Lo scrittore istriano conobbe e narrò l’italianità spezzata. Prima e dopo l’annessione jugoslava.
Nell’atrio della sua casa veneziana di San Cassiano dove, cacciato da Trieste, si era rifugiato nel 1945, Pier Antonio Quarantotti Gambini aveva steso su una parete la grande bandiera di Semedella, la località istriana di vacanza della famiglia, fatta fare dal nonno, deputato al parlamento austriaco, ma patriota italiano.
Rossa con la croce bianca nel cui centro c’era la Gorgona, l’antico stemma di Capodistria, veniva issata nelle ricorrenze felici, surrogato e/o sostituto di quel tricolore che per l’Austria-Ungheria sarà sino al 1918 un vessillo straniero e nemico…
La sua italianità spezzata, Quarantotti Gambini continuò a viverla così, con un affidarsi alla memoria protettiva del passato, filtrato sulla pagina dalla lucidità di uno scrittore a cui la storia aveva sottratto a tradimento la possibilità di raccontare, con la stessa audacia usata per l’infanzia e l’adolescenza, l’età della ragione. Trentacinquenne alla fine della Seconda guerra mondiale, si era ritrovato esule dalla parte sbagliata, quella degli sconfitti; antifascista, si ritrovò epurato dagli jugoslavi come fascista solo perché italiano… Primavera a Trieste (Mondadori, pagg. 344, euro 18, a cura di Elvio Guagnini, con uno scritto di Claudio Magris) è il racconto-diario di quei 40 giorni, dal primo maggio al 12 giugno, in cui le truppe titine occuperanno la città e, complici i pasticci politico militari delle forze alleate, fatti di faciloneria, ottusità, machiavellismo miserabile, e la latitanza del CLN italiano, la Jugoslavia di Tito si ritrova a un passo dal fare di Trieste una sua provincia. «Siamo come una nave naufragata con i pirati a bordo» scriverà allora Quarantotti Gambini, sbalordito e addolorato nel vedere le sorti italiane di una città che tanto aveva significato per l’irredentismo della Grande guerra, lasciate cadere come se non importasse a nessuno, peggio, come se il rivendicarle in quanto tali fosse un delitto e insieme un’ammissione di colpevolezza.
«La paura dell’estetica ha lasciato scritto Dostoevskij è il primo segno dell’impotenza. Mi tornano alla memoria, e mi folgorano queste parole. Nel momento che stiamo vivendo gli italiani hanno, purtroppo, paura dell’estetica, cioè il timore di apparire nazionalisti, di far dire che sono nazionalisti, anche se nel loro intimo sanno di non esserlo. Qualcuno obietta che tra noi italiani e Tito c’è qualche differenza: Tito è vincitore. Sta bene, è vincitore: ma forse può, per questa sola ragione, assoggettare gli italiani della Venezia Giulia? Si badi, se si ragiona così anche Hitler per un certo tempo era vittorioso». E ancora. «Siamo italiani da secoli, con generazioni e generazioni di gente del nostro sangue, tutta ugualmente istriana e italiana, dietro le spalle. Ebbene, non temeremo di apparire nazionalisti, in mezzo a qualsiasi sciagura che possa colpire il nostro paese, se sosterremo sempre che Trieste e l’Istria sono italiane, nonostante la presenza degli slavi, e se cercheremo sino all’ultimo di far conoscere ai nostri connazionali e agli stranieri questa realtà».
Si capisce anche da questo perché Quarantotti Gambini si definisse «un italiano sbagliato»: era il cantore e insieme il testimone di un qualcosa che all’indomani della fine della guerra l’Italia ufficiale non voleva ricordare e anzi avrebbe preferito dimenticare. In Primavera a Trieste, uscito nel 1951, c’è già nero su bianco la realtà di ciò che è successo: gli spari dell’esercito di Tito sulla folla triestina che il 5 maggio 1945 manifesta la sua italianità, cinque morti, molti feriti, gli arresti, le deportazioni, le esecuzioni sommarie, l’occupazione di edifici pubblici e privati, il proseguire delle foibe… Contemporaneamente, nel concitato tentativo di arrivare a un punto di non ritorno rispetto alla controparte alleata presente in città, l’instaurazione di una legislazione parallela, facendo finta si tratti di un’operazione di fratellanza democratica che unisca slavi e italiani: «È lo stesso accondiscendere e lo stesso blandire che si usano coi bambini, o coi pazzi. Mentre un infermiere dice ininterrottamente di sì, di sì, l’altro tiene nascosta e pronta la camicia di forza».
