Scritto da Chiara Mattioni, «Il Piccolo», 28/02/13
giovedì 28 febbraio 2013
L’Italia stremata del dopoguerra, il futuro angoscioso della città e della Venezia Giulia, l’amore per l’Istria: un’antologia politica ed etica
A guardare retrospettivamente la vita di un uomo, è sempre possibile individuare uno o più nodi cruciali da cui dipende la piega della sua esistenza. Nel caso di Giani Stuparich, i “nodi” sono due: il sangue e la guerra. “Chi crede che la vita sia soltanto nel domani e trascura la memoria, toglie il nervo al proprio sviluppo”. Questa è la frase con cui lo scrittore apre l’articolo su “La Voce libera” del 13 agosto 1945, ed è precisamente da questo assunto che occorre partire per sentire quanto mai attuale l’intensità dell’impegno politico e civile profuso nell’arco di una vita. Una vita che ha attraversato due guerre e buona parte del tragico, confuso, disorientato Novecento.
Scritti politici e civili di Giani Stuparich nel secondo dopoguerra, a cura di Patrick Karlsen (EUT, pp.139, 13 euro) con prefazione del rettore dell’Università di Trieste Francesco Peroni e postfazione di Fabio Forti, presidente dell’Associazione Volontari della Libertà, è una raccolta di articoli usciti sulle testate di maggiore diffusione a livello cittadino e nazionale tra il 1945 e il 1961, opportunamente scelti per approfondire le conoscenze su un periodo della vita dello scrittore e su una sezione della sua produzione “meno frequentata” rispetto a quella che ha come oggetto l’esperienza della grande guerra. Ne esce contestualmente un documento autentico della situazione particolare di Trieste dopo il secondo conflitto mondiale. Mentre per le altre nazioni si apriva un periodo di rinascita, Trieste ha avuto prima i 45 giorni di occupazione jugoslava, poi l’occupazione anglo americana, infine la beffa del Territorio Libero e la mutilazione dell’Istria. Intuibile l’amarezza di Stuparich dopo un percorso come il suo.
Figlio di Marco, istriano di Lussinpicccolo, socialista, amico personale di Ragosa (compagno di Oberdan), e diverse volte incarcerato a causa di manifestazioni per la libertà, l’adolescente Giani già non può “soffrire gli austriacanti”, e già dagli anni del liceo il suo orientamento civico-politico è netto, a fianco degli irrendentisti e dei socialisti. Perciò, dopo i colpi di pistola sparati a Sarajevo, che sembravano allontanare l’agognata unità europea, la guerra gli era sembrata l’unica soluzione per strappare all’Impero asburgico Trento e Trieste. Insieme al fratello Carlo, parte volontario nel gennaio 1915 come granatiere sul Carso e sul Collio per contribuire al disegno configurativo che rilanciasse Trieste porto europeo ma città italiana. E, come segnala Forti in questo volume, in una lettera del 1922 a Elsa Dallolio, Stuparich scrive: “Dopo la guerra non è più possibile vivere come prima”.
Da lì nasce il pensatore in cui prevalgono l’onestà intellettuale, la severità, la malinconia per gli ideali cancellati che a un certo punto lo porteranno “a un ripensamento, un ripiegamento che lo terrà sospeso” scrive Karlsen. Tutti elementi di una tensione morale che confluiscono in una personalità tormentata e intensa. Nella seconda metà degli anni ’50, ormai prossimo alla fine, tra gli ospiti importanti – e ormai storicizzati – del salotto di Anita Pittoni, “pur essendo virtualmente al centro, stava spesso in silenzio” ricorda Stelio Mattioni, che lì lo conobbe. La testimonianza di Stuparich è tanto preziosa quanto per noi oggi è difficile immedesimarci in quell’anelito di libertà che spinse tanti giovani italiani a prendere le armi fino a immolarsi, e ritrovare le basi della battaglia contro il fascismo condotta da tanti intellettuali.
Nel secondo dopoguerra, quando in un’Italia stremata e al centro di una situazione politica scissa, la carta stampata trovò particolare fervore, gli articoli politici e civili di Stuparich – l’antologia lo mette bene in evidenza – hanno una voce forte e chiara. Nel 1945, solo a Trieste, uscirono ben 42 testate tra riviste, periodici e quotidiani. In questo volume sono selezionati articoli tratti da “La voce libera”, “Illustrazione italiana”, “Il Ponte”, “La stampa”, “Il Giornale di Trieste”, “Epoca”, “Il Tempo”, per citare alcune pubblicazioni. “Per Giani,” scrive ancora Karlsen nell’introduzione, “ricominciare a esprimersi pubblicamente equivalse a riannodare i legami con una parte fondamentale di sé”, cioè “l’impegno civile e la battaglia culturale intesa come strumento di cambiamento della realtà (…). Nel dopoguerra, carico di nuove pesanti delusioni, gli articoli radunati in antologia attestano una battaglia senza posa su un doppio versante: quello nazionale, per una pace che fosse la meno onerosa possibile, territorialmente parlando, e per l’affermazione dell’appartenenza della Venezia Giulia all’Italia”.
La Venezia Giulia, ancora arbitrariamente divisa in una zona A e in una zona B, governata nei modi più contrastanti, palleggiata di qua, soffocata di là, scrive Stuparich nell’articolo “Venezia Giulia, quale giustizia?” nel marzo del 1946. Articoli che fanno balenare qualcosa di essenzialmente vitale, e che, in una lettura organica, diventano saggio e memoria. Importante e insistito il tema culturale. Peroni sottolinea come Stuparich scriva pagine di “impressionante lungimiranza sul ruolo dell’Università a Trieste”, unica istituzione “immune dal rigore dei confini politici, grazie alla naturale propensione del sapere scientifico a circolare senza barriere”. Così come ha dedicato uno splendido capitolo a Trieste nei miei ricordi al Liceo Dante, in cui era stato alunno e insegnante, alla cultura umanistica e ai suoi giovani.
I giovani di una città che aveva in sé la possibilità di una cultura nuova, moderna, che “sarà viva nell’Europa di domani, fusione di civiltà, di sud e di nord, d’occidente e d’oriente”. L’altro tema che emerge con forza è la bruciante mai sopita delusione per la perdita dell’Istria, ancora più acuta in lui che fondeva nel suo sangue le due origini (“il sangue lussignano in me non si smentisce”), che nelle sue pagine propone spesso, fisicamente presente, l’Istria della sua infanzia, fatta di “insenature di mare turchino che penetrano nel verde della campagna”, e che non perdona ai governanti “di aver permesso lo strazio di Zara, di Fiume, il suicidio di Pola e la tragedia di tutte le nostre belle città istriane, italianissime fin nelle pietre”. “Giani Stuparich, oltre a essere triestino, volle sempre essere considerato un istriano” scrive Quarantotti Gambini sul Piccolo dell’8 aprile 1961. La memoria è il fondamento del progresso. Per questo, gli articoli scelti nel volume non sono una lettura anacronistica, tutt’altro.