A poco meno di trent’anni dall’ultima grande retrospettiva, Fiume ha celebrato il suo più grande pittore del Novecento, figlio del suo più autentico milieu multiculturale. In mostra figuravano una sessantina di opere, alcune inedite, che ne raccontano il percorso artistico, il «Viaggio verso l’astrazione»
Un autentico maestro, il più grande pittore della Fiume del Novecento, intimamente legato alla cultura italiana, figlio del milieu multiculturale che ha contraddistinto la città nei secoli. La retrospettiva dedicata a Romolo Venucci – curata da Ema Makarun, Ervin Dubrovi? ed Enrico Lucchese, allestita nella sede dislocata del Museco civico di Fiume – è stata un’occasione per rivedere la produzione del nostro artista, ragionando su un abito più ampio, europeo, o perlomeno mitteleuropeo, riportandolo cioè nel contesto che lo ha visto crescere e formarsi, sviluppare buona parte della sua carriera, scegliere il linguaggio attraverso il quale esprimere il proprio estro creativo. Un autore eccellente, da far conoscere ben oltre gli angusti spazi provinciali, cui (purtroppo) spesso è stato relegato.
Del resto, questo era l’obiettivo del triestino Sergio Molesi e della fiumana Erna Toncinich, entrambi ormai scomparsi, rispettivamente critico e storica dell’arte, due instancabili ricercatori e promotori della produzione aristica degli italiani rimasti in Istria e Quarnero. Un’arte da far conoscere tanto a livello nazionale, nei Paesi di residenza, quanto sulla scena internazionale, a cominciare dalla madrepatria Italia (magari riprendendo l’idea di quella rassegna storica che si ebbe nel novembre 1979 a Villa Manin, organizzata dall’Università popolare di Trieste, dall’allora Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, patrocinata dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia). Non contiamo gli eventi a palazzo Modello, dove Venucci è sempre di casa. Nell’estate 2018, il Museo di Marineria e Storia del Litorale croato di Fiume, allestì l’antologica “Romolo Venucci – L’arte come essenza della vita” (curata da Margita Cvijetinovi?), a rievocare la Fiume dei suoi ricordi, che ormai non c’è più – la Cittavecchia, i platani, le navi nel porto, i palazzi –, trasfigurata dai mutamenti del secondo ’900.
Quattro anni dopo – a quasi trenta dall’ultima grande retrospettiva, organizzata nel 1993 grazie anche all’eredità che la vedova Margherita aveva donato al Museo di Arte moderna e contemporanea di Fiume –, e a un anno dal centenario della nascita, la città celebra Venucci con una sessantina di lavori che ne raccontano il percorso artistico, il Viaggio verso l’astrazione, come titola la mostra voluta dal Museo civico, ospitata nel moderno Cubo (o Cubetto, dal croato Kockica), l’ex palazzina dell’ente, adiacente al palazzo del Governo.
Spalmate, cronologicamente, su due piani, si offrono al visitatore una sessantina di opere tra dipinti, disegni e pastelli – provenienti dallo stesso Museo civico, ma principalmente prestiti del Museo d’Arte moderna e contemporanea, che ha ereditato il lascito venucciano, quindi da diverse collezioni private (tra cui quella del discepolo di Venucci, il pittore accademico Mauro Stipanov) e dal Museo di marineria e storia del Litorale croato – che mostrano tutta l’eterogeneità della produzione pittorica di Venucci. Un’esposizione da non perdere, che presenta alcune autentiche “chicche”, opere rare e inedite.
Figure, nudi, figure, scorci, allegorie, studi e altri lavori realizzati in carboncino, cui si sommano le rare e luminose vedute a pastello, delicati acquerelli, i celebri ritratti-esplorazione di nuove modalità espressive, l’amarcord della Cittavecchia con i suoi tanti angoli (molti dei quali ormai scomparsi) e di Mlacca, i suoi celebri cicli sulle rocce e i platani, e ancora tante altre suggestivi quadri che riassumono e spiegano il percorso di Romolo Venucci dal realismo verso la pittura non figurativa. Spalmato su due piani, l’itinerario nel mondo artistico di Venucci segue una logica fondamentalmente cronologica.
Dai suoi primi passi, fresco di diploma alla Regia Scuola Superiore Ungherese d’Arte di Budapest – in tempi in cui l’Ungheria era l’avanguardia nel vecchio Impero, qui i giovani entusiasti avevano abbracciato il postimpressionismo, il fauvismo, il cubismo e il futurismo, le tendenze provenienti dall’Europa occidentale, che Venucci studia a fondo, avviandosi “piuttosto audacemente”, scrive Ema Makarun nel catalogo, “allo sviluppo di una propria espressione artistica d’avanguardia, verso orizzonti espressivi cubo-costruttivisti –, l’attenzione si sposta alle opere degli anni Venti, quindi alle “scomposizioni e di volumi e forme” degli Trenta – il suo periodo più felice, secondo Mauro Stipanov, quelle in cui Venucci, alla ricerca di sé aveva ritrovato sé stesso –; poi la “crisi” creativa della Seconda guerra mondiale, cui seguirà una pittura realistica – aggiungendo una “persuasività quasi fotografica” (Makarun) ai soggetti della Cittavecchia e della città in macerie – e più decorativa, per arrivare agli anni Sessanta, in cui l’artista conosce un nuovo entusiasmante ciclo. Reinventandosi nello stile astratto con la serie delle rocce, di grande suggestione, si avvicinerà così a quella che era stata l’apice della sua produzione.
Si recupera il suo rapporto con la musica: “La sua visione della pittura era collegata e in sintonia con la musica che lo animava e che tentava di trasformare in dinamica nei suoi lavori – osserva Lucifero Martini (“Intervista con il pittore Romolo Venucci. Per un libro tra le fiamme”, “La voce del popolo”, 25 luglio 1962) –. La musica per Venucci era portatrice della tattilità espressiva dei sogni, mentre con la pittura era quasi possibile rappresentare la tattilità architettonica della forma”.
“Dopo mezzo secolo di produzione artistica, di Venucci sono rimaste numerose opere di valore artistico, opere di prim’ordine che, malgrado il pittore avesse accettato di vivere lontano dai centro culturali metropolitani, meritano di essere rivalutate – conclude Makarun – e considerate nell’ambito della scena artistica dell’epoca in Croazia e oltre”. Che siano maturi i tempi per allestire una mostra permanente, o, ancora meglio, dedicare un museo “a questo grande della cultura e dell’arte – rileva il direttore del Museo civico, Ervin Dubrovi? – il cui valore valica ogni confine temporale e spaziale”?. Alcuni passi “in questa direzione sono già stati effettuati”, annuncia lo storico dell’arte. Speriamo che il sogno diventi presto anche realtà.
Ilaria Rocchi
Fonte: La Voce del Popolo – 22/06/2022