze a Parigi nel febbraio del 1947. Nives, con la sua fierezza accompagnata da un’incontrastabile e coraggiosa coerenza ideologica, incarna, a tutti gli effetti, l’ideale dell’etica politica perseguita con rigore e costanza. In nome della difesa del valore dell’identità nazionale italiana, questa donna giunge alla scelta doverosa, quanto straziante, di separarsi dal proprio figlio, per proteggerlo dal pericolo di ritorsioni violente da parte dei suoi avversari politici.

Sergio, benché avvezzo all’attività politica della madre, per quanto consapevole del clima di tensione costante fomentato dai nuovi dominatori e nonostante abbia vissuto in prima persona episodi densi di tragicità (la morte in foiba di un amico della madre, come lei impegnato politicamente e padre del piccolo Umberto, il migliore amico di Sergio, a sua volta perito nella strage di Vergarolla), non riesce a comprendere e accettare la scelta di Nives che abbandona la famiglia e affida il figlio alle cure di Flavio, quel padre schivo e distante che sino a quel momento rimane estraneo a qualsiasi presa di posizione di carattere politico o ideologico, forse perché ancora troppo provato dall’esperienza della guerra. La convivenza di padre e figlio e la successiva fuga attraverso i boschi dell’Istria in direzione di Pirano e poi alla volta di Trieste, costituiscono un momento di crescita e formazione per Sergio che diventa ragazzo vivendo esperienze drammatiche e sconvolgenti (particolarmente toccante è il passo in cui viene descritta la sensazione di impotenza e paralisi che padre e figlio provano quando si trovano nei pressi di Buie e sentono i lamenti degli infoibati ancora agonizzanti). L’arrivo a Trieste, la presa di coscienza della nuova, spiacevole e avvilente condizione di profughi, la vita scomoda e promiscua nei box del centro di raccolta rafforzano giorno dopo giorno il rapporto tra Sergio e il padre, che si caratterizza, anche negli anni successivi, con il trasferimento definitivo a Venezia, per il profondissimo affetto che lega questi due personaggi e per la reciprocità del sentimento di protezione e comprensione che si sviluppa tra loro.

In conclusione è interessante notare come il protagonista, nei diversi momenti della vicenda, si caratterizzi, fondamentalmente, per la sua capacità di “amare un genitore alla volta”: all’inizio del racconto percepisce il padre come un fastidioso sconosciuto e fa dipendere tutta la sua felicità e il suo bisogno d’affetto dal suo rapporto con la madre, quella stessa madre che, per sua medesima ammissione nelle ultime pagine della narrazione, il Sergio adulto non si sentirà di comprendere e perdonare, nonostante la tragica sorte toccatale, poiché colpevole di aver abbandonato a un destino difficile padre e figlio, che solo attraverso la tragicità delle esperienze condivise, hanno avuto la possibilità di costruire e ridefinire un legame diventato alla fine indissolubile.