Matvejevic, vent’anni per raccontare il pane

Scritto da Alessandro Mezzena Lona

Ci sono voluti vent’anni per scriverlo. Per dargli una forma. Ma, in realtà, Predrag Matvejevic ha cominciato a ideare un libro sul pane quand’era ragazzino. Quando suo padre, sopravvissuto all’orrore dei gulag sovietici, lo aveva convinto a condividere la pagnotta che ogni famiglia riceveva due volte alla settimana con i prigionieri tedeschi. Con gli odiati ex occupanti delle terre balcaniche. Nemici che non era giusto, però, lasciar morire di fame. Più volte ha iniziato a scriverlo quel libro sul pane. «Ma mi interrompevo sempre. Prendevo il manoscritto e lo abbandonavo», racconta adesso lo scrittore nato a Mostar. E a tormentarlo c’era un altro ricordo legato al cibo più umile che l’uomo abbia creato. Quello dello zio Vladimir, che negli anni Quaranta morì in un campo di concentramento stalinista, dalle parti di Saratov, invocando un pezzo di pane. E anche se Predrag Matvejevic a più riprese ha regalato ai lettori del «Piccolo» frammenti della sua storia del pane, più d’uno si era convinto che quel testo non sarebbe mai approdato nelle librerie. Adesso, invece, Pane nostro è pronto. Lo ha tradotto, con la sensibilità e la bravura che lo contraddistingue, Silvio Ferrari. Lo pubblica la casa editrice Garzanti (pagg. 233, euro 18,60), che ha già in catalogo alcune tra le opere più importanti dello scrittore che vive a Zagabria: lo strepitoso Breviario Mediterraneo e L’altra Venezia, che ha vinto il Premio Strega Europa nel 2003; Epistolario dell’altra Europa e Mondo ex e tempo del dopo. Nella sua prefazione, padre Enzo Bianchi mette subito in guardia il lettore. «L’esperienza che Matvejevic ha del pane non è solo quella del bambino che fa piangere di commozione il prigioniero, non è nemmeno limitata allo studioso che ripercorre tutti i testi più autorevoli sulla storia del pane». Questo viaggio attraverso i secoli, questo ponte che unisce culture e religioni, tradizioni popolari e leggende lontanissime tra loro, è condito dalla particolare sensibilità di un uomo, di uno scrittore che ha assaggiato «l’amaro pane dell’esilio (come lo chiama Bolingbroke del Riccardo II shakespeariano), dall’aver patito sulla propria pelle e nel proprio cuore la profezia annunciata a Dante nel Paradiso: “Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ’l salir per l’altrui scale”».

Il pane è la manna della terra. È venuto prima della scrittura, ha anticipato le sofisticate ricette, l’invenzione della gstronomia. Ha scandito l’intera storia dell’umanità. E ancora oggi, che il mondo globalizzato crede di avere messo tra sé e le miserie del passato una voragine di spazio, ai quattro angoli del pianeta Terra c’è chi piange di fame invocando un pezzo di pane. Il pane ci parla di civiltà antichissime. Della Mesopotamia e dell’Egitto, della Grecia e dell’antica Roma. Ha accompagnato il divenire dell’uomo. Ha ispirato scrittori e pittori, musicisti e filosofi. E non è a caso che Matvejevic ha voluto inserire nel libro un’ampia parte iconografica in cui si possono ammirare statuette egizie di donne che sbriciolano il grano e impastano il pane, ma anche capolavori dell’arte come “La lattaia” di Jan Vermeer, “Lo stregone” di René Magritte, il “Pane blu” di Man Ray. E poi, forme di pane rimaste per sempre pietrificate dalla lava di Pompei, affreschi delle catacombe di Roma, miniature dell’Haggadà, il prezioso libro realizzato nel XVI secolo in Spagna, che i sefarditi espulsi dal Paese trasferirono a Sarajevo, dov’è custodito tuttora. E c’è la letteratura, che a volte ha messo il pane al centro delle proprie trame. Basterebbe ricordare, come fa Matvejevic, la rivolta degli affamati che Alessandro Manzoni descrive con minuziosa precisione nei suoi Promessi sposi. Ma anche il senso laico di sacralità del pane che Vladimir Majakovskij, alla viglia del suicidio, infondeva nei versi dedicati alla sua donna: «Corpo che prego come i cristiani pregano il nostro pane quotidiano».

Negli Anni del noviziato di Wilhelm Meister, Johann Wolfgang Goethe si è spinto ad affermare: «Chi non ha mangiato pane fra le lacrime, non conosce la potenza del cielo». Proprio tra cielo e terra, da secoli ormai, il pane ha svolto una difficile mediazione. Nel Contributo di affetto e di amicizia per Matvejevic e il suo libro panettiere, posto a conclusione di questo Pane nostro, lo scrittore Erri De Luca ricorda che «il pane conosce il valore aggiunto di popoli che lo hanno impastato per offrirlo alle divinità, con gesto di restituzione: con lievito o senza, con sale o senza, con il sangue o senza». Nell’eucarestia, il cristianesimo ha sempre visto il momento in cui il corpo di Cristo si incarna nel pane che viene spezzato sull’altare. «Cristo è manna che fa il viaggio opposto – ricorda ancora De Luca -. Da qui il profumo sacro che accompagna, almeno accompagnava, il pane sulle mense». In questo lungo viaggio alla ricerca del pane, lo scrittore di Mostar racconta storie della Storia, popoli e antiche saggezze, guerre, tradimenti e illuminazioni sacre. Legge il divenire dell’umanità come in uno specchio. Diceva Claude Lévi Strauss, l’antropologo che ha scritto quel fulminante libro che è Tristi Tropici: «Il mondo è cominciato senza l’uomo, e può finire senza di lui». Matvejevic si spinge più in là. Mettendo in guardia tutti noi: «L’umanità è nata senza pane e può scomparire perché non ne avrà più».

Fonte: «Il Piccolo», 29/08/10.