S. Cuttin, «Ci sarebbe bastato»

Scritto da Francesca Lughi
venerdì 27 gennaio 2012

Una memoria di famiglia, o meglio la memoria di due famiglie: i Lager e i Goldstein. Ma anche una vicenda tangibile – e non è cosa da poco – che, dipanandosi fra l’ultimo scorcio del xix secolo e lungo il Novecento, ci restituisce l’impronta profonda della storia viva e di come un’esistenza – in questo caso l’intreccio delle esperienze di tre protagonisti su tutti: i cugini Martino, Andi e Laci – possa portare nel suo complesso (o quasi) l’accadere di un secolo. Il merito di restituire unità ai diversi percorsi umani delineati nelle pagine di Ci sarebbe bastato è naturalmente dell’Autrice, discendente di uno dei rami dell’estesa compagine famigliare da lei stessa delineata in modo coinvolgente dopo un’accurata e appassionata cernita di fonti scritte e orali recuperate attraverso almeno tre continenti.

Dalla Transilvania austro-ungarica a Fiume, è la prima tappa dei Lager e dei Goldstein, che scelgono di fissarsi nella città liburnica grazie al clima di tolleranza verso i tanti israeliti che, come loro, provenivano dall’est in cerca di migliore fortuna sulle sponde dell’Adriatico. I patriarchi delle due famiglie trovano terreno fertile nella cosmopolita Fiume imperiale, tanto per le attività commerciali, quanto – lo si è accennato – per il comune rispetto verso il loro status religioso. L’equilibrio è destinato a spezzarsi dopo la Grande guerra, quando anche sul Liburnio si incrociano le rivendicazioni nazionali e di lì a poco scoppia il bubbone dei totalitarismi che insanguineranno a lungo il secolo appena trascorso. Per i cugini Martino, Andi e Laci incomincerà quasi subito la diaspora, ma rimarrà cristallizata nei loro ricordi (e in quelli dei lettori) la spensieratezza e la levità delle giornate trascorse d’estate in riva all’Adriatico, a Medea e in villeggiatura. Gli ultimi attimi inconsapevoli di totale comunanza.

Le parentele si incrociano e si separano. Gli impieghi lavorativi conducono certuni lontano da Fiume sino a guardare oltre Atlantico, oppure – precocemente – alla Palestina. Qualcuno resta sul posto o soltanto dappresso, a Trieste. Su tutti cala l’ombra delle Leggi razziali e delle costrizioni, delle brutalità e delle limitazioni che colpiscono anche gli italiani di fede ebraica negli anni Trenta. Per Andi la scelta è New York, lì proseguirà gli studi e si arruolerà quindi nelle Truppe di Montagna, quando il secondo conflitto mondiale coinvolgerà gli Stati Uniti. Dislocato sul fronte italiano, cadrà sull’appennino – addetto sanitario – intento a soccorrere con generosa abnegazione i commilitoni feriti. Laci e i genitori (insieme con lo zio) cercheranno rifugio in Svizzera dove, tra incertezze e privazioni, riusciranno comunque a sopravvivere alle persecuzioni e a fare ritorno in Italia, dopo la guerra. Diversa l’esperienza di Martino che, condotto a Birkenau, discenderà sino in fondo l’inferno della tragedia – in alcune parti del libro è direttamente sua la testimonianza delle atrocità vedute e sofferte. Reduce fortunoso dai campi di concentramento, ritroverà l’amica degli anni di Fiume e insieme raggiungeranno Israele per cominciare finalmente a rivivere e a lavorare nel kibbutz.

Alcuni dei molti parenti si metteranno in salvo, mentre altri scompariranno definitivamente nei grandi vuoti aperti dalla lotta armata al confine orientale: deportati e uccisi dai nazisti, oppure sequestrati ed eliminati dai titini. Di ognuno di questi famigliari (e sono davvero tanti) – percepiti dal lettore alla fine del libro come compagni di un viaggio tra intimi – Silvia Cuttin ci restituisce la rappresentazione (anche attraverso le fotografie di cui è corredato il volume), rammentandoci che la nostra esistenza non è mai data di per sé, ma è sempre legata e resa complice rispetto a quelle che ci hanno preceduto e che ci seguranno. Oltre l’indifferenza del mondo o il distacco della Storia.