venerdì 08 agosto 2014
La storia poco nota (e poco sfruttata geopoliticamente) del corpo di spedizione di “irredenti” italiani che tra il 1918 e il 1919 combatté i bolscevichi in Siberia, facendo base in una nostra concessione coloniale a 120 chilometri da Pechino. TIANJIN, GLORIE MILITARI ITALIANE NELL’ORIENTE ESTREMO Roberto Festorazzi Alla fine della Prima Guerra Mondiale, la situazione interna della neonata Russia comunista era in grande sommovimento per lo svilupparsi di dinamiche centrifughe che miravano a sottrarre interi territori al controllo dei bolscevichi e alla sovranità di Mosca. S’innescò così una guerra civile tra le forze rosse e le armate controrivoluzionarie dei russi bianchi, a sua volta conseguenza della pace di Brest-Litovsk, il trattato firmato il 3 marzo 1918 dagli imperi centrali e dalla Russia. Un armistizio che, con la cessazione delle reciproche ostilità, segnò l’uscita del dissolto impero zarista dallo schieramento dell’Intesa e lo slittamento dell’intera zona di influenza bolscevica verso una postura incline alla collaborazione con i tedeschi. Di fatto, si trattava quasi di un rovesciamento delle alleanze. Lo sganciamento della Russia dal conflitto produsse infatti, come diretta conseguenza, l’estensione dell’influenza germanica verso oriente, anche con il reclutamento di ufficiali dell’esercito tedesco per guidare le forze bolsceviche. In Ucraina si installò un governo fantoccio filogermanico, mentre in Finlandia truppe tedesche inviate a sostegno degli insorti controrivoluzionari rovesciarono l’esecutivo socialdemocratico. Anche in Lituania e in Estonia i teutonici riuscirono a imporre «governi amici». Proprio per combattere questa paradossale marcia della Germania verso est, che avrebbe potuto innescare, per dinamiche insieme opposte e complementari, una internazionalizzazione della rivoluzione bolscevica e una sua estensione nel cuore dell’Europa, i paesi dell’Intesa si prepararono a intervenire dando manforte alle armate dei russi bianchi che contrastavano la penetrazione tedesca, colpendo altresì l’alleanza innaturale del Reich ormai sconfitto con i bolscevichi. L’atto di nascita della Repubblica di Weimar vide non a caso l’effimera affermazione di «soviet» tedeschi, mentre altri conati rivoluzionari serpeggiarno in Europa. Béla Kun, per 133 giorni, riuscì a imporre a Budapest un governo leninista, mentre in Italia gli operai occuparono le fabbriche, generando una crisi preinsurrezionale. Nei fatti, mai come nel 1919 parve imminente la sovietizzazione del Vecchio Continente. I conservatori europei, allarmati, si prepararono così ad assaltare la casa madre di questi moti: la Russia bolscevica. I paesi occidentali si precipitarono a soffiare sul rogo della guerra civile sovietica, che durò fino al 1923. Un ruolo di assoluta preminenza, nel fornire sostegno agli eserciti anticomunisti degli ex generali zaristi Anton Denikin e Pëtr Nikolaevi? Vrangel’, fu assunto dal leader britannico Winston Churchill. Questi era al tempo schierato con i liberali, ma in posizione ben distante dal premier David Lloyd George, contrario a un investimento strategico nel conflitto panrusso che avrebbe potuto partorire un risultato indesiderato: il mostro di una Grande Russia neozarista, indigesta alla Corona inglese e ai suoi interessi preminenti nel controllo delle vie del petrolio e delle rotte commerciali con le Indie. Resta tuttavia il fatto che Churchill garantì considerevoli aiuti militari ai russi bianchi, attraverso fondi messi a bilancio dell’Intelligence Service, con una campagna che alla fine costò 46 milioni di sterline. In questo quadro rientra il ruolo svolto dall’Italia in coordinamento con gli alleati occidentali, anzitutto gli inglesi. A sostegno dell’intervento delle potenze democratiche nello scacchiere russo, nell’estate del 1918 si formò un nostro corpo di spedizione in Estremo Oriente. Si tratta di un episodio poco noto, ma di grande rilevanza storico-geopolitica. L’Italia partecipava infatti a operazioni militari sui fronti eurasiatici allo scopo precipuo di rafforzare la sua collaborazione con le forze dell’Intesa. Sforzo che non fu però foriero di risultati tangibili sul piano geopolitico, perché i nostri governanti dell’epoca non seppero trarre vantaggi dall’impegno militare in terre così lontane. Ne trassero beneficio semmai l’infinita letteratura e la fiammeggiante retorica sulla «vittoria mutilata». Il corpo di spedizione in Estremo Oriente, che aveva base nella