lunedì 13 luglio 2009
Comparve negli «Annales E.S.C.» del 1971 una breve e acuta rassegna di Braunstein, dedicata a «plusieurs études [qui] apportent une notatale contribution à l’histoire de l’Adriatique et de ses arrière-pays entre le XVI° et le XVII° siècle».(1) Scritta sulla scia di ricerche innovative sui grandi traffici, pubblicate da storici come Anselmi, Aymard e Caracciolo ma anche da studiosi dei territori asburgici come Kaltenstadler, la rassegna parte dalla plurisecolare rivalità commerciale fra Venezia, Ragusa, Ancona e Trieste, e poi privilegia la parabola di Trieste nel 700, rapportando lo sviluppo dei suoi scambi marittimi alla vicenda dei traffici terrestri negli «arrière-pays» germanici e balcanici.
Diversità di angolature e di fonti, anche di scuole storiografiche, felice connubio interpretativo delle ricerche prodotte. È ciò che emerge dalla rassegna di Braunstein, ed è ciò che richiede da sempre lo studio di un territorio affacciato sull’Adriatico settentrionale, storicamente luogo d’incontro e di transito, di confine fra stati e di convivenza fra etnie, ma anche oggetto di contesa e di distorsione storiografica alimentata dai nazionalismi fra ‘800 e ‘900: l’Istria. La penisola fra l’altro non riceve una menzione specifica tra le nove paginette scritte da Braunstein, ma se sarebbe stato forse opportuno accennare pure al suo rapporto con Trieste, l’omissione va semmai addebitata, anziché a Braunstein, alla carenza di ricerche sull’Istria fra ‘600 e ‘700, evidente nel 1971 e poco mutata negli anni successivi.
Questa carenza era insieme effetto e causa d’una valutazione complessivamente negativa, risalente all’800, che tacciava l’Istria della tarda età veneta di marginalità, di scarso peso e dinamismo. Essa tuttavia rientra fra i luoghi comuni d’un più complesso negletto storiografico, che è utile rievocare sommariamente almeno per i decenni del secondo dopoguerra: contesto in cui risultava in più sensi marginale l’attività di ricerca condotta sull’Istria per tutta l’età veneziana dagli storici della Iugoslavia di allora. Per un verso si trattava anche di una omissione da parte altrui: è da sempre debole l’attenzione prestata dagli studiosi di altre culture europee agli studi sul sudest europeo pubblicati nelle lingue slave, e tanti storici della Repubblica di Venezia – compresi gli studiosi del suo stato di terraferma, una volta lanciato questo settore di ricerca negli anni 70 – mostrarono una scarsa propensione ad allargare lo sguardo verso l’Istria e gli altri territori dello stato da mar (l’Istria fu peraltro componente anomala del dominio marittimo, per certi versi quasi assimilabile al Dogado, o da considerarsi appendice delle province di terraferma). Ma cause più importanti di questa marginalità dell’Istria erano la scarsa frequentazione praticata dagli storici iugoslavi stessi delle fonti d’archivio conservate ai Frari, ovviamente fondamentali per conoscere la vicenda di terre così precocemente entrate nell’orbita della Repubblica di Venezia, e anche la loro lontananza complessiva dagli sviluppi storiografici europei del secondo dopoguerra, assai ricchi rispetto agli schematismi di matrice marxista ben evidenti in molta storiografia iugoslava di quell’epoca. (2)
Un contributo importante per colmare finalmente questa carenza delle ricerche, e pure per richiamare efficacemente l’attenzione degli storici non-slavi verso il quadro più generale della storiografia sull’Istria, è dato da una solidissima monografia recente di Egidio Ivetic – scritta in lingua italiana! – che esamina la vicenda economico-sociale della parte veneziana della penisola fra metà ‘600 e fine 700; a questo libro sono in gran parte dedicate le note che seguono. (3) C’è da aggiungere subito che Ivetic ha inoltre pubblicato, quasi di corredo a quella monografia, un’agile sintesi aperta della storia istriana fra ‘500 e 700 fatta di tre capitoli di taglio rispettivamente politico, economico e sociale e di un’ampia bibliografia, ma anche d’una vivace analisi de «I percorsi storiografici» che dà quasi l’impressione d’essere stata stesa in un primo tempo, almeno in parte, come introduzione alla monografia. (4)
C’è una meritoria dimensione puramente personale dello sforzo compiuto da Ivetic, i cui due volumi infatti rinviano ad altre venti sue pubblicazioni uscite a partire dal 1991 (parecchie delle quali riprese nella monografia sul Sei-Settecento), ma egli è anche legato a una significativa parentela culturale. Infatti, a somiglianza di parecchie delle sue pubblicazioni precedenti, il suo volume di sintesi è comparso fra le edizioni del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno: ente avviato nel 1969 dall’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, ora sostenuto dall’Unione Italiana di Fiume e dall’Università Popolare di Trieste, e guidato scientificamente da un comitato di redazione che mescola studiosi di Trieste e di Rovigno (compreso fra questi ultimi lo stesso Ivetic). Nel Centro di Rovigno collaborano infatti italiani d’Istria e d’Italia, voce di quella dimensione italiana del passato e del presente dell’Istria che ebbe vicende tanto travagliate per lunghi decenni del secondo dopoguerra, quindi portati anche dall’orgoglio nella propria identità a promuovere iniziative come la ristampa, nel 1997, di un classico come L’Istria nei suoi due millenni di storia di Bernardo Benussi. Tuttavia il Centro ha anche puntato sull’apertura storiografica, e ha fruito d’un significativo apporto di studiosi sloveni e soprattutto croati, fra cui spicca il croato Miroslav Berto-sa, in più sensi decano delle ricerche sull’Istria in età moderna. Le opere finora edite dal Centro, fra la rivista annuale degli Atti e una decina di collane con diversa focalizzazione tematica, oggi superano le 200 unità, cui s’è aggiunta la redazione di un periodico on-line.
