Scritto da Nicolò Giraldi, «La Voce del Popolo», 19/03/11
TRIESTE – A cosa serve un’antologia? La risposta giunge rapida ai più ed è in ragione delle necessità che stanno alla base dell’individuazione di cardini culturali. Tante sono le categorie che possono concorrere a questa raccolta, votata all’innalzamento delle virtù di un singolo spazio o di una dimensione sotterranea. Partire da quesiti di genere serve per arrivare preparati al nuovo volume curato da Lorenzo Nuovo e Stelio Spadaro, presentato nei giorni scorsi alla Libreria “Minerva” di Trieste, dal titolo L’europeismo nella cultura giuliana – Un’antologia 1906 – 1959, pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana. Il libro conta più di duecento pagine ed è a tutti gli effetti parte del lavoro di riscoperta culturale che negli ultimi anni ha preso piede nel capoluogo giuliano. Riscoperta per il semplice fatto che tocca testimonianze passate di come, all’interno di una città quale Trieste, durante periodi storici complessi, si potesse parlare con lungimiranza di idee europee. Rivaluta completamente la figura di una città marginale per la storia culturale italiana, ricordata sempre per le tragedie del Novecento e non per gli slanci letterari e di conquista di spazi critici all’interno della penisola italiana.
Ci sono autori diversi al suo interno, luoghi ideali per rivivere atmosfere passate. Dal periodo precedente alla Prima guerra mondiale fino agli anni successivi alla seconda Redenzione di Trieste all’Italia. L’antologia scorre tra le pagine di un tessuto civile di cultura giuliana, tra i meandri di un’identità forte e tra le spinte di un eroismo che porta ai concetti fondamentali di libertà, democrazia e tolleranza. Troviamo gli scritti degli Stuparich, di Slataper, di Apih, Antoni, Valiani e Furlan. Troviamo la valorizzazione del pluralismo, da Fogar a Magris, riscopriamo la funzione speciale della Trieste del Novecento: il ruolo di mediazione come virtù innata, specchio degli elementi plurimi di questa terra. Apriamo pagine emozionanti, coraggiose ed attuali di come la pensavano intellettuali, giovani scrittori, collaboratori, giornalisti, semplici appassionati. Diamo credito all’idea che Trieste sia italiana in modo diverso dalle altre città d’Italia, che i suoi figli migliori non andassero solamente a Vienna o a Graz a studiare. Non solo la propensione a vivere d’oriente, non solo l’idea di marginalizzare le proprie esistenze e per questo rendere speciale una quotidianità lenta.
Il volume ha il merito di accusare di falso il concetto per cui i grandi canali culturali non passavano per Trieste. Hanno ragione gli autori a rendere chiara la sensazione erronea che accompagna molti italiani. L’estremismo a scapito di una contemporanea lucidità è punta di un iceberg nascosto e che nel passato ha dato prova di esser ampio nello sguardo. Ne esce un libro che parla di italianità, di pluralismo concettuale, di dimensioni e spazi geopolitici che in molti altri Paesi erano ancora da venire. Parla dell’apporto specifico della città alla cultura nazionale, degli autori che vissero momenti delicati a cavallo tra la fine della Belle Époque e l’inizio dell’incendio nazionalistico. L’idea che la cultura a Trieste sia stata schiacciata dagli eventi drammatici che hanno accompagnato queste terre è un falso. È un’immagine che è stata portata avanti negli anni e che il libro argomenta in maniera profonda. L’europeismo nella cultura giuliana è un bel libro. Soprattutto perché ci ricorda che, in fondo, gli eventi drammatici sono durati poco rispetto al mare placido della cultura civile che ha fatto di questa città un gioiello da ammirare con cura.