concessione coloniale italiana di Tianjin (Tientsin), scalo portuale cinese distante 128 chilometri da Pechino, comprendeva 900 soldati, i cosiddetti «irredenti italiani», che hanno una storia curiosa e interessante. Si trattava di militari di etnia italiana provenienti dal Trentino, dall’Alto Adige e dalla Venezia Giulia, ossia dalle province italiche dell’impero austro-ungarico: soldati di truppa che, per evidenti ragioni di opportunità, furono distolti dalle zone di operazioni in cui avrebbero facilmente disertato, per essere impiegati – meglio: gettati – al gelo del fronte russo. Gli «irredenti» furono fatti prigionieri dai russi zaristi. Dopo la pace di Brest-Litovsk, vennero lentamente liberati dai campi di concentramento nei quali erano stati rinchiusi. Non fu affatto impresa semplice individuarli e riscattarli dall’internamento, tanto che a tale proposito venne costituita a Pietroburgo una nostra missione ad hoc. Una vicenda che richiama alla memoria un’altra storia di lutti e di tragedie, quella della sorte dei nostri militari fatti prigionieri dai russi nella Seconda Guerra Mondiale. Gli irredenti arruolati nel corpo di spedizione in Estremo Oriente raggiunsero alla fine un totale di 3000. Sbarcato in Manciuria il 17 ottobre 1918, al comando del tenente colonnello Edoardo Fassini Camossi, il contingente era composto da un battaglione di fanteria, da una sezione di carabinieri reali e da una sezione di artiglieria da montagna. Il corpo raggiunse così il territorio per il quale era stato destinato: Vladivostok, nella Siberia orientale. Lì inglobò i primi 900 irredenti liberati dai campi di prigionia e fu inquadrato in una divisione cecoslovacca. Vennero così alla luce i «battaglioni neri», chiamati così per il colore delle mostrine che esibivano. Nella primavera del 1919 la situazione delle forze alleate in Siberia era la seguente: 2000 soldati italiani, acquartierati a Krasnojarsk; due reggimenti britannici (per complessivi 4.500 uomini); due divisioni statunitensi (40 mila uomini), quattro giapponesi (60 mila unità), quattro cecoslovacche (60 mila uomini) e un battaglione francese. Verso la fine di aprile di quell’anno, a ridosso del nostro settore di Krasnojarsk, a sud della ferrovia transiberiana, tra i fiumi Jenisej e Kan, si venne radunando una massa imponente di bolscevichi: sei reggimenti di fanteria e uno di cavalleria, in tutto 20 mila uomini. Scopo di questa grande forza armata era tagliare le comunicazioni tra gli alleati e le forze bianche che agivano in Siberia. Su queste ultime, dominava, anzi imperava, la figura del contrammiraglio Aleksandr Vasil’evi? Kol ?ak, l’autocrate che per un certo periodo ebbe un ruolo di grande rilevanza nello schieramento della reazione antibolscevica. Fino all’inizio dell’estate del 1919 contro i soldati dell’Armata Rossa si batterono gli alleati dei generali anticomunisti russi. Gli italiani, insieme ai cecoslovacchi, si scatenarono in attacchi furiosi, nel corso di battaglie campali di tipo ottocentesco che ebbero corrispondenti epici di simile portata soltanto in taluni episodi della ritirata di Russia, un quarto di secolo più tardi. Alle cariche «alla sciabola» della cavalleria russa si rispose con il tiro delle artiglierie, ma soprattutto scagliandosi in assalti «alla baionetta». Le cariche di cechi e italiani furono lodate anche da organi di stampa siberiani, come la Svobodnaja Sibir’, che si pubblicava a Krasnojarsk. E il ministro della Guerra, il generale Enrico Caviglia, espresse il suo compiacimento «per i brillanti successi ottenuti, comprovanti sempre e ovunque le magnifiche qualità e il valore del soldato italiano» (1). Il reale contributo dei «battaglioni neri» venne tuttavia ingigantito, soprattutto ad opera della propaganda fascista, durante il Ventennio. Al di là del valore degli irredenti in combattimento, la campagna militare che vide la partecipazione del nostro corpo di spedizione si rivelò alla fine un mezzo fallimento. L’obiettivo di liberare il territorio della Transiberiana dalla presenza dei bolscevichi non fu raggiunto. Tra i nostri, i caduti furono tuttavia soltanto 22. Il contingente italiano venne ritirato nell’agosto di quello stesso 1919, cioè all’epoca in cui l’Armata Rossa, sotto la guida carismatica di Lev Trockij, riuscì a riorganizzarsi passando al contrattacco. Si è accennato alla circostanza che il corpo di spedizione in Estremo Oriente fosse basato a Tianjin, la concessione commerciale in territorio cinese che