Si può dire in qualche modo complementare al ruolo del Centro di Rovigno, per l’intento dichiarato di superare vecchi steccati storiografici, l’attività del più recente Centro di Ricerche Scientifiche della Repubblica di Slovenia. Questo fu avviato a Capodistria nel 1991 in evidente collegamento con le vicende dello smembramento della Iugoslavia di Tito, che portò anche alla divisione territoriale della penisola istriana fra gli stati sovrani della Croazia e della Slovenia. Tra le pubblicazioni del Centro di Capodistria quelle probabilmente meglio note agli studiosi italiani sono i volumi delle «Acta Histriae». Pubblicati a ritmo annuale dal 1993, generalmente a tema e in relazione a convegni, essi ormai racchiudono anche un buon numero di saggi di studiosi italiani, interpellati – a quel che si vede – principalmente in quanto cultori della storia di Venezia o del suo dominio italiano di età moderna (p. es. Bianco, Del Negro, Gottardi, Infelise, Pezzolo, Povolo, Tucci, Vigato, Viggiano, Zamperetti, Zannini) e/o perché in grado di travasare nel dibattito storiografico sull’Istria approcci e problemi significativi dell’indagine ora in corso sulla vicenda degli antichi stati italiani (p. es. Bellabarba, De Benedictis, Fasano Guarini, Torre).
Sarebbe riduttivo, per non dire altro, assumere come parametro principale di valutazione della monografia dedicata da Ivetic alla storia economico-sociale dell’Istria veneta fra metà ‘600 e fine 700, la misura in cui essa corrisponde alle intenzioni impegnative perseguite dai due Centri di Rovigno e di Capodistria, cioè di «sprovincializzare» la storiografia sull’Istria e di abbattere pregiudiziali e steccati ideologici. Conviene anzitutto dare conto più articolatamente del lavoro presentato da Ive-tic, e semmai riprendere la questione in chiusura. Il suo libro rappresenta la rielaborazione d’una tesi di dottorato, preparata preso l’Università di Venezia nel 1994-97; si articola in sei capitoli, oltre a una breve introduzione, e comprende inoltre diciotto tabelle (sbilanciate verso i dati più generosi disponibili per gli ultimi decenni studiati), un’ampia bibliografia, buoni indici; nel testo sono inserite sette cartine (un po’ faticosa la lettura della prima) per illustrare questioni portanti dell’analisi. Le note di fondo pagina confermano le attese suscitate dalla bibliografia: oltre alla ripresa capillare degli studi precedenti (fra cui numerosi contributi di studiosi legati al Centro di Rovigno), c’è lo sfruttamento sistematico di un’enorme massa di fonti primarie, sia di documenti editi sia – la stragrande maggioranza – di materiale inedito conservato fra gli archivi e le biblioteche di Venezia, Trieste, Capodistria, Parenzo, Pirano e Pisino.
L’Introduzione un po’ anticipa gli esiti della ricerca, avvalorando la tendenza della storiografia recente a smentire un luogo comune acquisito, dell’economia istriana nella tarda età veneta appiattita e asservita come mera fornitrice di olio, vino, legno e pesce a Venezia. A un ‘600 effettivamente precario, soprattutto fino a metà secolo, subentrò una fase di sostenuta vivacità e sviluppo che investì un po’ tutta l’economia costiera e marittima fra Trieste e Dalmazia: dinamismo in cui Trieste ebbe una funzione primaria ma non esclusiva, e comunque esteso all’economia istriana («periferia» o complementare rispetto a questi centri vitali) anche tramite il contrabbando. L’Istria di tarda età veneziana quindi conobbe un significativo aumento demografico, e trasse beneficio pure dall’awenuto assestamento socioeconomico delle campagne. La sua vicenda comunque non è riconducibile a quella di nessuna singola località, considerata la compresenza di situazioni specifiche ben diverse, pur accomunate nel rapporto con Venezia dal complesso intreccio fra «utilità della Dominante» e «convenienze delle stesse comunità dominate».
Il cap. I, «Lo scudo della Dominante», affronta il rapporto politico fra Venezia e l’Istria: rapporto in cui s’erano ridimensionate le preoccupazioni di difesa militare, ma intriso d’una radicatissima fidelitas dei sudditi nonostante il loro sempre più forte legame economico con Trieste. L’Istria veneziana – 2.464 kmq., circa tre quarti della penisola, esclusa la parte asburgica (contea di Pisino ecc., fra costa nordorientale ed entroterra) – si articolava in molte giurisdizioni: 18 podesterie, dotate di consigli in mano a élites locali di varia levatura, preminente fra esse il patriziato capodistriano; 12 feudi che coprivano il 18% della superficie (predominanti i feudatari veneziani); alla base, 145 ville (così nel 1741, ma 165 nel 1766). «Centri minori» secondo il linguaggio storiografico odierno, le sedi di podesteria venivamente dette nelle fonti coeve città, terre o castelli, secondo una gerarchia formale riferita p. es. allo status ecclesiastico (le quattro città erano sedi vescovili), ma ampiamente superata da criteri empirici come la popolazione, il peso economico ecc. Per il mezzo secolo successivo al 1584 Ivetic ricostruisce le fasi di riordino dei poteri fra le 18 podesterie a favore del primato del podestà e capitano di Capodistria, così da fare dell’Istria veneziana una provincia in senso un po’ più che geografico. A ciò si collegò un graduale sforzo di maggiore intervento veneziano per regolamentare le competenze delegate alle élites locali, funzionale anche a una pragmatica, cauta apertura verso il rapporto con altre componenti sociali. Rimasero comunque consistenti l’autonomia delle singole giurisdizioni, e soprattutto lo scarto fra l’enunciato e l’attuazione delle norme più capillari di controllo, o fra l’individuazione e la soluzione dei problemi di governo, anche perché i rettori disponevano di pochissimo personale. Fra compromessi e convivenze, quindi, teoria e pratica di governo si scostavano ampiamente, e nel ‘700 il divario aumentò: ne sono prova i contrabbandi (allora preoccupazione chiave dei rettori di Capodistria, anche se sostituiti dall’annona verso fine secolo) e, più in generale, la portata effettiva ancora robusta dei poteri esercitati dalle élites locali e la propensione di queste – peraltro imitate da parecchi rettori – ad abusare delle cariche affidate.
Cozzarono contro questi ostacoli le periodiche direttive veneziane di stretto controllo delle finanze pubbliche sia statali (poche migliaia di ducati gestite dalle camere di Capodistria e Pinguente), sia comunitarie, riuscendo forse a ridimensionare un po’ gli sprechi e il peculato nel corso del ‘700. Tuttavia il principale ostacolo a un maggior gettito delle finanze statali, da aspettarsi in un secolo di crescita demografica ed economica, e anche a un suo impiego più efficiente, stava probabilmente nello spezzettamento amministrativo inscindibile dalla molteplicità di giurisdizioni. Alla gestione ordinaria statale, manovrata soprattutto da Capodistria, l’Istria creava un perenne deficit, pur senza conteggiare spese straordinarie come i lunghi sforzi per insediare immigrati nel ‘600. Coprivano il deficit fondi inviati da Venezia, la quale comunque inseriva nella contabilità della capitale cespiti che tassavano l’economia istriana. Essa non applicò un’imposizione fondiaria ordinaria a questi territori dall’agricoltura debole, pur servendosi di oneri personali; perciò le entrate camerali provenivano per lo più da dazi su attività produttive e scambi incentrati su Capodistria e, fondandosi anzitutto sull’olio d’oliva, oscillavano in base alle congiunture della produzione e alle periodiche modifiche organizzative dei dazi. Erano magre anche le risorse delle finanze comunitarie, fatta l’eccezione di Pirano, dove concorrevano entrate generate dal sale. Insieme, gestione statale e comunitaria forse mobilitavano al massimo D. 75.000 annui (un ducato scarso pro capite di popolazione) a fine 700.
