Scritto da Angelo Picariello, «Avvenire», 01/02/15
lunedì 02 febbraio 2015
Settanta anni fa, mentre il campo di Auschwitz era già stato liberato dalle truppe dell’Armata rossa, Giovanni Palatucci era alla fine dei suoi giorni a Dachau, che sarebbe stato liberato solo 4 mesi dopo dalle truppe americane. Il 70esimo anniversario della morte dell’ex questore di Fiume, avvenuta il 10 febbraio 1945 a seguito di un’epidemia di tifo petecchiale, passerà senza grandi clamori mentre non si è ancora spenta l’eco delle polemiche suscitate dalla campagna di stampa scaturita dalle ricerche del Primo Levi center di New York che ha messo in discussione la fondatezza della fama di salvatore di migliaia di ebrei del funzionario di polizia di origini irpine, fino a descriverlo come delatore delle Ss. A breve si attende l’esito delle ulteriori ricerche sul caso portate avanti dalla Commissione promossa dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane insediatasi presso il Cdec di Milano e presieduta da Michele Sarfatti che ha passato al vaglio tutte le nuove acquisizioni.
Messi in discussione sono anche i molteplici riconoscimenti ottenuti da Palatucci, dalle celebrazioni che si tennero in suo onore in Israele, a Ramat Gan, il 23 aprile 1953, alla medaglia d’oro conferita nel 1955 dall’Unione delle Comunità israelitiche d’Italia, fino alla proclamazione, nel settembre 1990, a Giusto fra le Nazioni da parte dello Yad Vashem. Riconoscimenti scaturiti sulla scorta della diretta testimonianza dei salvati. «Il tema diventa delicato, a oltre 70 anni da quei drammatici avvenimenti, con i superstiti ormai ridotti al lumicino, si rischia di rimettere in discussione tutta la storiografia della Shoah», dice Nazareno Giusti, giovane studioso lucchese, che già aveva dato alle stampe una pubblicazione a fumetti sull’ex questore di Fiume e ora esce con il volume Giovanni Palatucci. Una vita da (ri)scoprire pubblicato da Tra le Righe – Andrea Giannasi Editore (pagine 158, euro 14), una prima ricostruzione in chiave critica delle nuove ricerche attraverso approfondimenti e interviste.
Particolarmente interessante l’apporto di Roberto Malini, poeta, scrittore e storico della Shoah, che in una lunga intervista confessa le sue iniziali titubanze fino ad arrivare alla convinzione piena della grandezza di Palatucci. Tanto da aprire un carteggio con la presidente del Primo Levi Center, e anche con Nathan Cassuto, membro della presidenza dello Yad Vaschem, ottenendo dalla prima l’assicurazione che la ricerca è solo all’inizio (sebbene i danni arrecati siano difficilmente riparabili) e dal secondo la negazione di ogni intenzione da parte del Memoriale dell’Olocausto di rivedere la sua posizione, come pure era stato scritto dal New York Times. È nota la stretta collaborazione che ci fu fra l’ex questore di Fiume e lo zio Giuseppe Maria Palatucci che era vescovo a Campagna, località dell’entroterra salernitano in cui era situato un centro di internamento verso il quale Palatucci tentava di indirizzare molti dei salvati. E giovedì prossimo, il 5 febbraio, al museo allestito presso l’ex campo di San Bartolomeo, ospite del Comitato Palatucci di Campagna, sarà in visita il rabbino capo della comunità di Roma Riccardo di Segni, che in serata interverrà a Salerno anche un incontro organizzato dal Rotary proprio sulla figura di Palatucci. Un segnale importante.
Lo stesso Di Segni, nella prefazione al saggio del pittore ebreo Georges De Canino (Il poliziotto che cercava le stelle) del 2011, aveva definito Palatucci un «funzionario che ebbe il coraggio di resistere alla barbarie nazifascista». E sempre su iniziativa del comitato Palatucci di Campagna, presieduto da Michele Aiello, esce un altro saggio, L’affaire Palatucci. Giusto o collaborazionista dei nazisti (pagine 80, edizioni Comitato Palatucci) a opera di Giovanni Preziosi, che ha messo insieme le sue nuove ricerche pubblicate sull’Osservatore romano e sulla rivista Christianitas, che hanno fatto piena luce, fra l’altro, su alcuni salvataggi. Come quello di due ebrei fiumani, Americo Ermolli ed Ernesto Laufer – con l’intervento del frate francescano milanese padre Enrico Zucca e del commissario Mario Scarpa, che era stato collaboratore di Palatucci a Fiume – o della giovane profuga ebrea Mika Eisler, di cui molto si è scritto come la presunta fidanzata di Palatucci, e della madre Dragica Braun. Ma in questi mesi un’altra inchiesta giornalistica ha confutato un caposaldo delle accuse piovute su Palatucci. Sulla Voce di Romagna Aldo Viroli, venendo in possesso di un documento conservato dalla Società di studi storici fiumani, ha ricostruito la storia della presunta delazione di Palatucci che sarebbe stata all’origine dell’arresto di un’intera famiglia rifugiatasi a Ravenna, la famiglia Berger, intercettata in provincia di Varese mentre cercava di espatriare attraverso il confine svizzero. Innanzitutto il biglietto che informa la questura ravennate non è firmato da Palatucci, ma da altro funzionario ‘pel questore’. Inoltre la data del biglietto, ‘urgente’ solo formalmente, è del 23 maggio 1944, mentre l’arresto della famiglia era già avvenuto il 4 maggio.
Un’informativa quindi tardiva e reticente, mentre una componente della famiglia scampata all’arresto racconta invece degli aiuti ricevuti da Palatucci. La tesi del Palatucci-collaboratore dei nazisti, insomma, proprio non regge. Resta in piedi invece la diatriba sui numeri. Ma anche su questo sarà difficile confutare quanto scriveva Settimio Sorani, presidente della Delasem, la società di assistenza ebraica, che nel suo memoriale indicava in Palatucci il referente unico dell’organizzazione a Fiume. Città di confine al tempo, e i numeri dei salvataggi sono legati in massima parte a una stima sugli ebrei in fuga dal regime degli ustascia. Sorani nel dare conto di ben 12.200 profughi ‘controllati’ e trattenuti nei campi nel territorio sotto controllo delle truppe italiane al di là del confine (sfuggiti alle persecuzioni, e in gran parte poi salvatisi) sostiene che «debbono aggiungersi un numero indeterminato di persone non registrate perché entrate in Italia illegalmente senza regolari visti d’ingresso». E la porta di ingresso in Italia era Fiume, dove il commissario dell’ufficio stranieri, poi divenuto questore, «provvedeva ad allontanare alla chetichella gli ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati».