Scritto da Massimo Longo Adorno
M. Cattaruzza, Last stop expulsion – The Minority question and forced migration in East-Central Europe: 1918-49, in «Nations and Nationalism», 1, 2010, pp 108-126.
Le vicende delle minoranze etniche nell’Europa orientale tra le due Guerre mondiali hanno subito un destino singolare. Negli anni che vanno dal 1918 al 1949, esse furono uno dei temi principali con cui la politica estera, Europea e non solo fu chiamata a confrontarsi. Paradossalmente però negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, lo studio di queste tematiche ha subito una sorta di “era glaciale storiografica”, per ritornare poi potentemente alla ribalta nel decennio successivo alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e della federazione Jugoslava. L’ultimo saggio di Marina Cattaruzza, apparso sul primo numero del 2010 della rivista “Nations and Nationalism”, tenta assai efficacemente di fare il punto della situazione in merito alle linee tendenziali del dibattito storiografico sulle vicende delle minoranze etniche nell’Europa centro orientale da Versailles- Sant-Germain (1919) a Yalta-Potsdam (1945) e oltre.
La Cattaruzza mette bene in evidenza come il processo di nazionalizzazione intensiva delle minoranze etnico- linguistiche est europee abbia visto la luce negli ultimi decenni di vita dell’impero asburgico (e anche di quello zarista), per riferirci ai due più importanti organismi plurinazionali europei, in un periodo di tempo collocabile tra gli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo e il primo decennio del ventesimo.
L’autrice, indagatrice attenta dei processi conflittuali dell’Europa orientale, sulla scorta di un ampia pluralità di interpretazioni storiografiche riesce con facilità e chiarezza espositiva a fornire non solo una panoramica delle varie tendenze interpretative sull’ argomento, ma enuclea chiaramente una linea interpretativa dei fatti, originale e convincente nella sua articolazione dialettica. Secondo la Cattaruzza, la genesi operativa del principio di “omogeneità nazionale su base etnica” va rinvenuta nella conferenza di Losanna del 1923, che poneva termine alla Guerra Turco –Greca, scoppiata negli anni immediatamente successivi al termine del primo conflitto mondiale. In quella sede, infatti, venne deciso che la popolazione mussulmana avrebbe dovuto abbandonare la Grecia, trasferendosi in Turchia, mentre l’opposto sarebbe avvenuto con la popolazione greca.
La storica triestina, argomenta come ”questo primo esempio di trasferimento compulsivo di popolazioni, evidenzi caratteristiche che si dimostreranno ricorrenti nelle espulsioni successive”. D’altro canto, le moderne teorie sul “Nation Building” sono state applicate assai raramente agli stati nazionali sorti Europa centro orientale e sud orientale, al termine della prima guerra mondiale. E’ indubitabile che con l’eccezione dell’Estonia, tutte le nuove “nazioni stato” emerse dalla tempesta diplomatica del Trattato di Versailles (Polonia, Cecoslovacchia, Yugoslavia, Lettonia, Lituania) abbiano posto in essere da subito un aggressiva politica di nazionalizzazione su base etnico-linguistica nei confronti delle minoranze dimoranti sul loro territorio, in primis quella tedesca, che si sarebbe rivelata elemento di decisiva importanza per l’innesco di quel processo di tensioni destinato a sfociare inevitabilmente, nel tragico calderone della Seconda Guerra Mondiale.
Tale situazione non sfuggiva all’attenzione della diplomazia più avveduta. La Cattaruzza cita il caso dello storico britannico Carlile A.MacCartney, segretario del comitato per le minoranze etniche della società delle nazioni, che già nel 1934 giungeva alla conclusione secondo cui la stabilità di uno stato nazionale era chiaramente incompatibile con le aspirazione di “Self Determination” di una minoranza etnica consapevole dei propri diritti.