Il cap. II «Popolazione e biave» parte dal proposito anticipato nell’Introduzione, di superare il luogo comune della bieca soggezione coloniale dell’Istria a Venezia nella tarda età veneta. Essa indubbiamente esportava prodotti «poveri» e subiva un forte condizionamento statale soprattutto per i settori del sale e del legname. Meglio tuttavia, secondo l’a., considerarla «periferia» in rapporto a un «centro» economico che da Venezia si trasferì a Trieste, ma comunque interessata da molteplici e mutevoli relazioni esterne, e anche da cambiamenti interni come l’espansione della coltivazione dovuta al discreto successo della colonizzazione secentesca. Rimase sempre critica, comunque, la necessità di coprire il fabbisogno di granaglie di abitanti distribuiti fra aree assai diverse per densità e anche dinamiche di popolazione, nonché per caratteristiche agrarie. Le tendenze complessive e le scosse congiunturali dei prezzi cerealicoli s’allineano con quanto osservato per Venezia e la terraferma, anche se incidevano fattori locali di precarietà economica come le occasionali morie degli ulivi. Da metà ‘600 la popolazione aumentò dai 40-60.000 dei due secoli precedenti per superare 90.000 nel secondo 700, al limite della sostenibilità del rapporto bocche-risorse e anche delle possibilità più generali di sviluppo economico: pur variando, il deficit di granaglie saliva fino a 10.000 ettolitri (dal costo di D. 350.000 di buona valuta). Nello stesso periodo, di aumento dell’area coltivata a forse 820 kmq. (un terzo della superficie totale), la produzione cerealicola interna infatti copriva soltanto dai 4 ai 7 mesi dei bisogni annuali, anche perché lo sviluppo agricolo interessò in larga parte ulivi e vigne; solo nel secondo 700 si diffuse massicciamente la coltivazione del mais, che comunque ampliò significativamente le risorse cerealicole interne. Nel coprire i bisogni di cibo e anche di semenze fu quindi fondamentale il ruolo dei fontici, che in tutte le città e cittadine acquistavano e cedevano granaglie e farina, e calmieravano i prezzi, pur con specificità legate anzitutto al luogo: più forte la dipendenza da forniture marittime nei centri costieri, p. es. A fine ‘600 essi gestivano capitali di circa D. 100.000, ed erano – assieme ai collegi delle biave – un punto nevralgico della gestione del potere locale; erano periodicamente soggetti a errori e abusi gestionali, e quindi a revisioni di norme che nel 700 rafforzarono il controllo veneziano, pur sullo sfondo d’un crescente traffico alternativo, illecito di granaglie.
Il cap. III, «Le risorse», indica come il deficit annonario, peggiorato dall’incremento demografico soprattutto nel secondo 700, fu coperto dalla redditività di settori di attività economiche diversi fra l’entroterra (il legname, il vino, l’olio) e le località costiere (il sale, la pesca, il pesce salato, le marinerie, la pietra). La forte richiesta veneziana, statale e privata, di legname da costruzione e da ardere generò controlli governativi precoci e precisi sulla gestione delle consistenti risorse forestali, che coprivano forse il 40% della superficie fra ‘500 e ‘600, e circa il 34% a fine 700. Se erano generalmente veneziani a gestire il trasporto dal littorale alla laguna, i sudditi svolgevano le fasi lavorative a monte; gli utili modesti ricavabili li incoraggiarono nelle vendite illecite verso Trieste, e nel secondo 700 le esportazioni complessive valevano forse D. 100-150.000 di buona valuta. L’olivicultura s’era estesa dal tardo ‘500 (10.000 ettolitri la produzione d’olio nel 1635, una media annua di 15-16.000 nel 1748), per effetto della colonizzazione e per coprire bisogni veneziani anche se, pure a causa del forte prelievo fiscale, molto olio andava di contrabbando verso il Friuli e Trieste. La richiesta esterna, a volte motivo di penuria d’olio nell’Istria stessa, mantenne sempre prioritari gli investimenti agricoli negli olivi, mentre i torchi erano gestiti soprattutto dalle élites locali. L’incidenza occasionale di gelate provocò guasti anche duraturi, dalle implicazioni economiche generalizzate, soprattutto nell’ultimo ventennio del 700. La produzione del vino, fenomeno diffuso ma sfuggente nelle fonti sotto il profilo quantitativo (forse superiore ai 135.000 ettolitri nelle buone annate), alimentava correnti commerciali complesse, in parte affini a quelle dell’olio anche nel ruolo del contrabbando; base importante della fiscalità comunitaria, anche in Istria il vino procurava moneta sonante ai coltivatori. L’allevamento, sfuggente nelle fonti e soggetto ai danni periodici delle epizoozie, era comunque significativo: circa 23.000 i bovini e 135-150.000 gli ovini nel secondo 700.
