Le città più importanti, collegate da una fitta rete di strade e acquedotti, furono oltre a Salona, Zara e Nona (Aenona – Nin): a nord Scardona (Skadrin) alle foci del Tizio (Cherca- Krka); Narona, alle foci della Narenta, e più a sud Epidauro (Ragusa) e Risinium.
Altri centri urbani di rilievo per i resti archeologici che ci hanno lasciato furono Asseria e Burnum nell’entroterra zaratino; Promona, Aequum, Magnum, Delminium nell’entroterra salonitano; Butua (Budua – Budva) alle Bocche di Cattaro e sulle isole Curicta (Veglia – Krk), Arba (Arbe – Rab), Absoros o Absortium (Ossero – Osor), Cissa (Pago – Pag), Brattia (Brazza – Bra?), Pharia (Lèsina – Hvar), Corcyra Nigra (Curzola – Kor?ula).
Per dare ragione di questa profonda romanizzazione della Dalmazia Theodor Mommsen così scriveva: “Nel tempo della Repubblica romana i commercianti italici, succeduti ivi ai greci, avevano in tal numero colonizzato i grandi porti di Epidaurum (Ragusa Vecchia), Narona, Salonae e Iader (Zara), che non poca parte essi poterono avere nella guerra di Cesare e Pompeo. Ma non prima di Augusto questi luoghi vennero rafforzati con novelle colonie di veterani e, ciò che più monta, ordinati a municipi. Nel medesimo tempo in parte l’energica distruzione dei covi di pirati ancora esistenti sulle isole, in parte la soggiogazione del continente e l’allargamento dei confini verso il Danubio, tornaron di vantaggio soprattutto a questi Italici insediati sulla costa orientale del mare Adriatico. Salonae, la capitale del paese, sede del governatore e dell’intera amministrazione, fiorì più di tutte rapidamente e sorpassò di gran lunga le antiche colonie greche di Apollonia e di Dyrrachium…
E’ ben probabile che al fiorire della Dalmazia e al decadere della costa illirico-macedonica abbiano grandemente contribuito l’opposizione tra il regime imperiale e il senatorio, la migliore amministrazione e il favore del vero sovrano. E alla medesima cagione dovrà pure attribuirsi l’essersi la nazione illirica conservata nei limiti della provincia macedonia, meglio che in quelli della dalmatica. In quella (attuale Albania, n.d.r.) è viva tuttora, e tranne la greca Apollonia, e la colonia italica di Dyrrachium, nell’Impero, accanto alle due lingue ufficiali del continente (latino e greco) deve essere rimasta illirica quella del popolo.
Per contrario nella Dalmazia le coste e le isole ebbero, per quanto era possibile, un ordinamento comunale italico – il tratto inospitale al settentrione di Iader rimase necessariamente indietro – e bentosto l’intero litorale parlò il latino, quasi come ai nostri giorni (1885, n.d.r) parla il veneziano. Rispetto al continente poi, ostacoli locali si opposero affinché la civiltà vi penetrasse. I maggiori fiumi della Dalmazia, in fatti, formano piuttosto cascate d’acqua che mezzi di comunicazione; e la stessa costruzione delle vie incontra straordinarie difficoltà a cagione della natura del suolo. Il governo romano si adoperò con ogni mezzo, affinché il paese fosse aperto. Protetta dai campi legionari di Burnum e di Delminium, campi che anche qui devono essere stati le leve dell’incivilimento e della latinizzazione, l’agricoltura si sviluppò alla maniera italica nella vallata della Kerca e della Cettina e insieme con esse si videro fiorire anche la coltivazione della vite e dell’olivo, e in genere gli ordinamenti e i costumi romani. Invece di là della linea di divisione delle acque fra il mare Adriatico e il Danubio, le vallate della Kulpa e del Drin, sì poco adatte all’agricoltura, rimasero al tempo dei Romani in quella stessa condizione primitiva, che si osserva oggi nella Bosnia.” (Le province romane, cap. VI, Ed. Sansoni 1991, pagg. 220-221).
