Scritto da «La Voce del Popolo», 04/08/09
S. Luciani, Terremoto a Tirana. Intrighi, amori e spie al crollo del comunismo, Viterbo, Nuovi Equilibri, 2008.
S. Luciani, Terremoto a Tirana. Intrighi, amori e spie al crollo del comunismo, Viterbo, Nuovi Equilibri, 2008.
Shqipëria è il nome, pronunciato in antica lingua arbëreshe, con il quale gli albanesi chiamano la loro patria, la più piccola, la più povera e la meno conosciuta nazione dei Balcani: un paese che, a partire dalla vittoriosa rivolta studentesca dell’inverno del ’91 contro il regime comunista di Ramiz Alia, sembra essere improvvisamente ricomparso sulla carta geografica d’Europa e soprattutto d’Italia. Nel Paese delle Aquile, Serena Luciani ha svolto mansioni di direttrice dell’Istituto Italiano a Tirana tra il 1988 e il 1990 con impegno e passione, spettatrice in prima fila della Storia, investendo molto nella conoscenza dell’ambiente, nell’organizzazione di eventi culturali, mostre di libri e concerti, stabilendo una rete di relazioni con interlocutori provenienti da istituzioni e settori molto diversi. La vita all’estero richiede alcuni sacrifici dal punto di vista personale e familiare, ma tutto ciò è compensato dalla possibilità di ottenere soddisfazioni professionali ed esperienze personali che ripagano di tutti gli sforzi ed i sacrifici.
Da questa esperienza nasce il libro Terremoto a Tirana.
Intrighi, amori e spie al crollo del comunismo che in una carrellata di eventi racconta la complessa realtà sociale e storica di un’Albania di fine regime, immersa in un fluire altrettanto complesso di diversi interessi politici, locali e internazionali. Il romanzo narra non soltanto le vicende d’un paese che concentra in sé più razze, più lingue e più religioni, ma si sofferma logicamente sul “terremoto” che travolge il regime filosovietico e vede i prodromi della democrazia multipartitica di Sali Berisha (terremoto, di cui gli esodi biblici verso l’Italia sono uno dei tanti aspetti). Da quella vittoria si è scatenata nella mente degli albanesi un’euforia che è difficile comprendere se non si conosce profondamente la storia e l’animo di quel popolo. Facile agli entusiasmi ed alle grandi passioni così come alle grandi depressioni, alla rabbia collettiva mista a delusione che porterà nel ‘91 a distruggere fabbriche e scuole, principali simboli del potere di Enver Hoxha, tradottosi in cinquantacinque anni di dura e repressiva dittatura marxista.
Quando il diario diventa romanzo-verità, Serena Luciani ne diventa la protagonista con il nome di Fiora Listri. La giovane donna offre al lettore dettagliate e precise descrizioni di luoghi e avvenimenti, riporta dialoghi articolati su una scelta significativa di questioni diplomatiche, artistiche ed estetiche, di pregiudizi razziali, premonizioni geopolitiche e vaticini sullo spirito democratico nei Balcani, esibisce un’accumulazione di particolari della vita politica, sociale e intellettuale, descrive molti lati curiosi di un mondo all’apparenza ovattato ma che in realtà nasconde ben altro dietro le quinte, mentre invece non riesce a nascondere i sigurimi, i segugi in borghese della polizia segreta, che seguono “a piedi o in bicicletta” e sorvegliano sempre e ovunque gli stranieri come se fossero le loro stesse ombre. Intorno all’addetta culturale c’è tutto un girotondo, divertente e inquietante, di gente di ogni risma, diplomatici, consoli, ambasciatori, segretari e sottosegretari, spie, avventurieri, ministri, burocrati, rifugiati politici e altri addetti ai lavori, ma anche, artisti, serve, persone semplici, fatti umani, fatica fisica, bisogni elementari. Confusione della vita e nessun senso apparente in quel che succede, il tutto guidato dalla mano ferma e lieve dell’autrice che alterna sentimento e scetticismo con eguale felicità.
Scontrandosi con le antinomie del sistema in cui agisce, deve prendere atto che, non diversamente dai paesi allineati con l’ex Unione Sovietica e nell’indifferenza delle sinistre europee, la nobile idea della libertà nel socialismo viene vanificata dal burocratismo repressivo anche in Albania: un paese, questo, strano e contraddittorio, dall’“identità spezzata”, affacciato sul basso Adriatico, ad appena un centinaio di chilometri dalle Puglie, tanto da subire l’effetto quasi ipnotico dei programmi televisivi italiani e sognare il sol dell’avvenire guardando il festival di Sanremo e seguendo le avventure del commissario Montalbano. Sono le veline e le letterine semivestite, i lustrini dell’alta moda, l’apparente dolce opulenza e, soprattutto, il campionato di calcio italiano a far andare in delirio gli albanesi. E pensare che durante il regime di Hoxha chi veniva scoperto a guardare una qualsiasi emittente straniera si beccava otto anni di lavori forzati! Oggi, invece, la stragrande maggioranza della popolazione guarda con una certa ammirazione all’Italia, anche se cerca di dissimulare questo spontaneo atteggiamento dietro una corazza di orgoglio nazionalistico.
La Listri, in quei tempi così poco lontani, vive in una Tirana grigia e fredda che trabocca di solitudine, dall’atmosfera pesante, dagli spazi enormi, senza vita e senza caffè-bar, una città nuova senza molta storia, in cui quel poco che poteva testimoniare il passato è stato raso al suolo per creare una capitale comunista. Fiora trascorre il tempo tra incontri diplomatici, noiosi e inconcludenti congressi e conferenze, cerimonie, concerti, spettacoli teatrali, pranzi e cene, rapporti con gli albanesi ridotti al minimo e al formale, viaggi conoscitivi verso grasse terre nere che fanno intuire le potenzialità produttive, quasi tutte incolte e lasciate al pascolo di mucche, pecore e capre che vagano tra le migliaia di bunker, decrepite fabbriche costruite dai cinesi e squallidi “kolchoz” in stile sovietico che punteggiano e interrompono i campi arabili. Visitare questo paese non è facile, non ci si può muovere senza autorizzazione. E quando la si ottiene, bisogna percorrere chilometri e chilometri di strade montane, strette e senza guardrail, affrontare ponti traballanti ed interruzioni. La Listri potrà percorrere il nord, la parte più arretrata dell’Albania, e avrà modo soltanto di intuire paesaggi da estrema frontiera, luminosi e affascinanti, cupi e atroci: pianure verdi, colline scarnificate dalle frane, contrafforti e vette aspre, cime innevate, fiumi e torrenti impetuosi e pieni di trote, laghi e gole profonde. E non mancano le cose di pregio, come le antiche chiese ortodosse e cattoliche adornate da affreschi (la quasi totalità di esse furono fatte chiudere dal satrapo Hoxha che nel 1967 si vantava di governare il primo Stato Ateo del Mondo), le mal conservate rovine delle fortificazioni bizantine e veneziane di Durazzo, le moschee bianche, i villaggi assolati della costiera e gli antichi borghi montani dell’entroterra, aggrappati alla roccia, al tempo passato, fieri del loro splendido e drammatico isolamento.
Fra tanti impegni seri, Fiora cerca di tenere a bada le insidie: quella del losco agente segreto italiano dai denti sporgenti, quella tanto appetibile dell’ “Archeologo” capace di sollecitarle i sensi fino a consumare felicemente insieme una bella scena erotica, quella del “Maestro” direttore d’orchestra. Tra molti tira e molla, tra riti, pettegolezzi, intrighi e scaramucce, la donna riesce a distanziarsene e a cogliere, invece, la sostanza drammatica della società albanese, messa in ginocchio da secoli di povertà endemica, malnutrizione, analfabetismo e occupazioni straniere, sottoposta dal 1945 al 1985 a una delle più disumane dittature: un sistema di repressione scandito da una serie infinita di inutili piani quinquennali e caratterizzato da un controllo poliziesco di stampo cambogiano.
Quando l’ambasciata italiana comincia a riempirsi di rifugiati politici, finalmente diventa chiaro a tutti che anche in Albania sarebbe caduto più di un muro. Manifestazioni, scontri, tumulti e rivolte preparano – poco prima della fine del mandato di Serena Luciani –, con le elezioni albanesi dell’aprile 1992, la vittoria dell’opposizione democratica che dà inizio all’attuale repubblica parlamentare. Il “vecchio” sta per lasciare il posto al “nuovo”, in bilico tra arretratezza profonda e crescita verticale. La capitale, ancora fortemente “scompensata”, diventa un cantiere spasmodico, intasato di macchine e camion e soggetto a frequenti black out nell’erogazione di energia elettrica. Contraddizioni a parte, in Albania si continua a vivere, ma soprattutto si comincia a sperare. E chi campa di speranza … Cosa dice il proverbio? (nmk)