Silvano Manzin, Dall’arena di Pola all’arena di Verona. Odissea di un esule istriano, Tabula Fati, Chieti 2020; presentazione di Davide Rossi e Roberto Biffis.
Per gentile concessione dell’editore Tabula Fati, sul cui sito internet il volume può essere acquistato (https://www.edizionitabulafati.it/dapolaaverona.htm), pubblichiamo la presentazione realizzata da Davide Rossi (vicepresidente di Coordinamento Adriatico APS) e Roberto Biffis (vicepresidente del Comitato provinciale di Treviso dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia).
Silvano Manzin, con questa sua nuova fatica letteraria, si insinua in quel percorso delicato, ma altrettanto fondamentale ed importante, qual è la memorialistica: il volume, infatti, appare, fin dalle prime pagine, un grande tributo al ricordo del padre, al suo coraggio ed al suo intenso dolore nella condizione di esule.
Tutta la narrazione è incentrata su due grandi viaggi affrontati da Francesco, percorrendo paradossalmente tutto lo stivale d’Italia nei due versi.
Il primo viene effettuato, subito dopo la firma dell’Armistizio del 1943, partendo da Potenza, località dove prestava servizio presso il Genio Minatori, per ritornare in quel rifugio sicuro che riteneva potesse ancora essere la propria casa natia, in Istria.
In quei 48 interminabili giorni molte furono le vicissitudini e gli incontri pericolosi, tra tedeschi, fascisti e partigiani, ma il novello Ulisse fu sempre protetto dalla propria intraprendenza e, soprattutto, da una incredibile buona stella che lo guidò e lo tutelò, serbandogli, nel tragitto, la fortuna di incontrare quell’Italia dal lato buono e disposto ad aiutarlo, di cui sempre troppo poco ci si ricorda.
L’agognato ritorno a casa, però, non fu quell’oasi di pace e serenità, quasi una piccola Arcadia, che egli sperava.
L’Istria, purtroppo, era diventata un luogo estremamente pericoloso, una piccola noce in cui insistevano prepotentemente nazionalismi ed ideologie. Il cognato Piero, carabiniere, era sparito senza lasciare traccia, la giovane cognata Anna seviziata ed assassinata, un’altra parente, Milka, anch’essa violentata prima di essere gettata in una foiba, angusto e orrido buco che, lentamente quanto inesorabilmente, stava inghiottendo tutto un popolo.
Continue e tremende erano le notizie di rapimenti e massacri gratuiti, compiuti con sadismo ed inaudita ferocia dai partigiani titini, imbevuti tanto di alcool quanto di falsa propaganda: veri mostri assetati di sangue, continuamente a caccia di vittime innocenti.
Si sapeva quando si usciva di casa, ma non se si sarebbe rientrati, perché ogni giorno avrebbe potuto anche essere l’ultimo.
Stanco di vedere la morte in faccia e per salvare la sua famiglia, Francesco decide di intraprendere un secondo viaggio, lontano da quei luoghi cui era affezionato, per cercare una nuova casa dove far crescere al sicuro i suoi bambini.
Dall’estate del 1945 le carneficine si susseguivano sempre più incessanti e, attraverso il terrore, l’intento appariva sempre più nitido, quello di obbligare gli italiani a fuggire, abbandonando così le loro terre ed i loro beni.
Furono 350.000 quanti, i più fortunati con il piroscafo Toscana, moltissimi altri con ogni mezzo di fortuna, lasciarono l’inferno di Tito e, mentre la nave si allontanava dalla riva, sicuramente il loro sguardo accarezzava a lungo quell’ Arena, simbolo di Pola e della sua antica civiltà romana, prima, e veneziana, poi.
Iniziarono per Francesco sette anni di peregrinazione, tra i vari campi profughi, per poi approdare definitivamente a Verona, dove trovava lavoro e la possibilità di poter, finalmente, ricominciare una nuova vita all’ombra di un’altra Arena, quasi il destino avesse voluto ricompensarlo per quella ormai perduta per sempre.
Questo libro è un’altra dolorosa testimonianza del martirio di un popolo che ha voluto restare italiano con tutte le proprie forze, pagando un prezzo altissimo di lutti familiari, sofferenze e versamento di sangue innocente.
Bene fa Manzin a testimoniare tutti i suoi ricordi, affinché nulla possa essere perduto o dimenticato, onorando così la memoria di una padre coraggioso dotato di grande onestà e buon cuore, la memoria di una Patria perduta, ma sempre tanto amata e, soprattutto, l’immagine di migliaia di vittime innocenti per troppo tempo volutamente dimenticate.
Parafrasando l’ex Presidente della Repubblica Federale di Germania, che prima dell’unificazione era stato un fervente attivista per i diritti umani nella Germania Orientale, Joachim Gauck: «certo noi non siamo responsabili del nostro passato, ma siamo sicuramente responsabili di come ad esso ci rapportiamo. E questo tipo di rapporto decide del nostro presente e del nostro futuro».
Questo volume vuole essere una sorta di cerniera, di un debito lasciato alle generazioni future, che fortunatamente non devono rivivere queste tristi esperienze, ma hanno il doveroso compito di non dimenticare. Anche questo, forse, è un primo sintomo di memoria, che non è soltanto una condizione storica, ma prima ancora sociale, politica, giuridica e culturale.