Scritto da Carlo Ghisalberti
R. Lunzer, Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ‘900, presentazione di M. Isnenghi, Trieste, Lint editoriale, 2009, pp. 467.
Munita di una profonda conoscenza della letteratura giuliana del Novecento Renate Lunzer ne offre con questo suo importante volume, frutto di lunghi anni di studio, un quadro veramente esaustivo. Si tratta di un’analisi estremamente approfondita del modo di pensare e di sentire degli intellettuali che vissero e descrissero le vicende di quella regione posta al crocevia di tre mondi, l’austriaco, lo slavo e l’italiano negli anni che videro il suo passaggio dalla sovranità asburgica all’annessione all’Italia.
Fu un periodo drammatico per quei giuliani che ebbero la sorte di vivere l’attesa, lo svolgimento e le conseguenze della Grande Guerra, anche per il dilaceramento delle coscienze provocato nel corso degli eventi che si susseguirono nel tempo e che gli intellettuali e gli uomini di cultura, forse più degli altri, ebbero a soffrire.
Erano eventi che avrebbero poi resi consapevoli gli irredentisti democratici come Alberto Spaini, della caduta di tante illusioni legate alla “redenzione” sognata. Altri invece, scettici o addirittura ostili per formazione, per cultura o per motivi diversi all’intervento italiano che avrebbe posto fine al “Welt von Gestern” nel quale erano fino allora vissuti, intuivano con un atteggiamento tra il fatalista ed il pessimista i danni che la dissoluzione dell’Austria-Ungheria avrebbe nel tempo prodotto anche in quello che era chiamato il ricco ed attivo Litorale adriatico. Questa intuizione drammatica allo scoppio della guerra avrebbe portato Angelo Vivante alla disperazione e al suicidio.
Alcuni infine, abbagliati, come Ruggero Fauro Timeus, caduto ben presto sul Carso, dagli ideali nazionalisti o dal mito dannunziano di “una più grande Italia” protesa verso l’Adriatico orientale e la Balcania, non avrebbero potuto comprendere se non molto più tardi nella tragedia della seconda guerra mondiale gli incommensurabili guasti derivati dalla irrazionale fede riposta in quegli ideali ed in quel mito.
La riflessione di Renate Lunzer era iniziata con lo sguardo volto agli irredentisti che a Trieste, a Gorizia e, più in generale, nella Venezia Giulia avevano sognato il distacco della loro regione dall’Austria ritrovando nell’università fiorentina ove si erano raccolti negli anni della vigilia un’italianità non più soltanto culturale. Costoro dopo l’eccidio di Sarajevo ed il rombo sinistro dei cannoni d’agosto, avevano fatto la scelta interventista indossando da volontari il “grigioverde” che li avrebbe portati nel 1915 dalla Firenze de «La Voce» a combattere sul Carso e sul Trentino e, taluni di loro. come Scipio Slataper e Carlo Stuparich a morire nell’“ultima guerra del Risorgimento” per la ritrovata patria italiana.
Coloro che tra le file degli irredentisti interventisti ebbero la sorte di cadere per la “redenzione” sognata ebbero l’“onore di pianto” reso dalla collettività nazionale vittoriosa che ne celebrò l’eroismo e il sacrificio Molti altri invece, ed erano decine di migliaia, per lealtà all’Impero asburgico, per obbedienza alle sue leggi, o anche per timore di sanzioni o semplicemente per mera inerzia, indossarono il “feldgrau” delle divise imperial-regie e dovettero combattere sui molti fronti dove il governo di Vienna li aveva mandati. Quell’ “onore di pianto” che la storia per lo più mostra riservato ai vincitori, fu negato a quanti caddero nelle file imperial-regie perché avevano combattuto dalla parte avversaria soccombente. Così a ricordare la loro memoria restò solo il dolore privato di tante famiglie giuliane e trentine.
Al di là comunque delle differenze che alla vigilia della Grande Guerra caratterizzavano i sentimenti dei giuliani nei confronti dell’Austria di Francesco Giuseppe, che peraltro mostravano da un punto di vista statistico essere l’irredentismo limitato per lo più al ceto intellettuale e condiviso solo da una minoranza, va ribadito il carattere legalitario, liberale e piuttosto tollerante di quell’Impero che gli irredentisti sembravano allora non apprezzare. Questo carattere avrebbe fatto riconoscere poi a non pochi di essi, come sottolinea incisivamente la Lunzer, che al confronto con la dura prassi di governo dei regimi totalitari sorti dopo la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, le inefficienti vessazioni poliziesche di questa erano piccola cosa.
Non a caso anche sulle scene teatrali comici del livello di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna avrebbero ricordato con una certa nostalgia un cinquantennio dopo la sua fine che la defunta monarchia danubiana doveva forse essere giudicata per la positività di certi suoi caratteri non soltanto come “il paese ordinato”, retto dal “povero Franz”.
Emblematico al riguardo delle non poche disillusioni sofferte da costoro appare alla Lunzer il suicidio dell’ebreo goriziano Enrico Rocca che era stato irredentista, volontario nella Grande Guerra, ferito una prima volta durante la conquista della sua città natale nell’agosto del 1916 ed una seconda sul monte Kuk nel 1917. Questi, che insieme ad Ervino Pocher apparirà tra i più appassionati cultori della letteratura austro-tedesca in Italia, deluso del fascismo al quale aveva dato originariamente la propria adesione anche perché preso dal mito della vittoria mutilata, indignato poi per l’intolleranza razzista ed ideologica della Germania hitleriana, veniva colpito personalmente dalle leggi antiebraiche del 1938. Così, sconvolto anche per gli orrori della seconda guerra mondiale, imitando l’amico e corrispondente Stephan Zweig che nel 1942 nell’esilio sudamericano si era tolto la vita, decise di porre fine alla propria nel 1944 nella natia Gorizia.