Gli studi e le acquisizioni documentali e archeologiche che sono seguite nel Novecento non hanno modificato nella sostanza l’acutezza dell’intuizione di Mommsen. Da queste dinamiche deriva una costante nella storia della costa dalmata. E’ la presenza di piccole città prospere e aperte agli influssi esterni, pronte ad entrare in contatto con il resto del Mediterraneo e a recepire gli apporti di culture e valori estetici e civili che riconoscono come superiori, o comunque utili al loro sviluppo. E la perenne antitesi con un retroterra aspro e severo, impermeabile alle influenze esterne e geloso nel conservare i legami tribali. Questi centri di civiltà si arroccano sui promontori e sulle isole, trovando nella navigazione e nei commerci le loro risorse primarie, ma cercando nel contempo di estendersi nel retroterra rurale il più possibile, con un processo di acculturazione del territorio per utilizzarne le risorse agricole e pastorali e, più ancora, per assicurarsi uno spazio vitale di sicurezza contro le minacce delle popolazioni confinanti.
Ernst Jünger, che ha viaggiato a lungo in Dalmazia, ha ambientato il suo romanzo «Le bianche scogliere di marmo» proprio sulla costa dalmata. Il fascino della narrazione sta nel contrasto netto tra una civiltà marinara e solare, fondata sulle arti e sul culto della legge, e una cultura barbarica fatta di rigidi codici tribali e di superstizioni immutabili e sacralizzate.
Non è detto che la cultura barbarica – come pensò per primo Giambattista Vico – sia sempre negativa. Tra le due culture si può anche stabilire una simbiosi feconda, perchè a volte è la cultura dell’entroterra ad essere autoctona, come quella illirica nel caso delle colonie greche e latine; altre volte è la cultura delle città costiere ad essere la più antica e radicata sul territorio, che più o meno gradualmente si popola di genti nuove, come è avvenuto nell’alto Medioevo. Ed è questa simbiosi continua ad impedire la decadenza della cultura più antica, che si rinnova e riacquista vigore con gli apporti dell’entroterra e di oltremare.
Questa situazione si è ripetuta con corsi e ricorsi in più epoche della storia, dalle prime città liburniche alle colonie greche della costa orientale adriatica (Traù, Curzola, Epidauro), alle colonie latine ed italiche dell’età repubblicana romana, ai municipi bizantini dell’Alto Medioevo fino al liberi Comuni del Duecento e del Trecento, passati dal dalmatico al veneto nel Rinascimento e nell’età moderna, come si vedrà più oltre.
Diocleziano lasciò un’impronta profonda nella storia della Dalmazia, così come il suo principato fu decisivo per la storia di Roma e dell’Occidente. Egli prese coscienza, con grande realismo, della difficoltà di controllare e governare da un solo centro strategico e politico un impero che andava dalle Colonne d’Ercole al Caucaso, dai deserti egiziani alle isole britanniche. Prese anche atto delle differenze economiche e culturali che dividevano la parte occidentale, meno ricca e popolata, ma più omogenea linguisticamente per la diffusione del latino dall’Illirico alla Mauritania, e la parte orientale, più ricca, più variegata linguisticamente e religiosamente e profondamente permeata dalla cultura ellenistica.
Si propose infine di superare il problema della successione nell’imperium, che aveva dato luogo alla lunga crisi politica a metà del III secolo. Furono queste esigenze a dettare la grande riforma della tetrarchia. L’impero fu diviso in quattro prefetture e tredici diocesi: l’Oriente, che comprendeva la Tracia, l’Asia Minore, la Siria e la Palestina, l’Egitto e la Cirenaica; la Prefettura per l’Illirico che comprendeva l’Illirico meridionale a sud di Budua, la Mesia, la Grecia e Creta; la Prefettura dell’Illirico Italia ed Africa, che comprendeva la Dalmazia, la Pannonia, il Norico, la Germania meridionale, la Rezia, la penisola italiana con le sue tre isole e la costa nordafricana, dalla Tripolitania alla Mauritania orientale; la Prefettura delle Gallie, con la Gallia fino al Reno, la Britannia , la penisola iberica e la Mauritania occidentale. A capo delle due prefetture principali (Oriente e Italia) erano i due Augusti, con capitale a Nicomedia e a Milano; delle due prefetture minori due Cesari, che sarebbero succeduti automaticamente ai due augusti se questi avessero ceduto la porpora. Riservò a sé oltre alla Prefettura dell’Oriente il titolo di Senior Augustus come segno della sua primazia.