Quanto al sale fino prodotto nel littorale nordoccidentale, erano diversi i meccanismi d’intervento dello stato: a Pirano esso normava l’entità della produzione e ne incamerava la maggior parte a prezzo basso, lasciando il resto ai produttori; tassava ma vincolava meno la produzione di Capodistria e Muggia che, assieme all’olio e al vino, si scambiava con le granaglie, il ferro ecc. importate dalla Carniola asburgica. Dal primo ‘600 tutta la produzione calò a causa della minore domanda, dovuta alla flessione demografica ma poi anche alla concorrenza di sali pugliesi ecc. nei mercati asburgici. Il sale di Capodistria e Muggia comunque rimase merce di scambio con l’entroterra asburgico, e alimentò il mercato istriano, oltre ai contrabbandi verso Trieste e il Friuli. La produzione di Pirano, ancora predominante negli acquisti di Venezia nel ‘600, diminuì nella prima metà del 700 anzitutto perché peggiorarono le condizioni di pagamento da parte dello stato, ma poi si riprese grazie a nuovi indirizzi della politica veneziana. Le cave di pietra continuarono nel 70Ó a fornire blocchi, sassi e scaglie a cantieri veneziani, istriani, friulani e triestini, generando utili anzitutto ai paroni dei navigli. Quanto ai mestieri del mare, da sempre diffusi, a fine ‘600 la pesca, da elemento secondario rispetto a una modesta attività portuale e armatoriale dei centri orientali, prese rapidamente il sopravvento. Nuove tecniche di pesca delle sardine e acciughe si abbinarono alla disponibilità di sale e al grande sviluppo d’un mercato italiano del pesce salato, a vantaggio soprattutto di numerosi piccoli operatori di Rovigno; questa nuova intraprendenza degli istriani in mare comprendeva anche la fornitura di prodotti dalmati e istriani a Trieste e all’Italia centrale, in buona parte a regime di contrabbando.
Il cap. IV «La vitalità ritrovata» esamina ulteriori risvolti del quadro tracciato nei capp. II-III, in particolare l’espansione economica evidente a partire dal terzo decennio del ‘700, quando lo sviluppo demografico e produttivo s’intrecciò con un diffuso tenore migliore di vita: ciò a dispetto del pessimismo in chiave economica perennemente espresso dai rettori veneziani, semmai giustificato per il tardo 700, epoca di crisi annonaria e dell’olivicoltura. A metà 700 il valore dei prodotti importati -non solo granaglie ma tessuti e abbigliamento, ferramenta ecc., di varie provenienze fra l’Italia meridionale e la Dalmazia – era forse di circa D. 270-350.000, contro forse D. 380-480.000 delle esportazioni, compresi i contrabbandi (d’un valore massimo di forse D. 150.000) e comunque corrispondenti a un’elevata percentuale di tutto il prodotto interno istriano. Il contrabbando, diffuso in tutti i territori veneziani nel 700, lo era più che mai nell’Istria, facendone quasi una zona franca commerciale. Meno consistente nelle importazioni (fatta l’eccezione del tabacco e di una parte delle granaglie e del sale) e nei traffici interni, era rilevantissimo nella produzione ed esportazione delle merci soggette a forte aggravio fiscale: il sale, l’olio, il pesce salato, destinati a mercati in un raggio fra Trieste e l’Italia meridionale. Un po’ tutti i ceti lo praticavano e lo ritenenevano alla stregua d’un diritto, la cui difesa talvolta violenta tuttavia non scalfiva il consenso generale verso la sovranità veneziana. La vivacità economica era sostenuta da varie forme di credito, comprese le alterne disponibilità dei monti di pietà e i livelli francabili, ma spicca su tutto il ruolo delle diffusissime confraternite pie. Più di 700 nel 1741, ovviamente connotate da finalità devote e sociali, esse erano anche solidamente dotate di beni immobili e rendite, e grandi erogatrici di credito a livello; attirarono notevoli sforzi veneziani di regolamentazione e verifica contabile, dalla dubbia efficacia pratica. Per quanto riguarda le componenti di novità in questo quadro di vivacità economica, esse furono frutto più delle circostanze che della progettualità meditata. P. es. verso fine 700 le accademie discussero dell’olivicoltura, ma le gelate spinsero a riconvertire uliveti in vigneti. Le speranze veneziane di promuovere la produzione manifatturiera, per evitare che crescenti consumi sbilanciassero il saldo commerciale, cozzarono contro carenze di capitali, di attitudine imprenditoriale e di tradizione produttiva; durò poco l’esperimento di Gian Rinaldo Carli nel lanificio, e nonostante qualche altra modesta iniziativa, sullo sfondo agiva il condizionamento generale esercitato dallo sviluppo di Trieste. A questo condizionamento era inoltre dovuto il predominio della moneta asburgica come circolante in uso nell’Istria veneziana, mentre difettava quella veneziana.