Peraltro anche l’esperienza di Biagio Marin che allo scoppio della prima guerra mondiale aveva passato il confine per arruolarsi nell’esercito italiano, ma affetto da una grave malattia ne era stato esentato, e che per le delusioni successive dovute alla dittatura fascista nei cui schemi per il suo individualismo mai riuscì ad integrarsi, aveva perso quella fede nella nazione che l’aveva dominato negli anni più verdi, appare alla Lunzer esemplare delle delusioni di non pochi uomini di cultura dell’irredentismo di fronte alla realtà emersa dopo quella guerra.
L’antica speranza di alcuni che la Duplice Monarchia, nel rispetto del carattere dei popoli che la componevano, avrebbe potuto trasformarsi in un ordinamento federale, come soprattutto i cechi descritti da Giani Stuparich sembravano auspicare, era destinata ancor prima dell’attentato di Sarajevo ad apparire del tutto illusoria di fronte al timore diffuso negli ambienti viennesi del diffondersi dei tanti irredentismi che avrebbero poi minato con l’unità l’esistenza stessa di un Impero secolare la cui dissoluzione avrebbe però suscitato nostalgie e rimpianti.
Pur consapevole della fatalità di quella dissoluzione Giani Stuparich nelle sue riflessioni estremamente significative sulla guerra ha saputo mettere in luce, come sottolinea la Lunzer, non solo i sentimenti di un combattente irredentista triestino ma anche le passioni, i sacrifici e le angosce di chi di qua e di là del fronte viveva la tragica esperienza che si consumava in quegli anni in vista di una “redenzione” portatrice di non poche delusioni anche a coloro che l’avevano sognata. Era un’esperienza che vedeva talvolta persino divise le famiglie nelle quali se qualcuno come i fratelli Stuparich, aveva passato il confine per combattere per l’Italia, altri avevano invece risposto come il loro padre alla leva austro-ungarica per difendere la frontiera galiziana dell’Impero o occupare la Romania come l’allora giovanissimo Ernesto Sestan, istriano di Albona e futuro storico della Venezia Giulia, che per i vaghi sentimenti filoitaliani sembrava in garbato contrasto col padre, onesto e fedele funzionario imperial-regio.
Quegli irredentismi comunque, non avevano impedito al multietnico esercito austro-ungarico di combattere disciplinatamente fino all’autunno 1918 quando le sconfitte militari in Macedonia prima, a Vittorio Veneto poi posero fine al conflitto lasciando nel pensiero di alcuni il dubbio sull’effettivo seguito che le varie élites irredentiste delle regioni del vasto Impero avevano tra le moltitudini che quella guerra avevano fino allora combattuto.
Non a caso, infatti, al di là dei differenti sentimenti di quelle élites delle molteplici nazionalità della monarchia danubiana e del loro auspicare l’indipendenza del proprio popolo, non si può disconoscere il loro carattere minoritario e la non troppo forte incidenza che ebbero sul comportamento in guerra dell’esercito imperial-regio. Emblematiche da questo punto di vista sembrano le vicende descritte nel romanzo La frontiera di Franco Vegliani, di due militari in feldgrau, l’uno soldato sloveno l’altro ufficiale italiano del Litorale, entrambi motivati da diversi sentimenti irredentisti, che riescono adare il senso dell’isolamento totale nel quale la tragedia di ciascuno di essi si consumò ed al tempo stesso del drammatico diverso destino al quale andarono incontro per la propria autonoma scelta. Sono vicende che hanno offerto ad uno storico del livello di Arduino Agnelli l’occasione di riflettere sul significato che in quel passato aveva e che forse ha tuttora la coscienza dell’appartenenza o dell’inappartenenza nazionale nelle aree multietniche, come quelle rievocate ne La frontiera di Franco Vegliani.
Dopo la guerra, quando molti della generazione degli irredentisti poi redenti, resi consapevoli della tragedia che aveva sconvolto la vita di tanti e cancellato con la monarchia danubiana il mondo nel quale si erano formati, furono portati a ripensare il loro passato, si cominciò a riflettere sui valori della cultura mitteleuropea che andava assumendo forme nuove e più moderne espressioni. Le indagini introspettive di personaggi aperti alla psicanalisi di marca viennese, le opere di poeti e scrittori che mostrano un disincanto verso i temi propri della tradizione della quale si era nutrita la generazione irredentista, l’avvio di un crescente interesse per gli aspetti di civiltà e di umanità del mondo di ieri simboleggiato nel loro immaginario dall’Austria felix ormai finita, danno il senso di un graduale mutamento del clima intellettuale giuliano.
Giustamente Renata Lunzer conclude la sua analisi di questo mutamento esaltando il forte significato e il valore emblematico, nella interpretazione della cultura mitteleuropea nella quale erano inseriti gli intellettuali giuliani, dell’opera di Claudio Magris, dal giovanile Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, al Danubio ed ai tanti altri scritti che li hanno seguiti.