Scrittore importante, di statura europea, Quarantotti Gambini morirà troppo presto, a 55 anni. Lo tradì proprio il tempo, alla cui prospettiva aveva guardato in tutta la sua carriera di narratore non tentato né sedotto dall’attualità. E lo tradì la storia, tanto amata nel suo essere insieme racconto e memoria radicata, e poi tanto odiata allorché si ridusse a pura ideologia. Il suo libro più famoso resta L’onda dell’incrociatore, il cui titolo gli era stato suggerito da Umberto Saba: «Guarda come apre e chiude bene – direi anche esattamente – la strana giornata nella quale si svolgono tanti fatti curiosi, nella realtà e nel ricordo». Ambientato negli anni Trenta nel porto di Trieste, la zona della Sacchetta dove il remo è lo sport virile e proletario e la vela ancora un passatempo da snob, raccontava le ansie e i dolori di Ario, stretto fra l’ammirazione e l’odio per Eneo, il fuochista campione di canottaggio di cui si è invaghita sua madre, la gelosia per Lidia, sorella dell’amico Berto e anche lei amante di Eneo… Finirà in trageda, una tragedia non voluta e cieca, e quindi ancora più stupida, ma pochi scrittori come Quarantotti Gambini sono riusciti a trattare il tema dell’adolescenza e dei primi turbamenti sessuali, l’impasto fra innocenza, vergogna e colpevole quanto sfacciato piacere.
Eppure, il romanziere migliore non è qui, né in La rosa rossa, l’altro suo titolo più celebre, ma nel ciclo Gli anni ciechi a cui egli lavorerà per tutta la vita e che lasciò incompiuto, due parti su tre, sette storie su dieci. Doveva raccontare l’esistenza, vera, perché in parte autobiografica, e al tempo stesso immaginaria di Paolo de Brionesi Amidei, dall’infanzia alla maturità, sullo sfondo di un’epoca che dalla Prima guerra mondiale arrivava agli anni Sessanta; giunse invece sino al tempo dell’adolescenza del protagonista, di cui dà conto I giochi di Norma… E tuttavia, Quarantotti Gambini aveva già in testa il ciclo completo e all’inizio del manoscritto di Le redini bianche, che lo apriva, aveva piazzato il racconto-frammento Tre bandiere, l’angosciato ritorno in Istria, dopo la Seconda guerra mondiale, di un Paolo ormai uomo fatto e costretto a misurarsi con la scomparsa di un luogo, di un’identità, della sua stessa dignità.
Pubblicato postumo, Gli anni ciechi non è solo una straordinaria saga familiare, è un affresco storico di rara efficacia, il ritratto di quell’Italia non ancora tale, perché sotto gli Absburgo, e però vogliosa della propria indipendenza nazionale. È anche, e forse soprattutto, un puntiglioso immergersi nei sogni e nei desideri di un bambino, il mondo dei grandi visto con occhi infantili che non sono sempre occhi incolpevoli e spesso sono occhi pieni di ferocia, rancore, irrazionale violenza. Quarantotti Gambini è consapevole che l’età dell’innocenza è anche l’età dell’inganno e del desiderio che non ammette regole né freni. In Le redini bianche, La corsa di Falco, Il cavallo Tripoli assistiamo a un’infanzia favolosa che poi in L’amore di Lupo, Le trincee, I giochi di Norma virerà sempre più al nero, via via che la guerra, gli anni, le passioni si fanno più ingombranti e l’antico equilibrio va in pezzi, fra lutti, compromessi, debolezze, silenzi.
Scrittore di mare, poeta di frontiera, l’adolescenza degli «anni ciechi», dell’indeterminatezza, e poeta della sessualità. Primavera a Trieste ci aiuta però a ricordare come Quarantotti Gambini sia stato anche, nel momento del bisogno, un grande scrittore civile, in grado di capire perfettamente come Trieste e la sua italianità fossero il primo terreno di scontro della Guerra fredda, una sorta di prova generale delle forze in campo: «Gli italiani scambiano per storico l’effimero. Gli italiani ammazzano Claretta, e non si accorgono che l’ala della storia batte sulle Alpi Giulie».
Il Giornale, 18 marzo 2018