Il cap. V offre una densa analisi socioeconomica de «Il contesto rurale»: ne evidenzia le diversità, e anche il processo di assestamento di un variegato quadro etnico che sarebbe poi durato fino a metà ‘900. Dell’agricoltura, i suoi principali settori già accennati sopra, si sottolinea soprattutto la varietà di suoli e di paesaggi agrari – di primaria importanza produttiva l’area occidentale e meridionale – ma anche una relativa «modernità» di quella stessa area, evidente nello sviluppo della proprietà cittadina, nell’evoluzione della conduzione, nella reazione a mutazioni della domanda (il passaggio di molto terreno dallo sfruttamento boschivo-pastorale alla coltivazione arbustiva e cerealicola, e poi dagli ulivi alle vigne). Era invece meno evoluto lo sfruttamento delle zone interne, oggettivamente più sterili, com’era più chiuso il profilo sociale dei centri più importanti dell’entroterra come Dignano, articolato fra una piccola élite terriera, molti contadini (elevata un po’ ovunque la percentuale di contadini dimoranti nei borghi), e pochi artigiani, in buona parte immigrati stagionali friulani. Più sfuggente, e in attesa di ulteriori ricerche, il profilo sociale delle ville, comunque dotate di significative responsabilità di «basso governo», connotate in termini sociali da un ruolo importante delle parrocchie ma anche delle confraternite. Evidenti all’epoca, e molto indagate dai posteri per motivi spesso contingenti, erano le diversità etniche all’interno della società istriana, più articolate culturalmente e più sfumate in termini territoriali d’una mera distinzione fra ambienti cittadini dalla parlata istro-veneta, e campagne di lingua croata o slovena. Ivetic ricorda p. es. il bilinguismo di borghi dell’entroterra, la presenza di aree rurali istrovenete (attorno a Pola), e per la componente slava sottolinea diversità di provenienza, e di epoca e luogo di insediamento. Coglie nel 700 qualche segno di mescolamento fra culture e soprattutto una buona convivenza acquisita, tra l’altro facilitata dalla comunanza di fede, dalla bassa densità di popolazione ma anche dallo sviluppo dell’interdipendenza economica. Indica una chiave situazionale piuttosto che etnica degli eventuali attriti fra borghi e società rurale (comunque diverse le singole situazioni), e addita motivi concreti – dispute su risorse come pascoli e boschi – all’origine dei conflitti attestati. A quest’analisi fa da coda un esame del manifestarsi della violenza, evidente a metà ‘600 anche sotto forma d’un banditismo diffuso ma poi in calo, per effetto di rapporti più tranquilli con i territori confinanti e dell’assestamento interno dopo le colonizzazioni. Gli ultimi dei nuovi insediamenti continuarono a segnalarsi per livelli maggiori di criminalità, tuttavia non leggibili in chiave di tensioni etniche. Contro il diffusissimo contrabbando, occasione di scontri armati relativi al tabacco ma nell’insieme poco pecepito come danno alla società, s’istruirono pochi processi.
Il cap. VI, «Le città», analizza i dieci centri costieri: società che andavano da élites piccole ma articolate al loro interno (segno di maggior prestigio i diritti signorili, p. es.), comunque definite nel complesso dall’a. come notabili, ai pescatori e marinai, contadini, artigiani, commercianti, salinari, servitori, ma anche agli ecclesiastici (di buona famiglia nel caso di benefici appetibili). Fra secondo ‘600 e fine 700 la staticità demografica e lo scarso ricambio dell’elite connotarono Capodistria, Muggia, Pirano, Isola e Albona, a differenza del dinamismo di Rovigno (che balzò da 6.000 a 12.000 abitanti, a confronto con i 4-5.000 di Capodistria) e dei centri molto più modesti di Umago, Cittanova, Pola e Pa-renzo. Soprattutto a Rovigno, ma anche a Pirano, «popolani» arricchiti, dal profilo economico affine alle vecchie famiglie ma esclusi dal consiglio, cercavano prestigio sociale. Il popolo in senso lato, pur praticando una molteplicità di mestieri, risultava fortemente identificato col mare ma anche molto legato al possesso o al lavoro della terra, sebbene le situazioni dei singoli centri fossero molto differenziate: al poco territorio soggetto a Rovigno corrispondeva una spinta ancora più forte verso l’impiego in mare, mentre lo sfruttamento delle saline costituiva la peculiarità di Pirano (caso eccezionale di forte condizionamento delle attività economiche dalle scelte veneziane). Proprio in questi due centri esisteva un’università del popolo, istituzione che si confrontava con l’elite consiliare, mentre altrove erano le confraternite – già ricordate per il loro profilo devoto e per la loro attività di credito – a svolgere una simile funzione di rappresentanza, seppur meno esplicita. La dialettica fra la vecchia élite e soprattutto i popolani di spicco continuò viva per tutto il 700, anzi semmai accentuandosi negli ultimi decenni di difficoltà annonarie appunto perché incentrata in buona parte sulla questione del controllo di enti come i fontici – e poi entrarono in gioco anche gli echi della Rivoluzione francese.