l’Italia ricevette nel 1902, dopo la nostra partecipazione alla missione internazionale che intervenne per fronteggiare la cosiddetta rivolta dei boxer che avevano invaso le concessioni anglofrancesi facendo strage di europei. I boxer, così chiamati per la loro pratica di arti marziali, erano schiere di cinesi aggregati in organizzazioni nazionalistiche insorte contro l’influenza dei colonizzatori stranieri. Vale la pena di spendere qualche parola sulle vicende di questo lembo d’Italia di cui si conservano ancora le memorie in loco. L’esistenza della nostra colonia nel cuore del Celeste Impero è ben conosciuta dai collezionisti più esperti, che raccolgono sia i francobolli italiani sovrastampati «Tientsin» (Tianjing) sia quelli con analoga scritta «Pechino» (Beijing), autentiche rarità che raggiungono in qualche caso quotazioni da capogiro: addirittura centinaia di migliaia di euro al pezzo. Le città cinesi che vedevano la presenza italiana, infatti, oltre a contare sulla forza dei presidi militari della Marina, disponevano di stazioni radiotelegrafiche e di ricevitorie postali di prima classe, del tutto identiche per rango a quelle della madrepatria e delle colonie, cioè autonome e con proprie emissioni filateliche. A Tianjin noi italiani occupammo un’area di 46 ettari, all’interno di un’ansa del fiume Pei-ho. Inizialmente si trattava di un terreno malsano e fangoso, disseminato di acquitrini e saline, su cui sorgeva un villaggio di capanne di paglia e fango abitato da 16 mila cinesi. Nei decenni seguenti, l’area venne bonificata fino a trasformarsi in un insediamento urbanistico razionale, una cittadina di tipico impianto coloniale, con 17 strade e 2 piazze, l’ospedale, la scuola italiana e cinese, una piccola cattedrale, il mercato coperto, una caserma, intitolata a Ermanno Carlotto, il consolato, un centro sportivo, il municipio, la centrale telefonica, oltre a un piccolo quartiere residenziale costituito da villette con giardino in stile eclettico anni Venti. Edifici ancora quasi interamente esistenti e oggetto di accurati interventi di restauro conservativo che il governo cinese ha intrapreso negli ultimi anni. Un recupero filologicamente accurato che ha prodotto esiti che in Italia sarebbero giudicati imbarazzanti: la torre del Palazzo dello sport evidenzia infatti tuttora, ai quattro angoli, enormi fasci littori. La colonia a quel tempo era retta da un consiglio presieduto dal regio console e formato da rappresentanti dei residenti, sia italiani sia cinesi. Se si considera che nel 1936 la popolazione della concessione sfiorava le 8 mila unità, appare chiaro che non si trattava di un’entità trascurabile. Dopo la sconfitta degli imperi centrali l’Italia poté annettersi il territorio della concessione austriaca di Tianjin, città per definizione internazionale. Nel 1925, per volontà di Mussolini, venne costituito il battaglione italiano in Cina che fu ospitato nella caserma Carlotto. Il 10 giugno 1940, al momento della nostra entrata in guerra, la concessione era presidiata da 300 marinai del reggimento San Marco. I giapponesi, che dopo essere intervenuti nel conflitto avevano invaso il territorio internazionale della città, mantennero un occhio di riguardo nei confronti degli italiani: dopo tutto, si trattava di loro alleati. Gli uomini della San Marco, infatti, poterono conservare il diritto di risiedere nella loro caserma e di portare le armi. La sovranità italiana fu formalmente rispettata a Tianjin fino all’8 settembre 1943. Sino a quel momento, dal punto di vista dell’amministrazione civile, a capo della comunità dei nostri connazionali vi era il console e podestà Ferruccio Stefenelli. All’annuncio della resa armistiziale, le truppe nipponiche occuparono la concessione, circondarono la caserma e disarmarono la nostra guarnigione. I militari della San Marco che rifiutarono di collaborare furono spediti in un campo di concentramento in Corea. Viceversa, coloro che accettarono di scendere a patti con i giapponesi poterono restare nella caserma fino all’8 gennaio 1944. Poi ne vennero espulsi con la qualifica di civili non nemici. Alla conclusione della guerra, gli italiani della concessione vennero fatti prigionieri dagli alleati. I quartieri commerciali di Tianjin, Pechino e Hankow furono definitivamente soppressi dai trattati di Parigi del 1947 e riassegnati alla Cina. (1) Cfr. E. GRASSELLI, L’esercito italiano in Francia e in Oriente, Milano 1934, Corbaccio, pp. 370-371. Fonte: «LiMes», 07/08/14