L’ascesa al potere del Nazismo in Germania (parallelamente con il consolidamento del regime staliniano in Unione Sovietica), infuse a tale situazione un carattere di gravità e urgenza senza precedenti. Difatti, dopo il 30 gennaio 1933, la politica di revisione territoriale delle conseguenze del trattato di Versailles, perseguita da tutti i governi succedutisi a Berlino dal 1919 in poi, subì un brusco processo di radicalizzazione, che incontrò un successo senza precedenti, presso le giovani generazioni di lingua tedesca dimoranti in Cecoslovacchia, Polonia e Romania (ma ciò è altresì vero anche per l’Alto Adige Italiano), con un atteggiamento di benevole indulgenza anche da parte di un paese tradizionalmente garante degli equilibri post-bellici, quale la Gran Bretagna.
Tale processo ebbe il suo culmine nel periodo intercorso tra Il settembre 1938 (accordo di Monaco) e l’agosto 1939 (firma del patto Ribbentrop-Molotov) quando sotto l’egida protettiva della Germania nazista, verrà a formarsi un alleanza di stati “revisionisti” su base territoriale dell’Area Danubiano-Balcanica. Tale situazione, tuttavia, continuò a svolgere un ruolo importante, anche durante il “matrimonio di interesse” intercorso tra Berlino e Mosca dal settembre 1939 al giugno 1941. La Cattaruzza a tal proposito cita una dichiarazione di Adolf Hitler del 6 ottobre 1939 con cui il dittatore nazista affermava che “è essenziale per un lungimirante ripristino di ordine nella vita Europea, che debba porsi in atto un riassestamento su base demografica-territoriale che sia in grado di rimuovere materialmente alcune delle cause principali di un nuovo conflitto in Europa. La Germania e l’Unione sovietica hanno raggiunto un accordo per sostenersi a vicenda in tal proposito”
All’indomani del Secondo conflitto Mondiale, in un contesto geopolitico, drammaticamente segnato dalla violenza omicida del regime nazista, la questione delle minoranze etniche ritornò di attualità prepotente sia pur in una luce macrodiplomatica totalmente nuova.
Non fu tanto il ricordo della violenza nazista a muovere nei confronti dell’espulsione di massa, l’azione delle diplomazie dei paesi usciti vincitori dal secondo conflitto mondiale (Londra e Mosca in primis), quanto la consapevolezza di come la persistenza irrisolta della questione delle minoranze etniche (tedesche ma non solo) avesse minato alla radice la solidità dei paesi dell’Europa centro orientale, con particolar riguardo a Polonia e Cecoslovacchia. Per il governo di Londra, la rimozione delle minoranze tedesche dall’Europa centrale veniva vista come una necessaria misura preliminare per la nascita di una confederazione di nazioni dell’ Area danubiano-balcanica sotto egida Britannica, mentre l’Unione Sovietica ebbe un approccio dettato dalla propria esperienza di stato sovranazionale, costituito su base ideologica, in cui era comunque lecito procedere con energia demolitrice nei confronti di un gruppo etnico, ritenuto una minaccia nei confronti della sicurezza collettiva. Il risultato finale della continua tensione etnica scaturita negli stati nati sulle ceneri degli imperi asburgico e zarista all’ indomani della Prima guerra mondiale, e delle nuove esigenze politiche successive al secondo conflitto mondiale, avrebbe così cambiato per sempre il volto etnico di gran parte del Continente Europeo, ponendo termine a quella forma particolare di “Guerra dei 30 anni dei popoli”, che aveva caratterizzato la convivenza nell’ area danubiano- balcanica dal 1919 al 1948.
Al termine di questa analisi, non si può far altro che lasciar spazio alle considerazioni conclusive di Marina Cattaruzza, che ciascuna persona di buona volontà può far proprie: “Vi fu una stretta relazione tra la rimozione violenta delle popolazioni e l’obiettivo finale di creare uno spazio vitale etnicamente puro e tale atteggiamento , deve essere visto in termini storici, come parte integrante e precipua di una specifica tipologia di “Nation-Building, peculiare dell’Europa centro-orientale e dell’Europa sud-orientale.”