Queste indicazioni sulla monografia di Ivetic dovrebbero bastare per dimostrare la profondità delle ricerche compiute e la complessità dell’analisi svolta. Forse non è solo questione di gusti se si osserva che in alcuni tratti il filo rosso dell’argomentazione si poteva evidenziare di più, e che per qualche sezione (p. es. nel cap. V) era ipotizzabile un’organizzazione più efficace dell’analisi. Ma insistere su questo tono sarebbe ingeneroso, come è superfluo e forse offensivo riproporre il quesito di se questa monografia supera i vecchi limiti di impostazione, ricerca ed esecuzione cui s’è già fatto cenno, richiamando il quadro precedente degli studi sull’Istria. Insomma, pubblicando una monografia assai valida, per giunta in lingua italiana, Ivetic ha fatto egregiamente la sua parte nell’applicare all’Istria quesiti e metodi aggiornati di indagine storica, e i suoi sforzi, assieme ad altri già ricordati sopra, certamente contribuiscono di peso a «sprovincializzare» la storiografia sull’Istria e ad abbattere pregiudiziali e steccati ideologici.
Conviene piuttosto tornare sull’altro versante di quelle osservazioni iniziali dedicate al rapporto fra storia dell’Istria, pratiche di ricerca e storici italiani, formulando una domanda: la storiografia veneziana, e gli storici italiani in genere, ora mostrano un interesse opportuno verso le vicende dell’Istria e anche di tutto lo stato da mar veneziano, e soprattutto verso la ricerca oggi svolta su quell’esperienza di dominio da storici dei paesi «eredi» dei territori veneziani? Dare una risposta che si rispetti a questo interrogativo è impensabile in queste poche righe, ma qualche elemento si può offrire. Lo stesso Ivetic indica per lo meno un miglioramento in corso per l’Istria, (5) ma nel complesso gli italiani che s’interessano allo stato da mar più in generale sono tuttora pochi, anche se il filone tematico del mare – trasversale rispetto alle componenti territoriali dello stato veneziano – costituisce un’eccezione parziale, come evidenzia il volume dedicato al mare dalla Storia di Venezia dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (opera peraltro complessivamente parca di attenzione al dominio sia marittimo sia terrestre). (6) Le specificità disciplinari inducono più apertura in alcuni settori della ricerca: ciò vale per gli storici economici (si pensi all’attenzione dedicata da Costantini alle Ionie), (7) e anche per gli storici della cultura. Sebbene la monumentale e meritoria Storia della cultura veneta non guardi molto allo stato da mar, sono più aperti gli orizzonti – per fare un esempio vistoso – nell’ultimo volume del Settecento riformatore, che Venturi dedicò allo stato veneziano nei suoi ultimi decenni di vita. (8)
Ma l’esempio di Venturi mette in evidenza un altro fattore, quello generazionale: storici della leva di Berengo, Cozzi, Tenenti, Tucci e Venturi furono più portati ad allargare lo sguardo verso il dominio marittimo di Venezia, e non solo perché – per dirlo colloquialmente – «cavalli di razza». Oggigiorno prevale maggiormente la specializzazione degli interessi di ricerca, e scarseggiano giovani ricercatori italiani interessati allo stato da mar: p. es. fra gli autori degli atti d’un convegno recente su Venezia e Creta c’è poca gioventù. (9) Si possono ovviamente citare eccezioni: la pensione è ancora lontanuccia per Fusaro e Viggiano, che hanno incentrato monografie sulle Ionie, ed è del 2002 un libro di Filippo Maria Paladini sulla Dalmazia del tardo 700 (che un po’riprende e sviluppa una traccia data da Berengo in un saggio del 1954). (10)
Gli studiosi nominati non esauriscono certamente la casistica, ma pare comunque lecito affermare che siamo ancora in una fase preliminare, di sollecitazioni più che di fatti concreti nel rinnovare e reimpostare l’attenzione degli storici italiani a tutto questo versante della storia veneziana. Fra l’altro lo stesso Ivetic, negli atti d’un convegno recente, ricorda ai lettori italiani i diversi percorsi della storiografia serba e croata, e di quella italiana e veneziana, negli studi sulla Dalmazia. (11) Un altro volume recente a più mani, sempre in lingua italiana, spiega i percorsi della storiografia greca nella ricerca sul periodo di dominazione veneziana e invita a sviluppare una migliore conoscenza reciproca, e ad acquisire una comunanza di linguaggi e concetti. (12)
Chi firma questi appunti sa d’aver peccato, anni orsono, nello stendere pagine di sintesi della storia veneziana senza saper leggere le lingue slave o il greco, ma offriva allora come attenuante parziale la ferma convinzione che la storiografia veneziana, dal momento in cui riconosceva legittimità alla terraferma come parte integrante della vicenda della Repubblica, dovesse per coerenza fare altrettanto nei confronti dello stato da mar. (13) Non è mutata quella convinzione, che era ovviamente (e per fortuna) condivisa da altri, e monografie come quella di Ivetic ne confermano la fondatezza, fornendo tra l’altro le basi per valutazioni comparative d’uno spessore ben diverso rispetto al passato. In queste note s’è volutamente lasciata da parte un’eventuale riflessione comparativa, con riferimento alle vicende di Venezia stessa e del dominio di terraferma nel secolo e mezzo esaminato per l’Istria da Ivetic: ciò anche perché egli stesso ha preferito presentare una grande mole di ricerche specifiche, non ignorando il contesto più generale ma neanche approfondendo il confronto. Giusto per indicare un tema possibile fra tanti, la monografia di Ivetic suggerisce p. es. di esaminare nel contesto più ampio possibile – quindi sotto l’aspetto sociopolitico, oltre che economico – il fenomeno del contrabbando nello stato veneziano del 700: tema certamente non nuovo né per la Repubblica di Venezia né per altre realtà, già affrontato con buone intuizioni da Berengo mezzo secolo fa, e p. es. oggetto d’una monografia di Bianco su villaggi friulani, ma presente in filigrana in molti altri studi, compresa la densa ricerca di Panciera sui lanifici della Repubblica nel ‘600-700. (14)
1 – P. Braunstein, A propos de l’Adriatique entre le XVI ? et le XVIII ? siècle, «Annales E.S.C.», 26, 1971.