Nella nuova ripartizione il territorio della Dalmazia vera e propria fu quindi limitato a nord di Budua e assegnato alla diocesi dell’Illirico e alla Prefettura d’Italia, mentre la parte più a sud (attuale Albania) prese il nome di Prevalitana e incorporata nella Prefectura per Illyricum, insieme alla Macedonia e alla Grecia.
Il meccanismo successorio non funzionò gran che, ma la divisione in due dell’orbe romano divenne definitiva con i principati di Costantino, che eresse Bisanzio, con il nome di Costantinopoli, a capitale di tutto l’impero (326 d.C.), e di Teodosio I (347-395 d.C.).
Diocleziano tentò così di conciliare l’unità dell’impero con la sua sicurezza militare e la difesa della sua civiltà, della cui sintesi greco-romana le classi dirigenti erano pienamente consapevoli. La polemica storiografica sulla sua responsabilità nella spaccatura tra oriente e occidente mediterraneo si accompagna al riconoscimento della sua lungimiranza nell’aver salvato almeno la metà orientale, impedendo che lo sfacelo militare e politico della Pars Occidentis nel V secolo trascinasse con sé anche la Pars Orientis.
Certamente l’ispirazione fondamentale della riforma dioclezianea era conservatrice: contenere le spinte esterne delle popolazioni barbariche che premevano alle frontiere settentrionali e mantenere forte la coesione civile e religiosa interna, difendendo il culto politeistico degli avi. La diffusione del cristianesimo gli apparve – come ai suoi predecessori – un pericolo, perché divideva la coscienza del cittadino e del soldato romano tra fedeltà alle leggi dello Stato e fedeltà alla parola di Gesù, che non poteva convivere con il sincretismo religioso dell’epoca e il culto alla divinità dell’imperatore. La crudeltà della sua persecuzione derivava da questa convinzione. La nuova religione era penetrata nella stessa corte imperiale, nelle sue coorti di pretoriani, nella sua famiglia.
Il paradosso è che molti dei martiri della sua persecuzione erano suoi conterranei, residenti in Dalmazia, a Roma o in altre città dell’impero. Proprio durante il suo principato un dalmata salì al soglio pontificio, San Gaio (283 – 296 d.C.). A fronteggiarsi nel conflitto che aveva come posta l’avvenire dell’impero e della nuova fede erano due figli della stessa terra, con la stessa tenacia e la stessa convinzione di essere nel giusto. Nello stesso abbigliamento e in molti usi della liturgia dei primi secoli si avverte l’influenza delle comunità dalmate, come nella veste bianca orlata di rosso che i chierici indossano sotto la pianeta: la dalmatica, derivante dai costumi della regione.
In effetti la predicazione evangelica era apparsa in Dalmazia addirittura in epoca apostolica. Fu lo stesso San Paolo a inviare il discepolo Tito, già fondatore dell’ecclesia cretese, a portare il Vangelo sulla costa dalmata. Ne dà notizia lui stesso nella Seconda Lettera a Timoteo (4, 10). Quale sia stato il successo di questa missione non è documentato. Certo nel III secolo le principali città dalmate erano sedi di vescovi, malgrado la condizione di semiclandestinità dell’organizzazione ecclesiastica.
Durante il suo governo Diocleziano attuò un vasto programma di opere pubbliche in tutto l’impero (terme, acquedotti, strade, ponti): a Treviri, Milano, Antiochia, Sirmio, Cartagine, Tessalonica e soprattutto a Roma e nella sua Salona, nei cui pressi eresse anche il suo palazzo-fortezza sulla riva del mare, che rappresenta uno degli esempi più cospicui e maturi dell’architettura e dell’urbanistica romana. E’ tra le sue mura che si rifugeranno i profughi salonitani all’epoca dell’invasione avaro-slava, fondando la città di Spalato. E fu proprio nel suo palazzo che l’imperatore si ritirò nel 305, deponendo volontariamente la porpora in favore di Galerio.