2 – Per questi cenni storiografici sommari, e altri che seguiranno, si rinvia alla discussione offerta dall’opera di Ivetic citata qui sotto alla nota 4, fra testo e rimandi del cap. IV.
3 – E. Ivetic, Oltremare. L’Istria nell’ultimo dominio veneto, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2000, pp. vin-470.
4 – E. Ivetic, L’Istria moderna. Un’introduzione ai secoli XVI-XV1II, Trieste-Rovigno, Centro Ricerche Storiche – rovigno (Collana degli Atti, n°17), 1999, pp.220.
5 – E. Ivetic, L’Istria moderna, pp. 156-58, fa nomi come quelli di Salimbeni e Zalin, cui si può forse aggiungere Hocquet.
6 – Storia di Venezia, XII. Il mare, a cura di A. Tenenti e U. Tucci, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991; nel voi. V della stessa opera (… Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di A. Tenenti e U. Tucci, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996), il capitolo sulle Colonie d’oltremare fu affidato all’israeliano B. Arbel.
7 – M. Costantini, A. Nikiforou (a cura di), Levante veneziano. Aspetti di storia delle Isole Ionie al tempo della Serenissima, Roma, Bulzoni, 1996); M. Costantini (a cura di), Il Mediterraneo centro-orientale tra vecchie e nuove egemonie, Roma, Bulzoni, 1998. Nei volumi trovano comunque spazio temi diversi da quelli economici, di cui trattano studiosi come Concina, Dal Borgo, Zannini, Zucconi, oltre a Fusaro e Viggiano.
8 – G. Arnaldi, M. Pastore Stocchi (a cura di), Storia della cultura veneta, 6 vol., Vicenza, Neri Pozza, 1976-86; F. Venturi, Settecento riformatore, V: L’Italia dei lumi. Tomo secondo: la Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino, Einaudi, 1990, partic. p. 347 sgg.
9 – G. Ortalli (a cura di) Venezia e Creta, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1998.
10 – M. Fusaro, Uva passa. Una guerra commerciale tra Venezia e l’Inghilterra (1540-1640), Venezia, Il Cardo, 1996; A. Viggiano, Lo specchio della Repubblica. Venezia e il governo delle Isole Ionie nel ‘700, Verona, Cierre, 1998; M. Berengo, Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta alla fine del ‘700, «Rivista storica italiana», LXVI/4, 1954; F. M. Paladini, «Un caos che spaventa». Poteri, territori e religioni di frontiera nella Dalmazia della tarda età veneta, Venezia, Marsilio, 2002.
11 – Storiografie nazionali e intrpretazioni della Dalmazia medievale, in N. Fiorentin (a cura di), Venezia e la Dalmazia anno Mille. Secoli di vicende comuni, Venezia-Treviso,
12 – Si vedano i saggi storiografici e metodologici degli studiosi greci in C. A. Maltezou, G. Ortalli (a cura di) Italia-Grecia: temi e storiografie a confronto, Venezia, Istituto Ellenico di Studi Bizantini e Postbizantini, 2001.
13 – Si vedano i contributi pubblicati in G. Cozzi, M. Knapton, G. Scarabello, La Repubblica di Venezia nell’età moderna, 2 voli., Torino, UTET, 1986-92 (Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, voi. XII).
14 – M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze, Sansoni, 1956, p. 121 sgg.; F. Bianco, Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del Settecento, Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 19952; W. Panciera, L’arte matrice. I lanifici della Repubblica di Venezia nei secoli XVII e XVIII, Treviso, Canova, 1996; si veda anche E. Rossini, G. Zalin, Uomini, grani e contrabbandi sul garda tra Quattrocento e Seicento, Verona, Università di Verona, 1985
Fonte: «Archivio Storico Italiano», 2004, I.