La Dalmazia, divenuta provincia bizantina della Prefettura d’Italia dopo la restaurazione giustinianea, retta da un proconsul Dalmatiae, tale si mantenne anche dopo le graduali conquiste della penisola italiana da parte dei re e duchi longobardi, a partire dal 568, e condivise quindi le vicende civili e religiose dell’Esarcato con le lagune venete, della Pentapoli e dell’Italia meridionale rimasta all’impero greco.
A differenza delle precedenti migrazioni germaniche l’invasione longobarda si caratterizzò da un lato per la sua violenza distruttrice, dall’altro per non essersi estesa all’intera regione italiana, ma solo ad una parte, avendo resistito in diverse zone la struttura statale e militare bizantina. Anzi forse i due aspetti sono complementari. La violenza e la ferocia dei barbari potevano spiegarsi con la forte resistenza che incontravano e dall’altro la loro stessa ferocia alimentava la volontà di resistere e l’eroismo delle città e delle milizie romano-greche.
Sta di fatto che intere città furono rase al suolo e torme di profughi si riversarono verso le zone costiere presidiate dalla flotta bizantina, dalle fortificazioni o da ostacoli naturali insormontabili per le capacità tecniche del nemico. Così Aquileia, Altino, Concordia Sagittaria mai più si risollevarono. Da Padova e dalle altre città venete i profughi si rifugiarono nelle isole delle Lagune, verso l’Istria e la stessa Dalmazia. Sarà questa l’origine, umile e fiera insieme, della straordinaria avventura di Venezia, che compendiò nel suo nome quello di tutto il territorio romano-veneto della X Regio Venetia et Histria. Dux Venetiarum sarà uno dei primi titoli del governatore bizantino delle Lagune, da Grado a Cavarzere.
Si produsse così, tra il 568 e la fine del secolo, una divisione dell’Italia che avrà ripercussioni profonde nella storia del Paese fino ai nostri giorni. Rimasero in mano bizantina i territori che furono definiti “romanici”, e precisamente la costa ligure (fino al 644), le lagune venete, l’Istria con la Dalmazia, la regione adriatica intorno a Ravenna – che prese appunto il nome di Romagna (??????? = terra dei romani) – la Pentapoli (Marittima: Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, e Annonaria: Urbino, Cagli, Gubbio, Fossombrone, Iesi)) e l’Italia meridionale a sud del Gargano e di Cassino, con la Sardegna, la Corsica e la Sicilia. I bizantini riuscirono anche a difendere i porti della Campania (Gaeta e Napoli) e la penisola sorrentina nonché la linea delle città e delle fortezze lungo la Via Flaminia, che assicurava le comunicazioni tra l’Esarcato di Ravenna, sede del governatore, e Roma, sede del pontefice romano, che i Longobardi, seguaci dell’eresia ariana, osteggiavano e minacciavano.
Questo assetto territoriale, quantunque sia durato meno di due secoli, determinò un autentico trauma istituzionale e una frattura tra il regno longobardo nell’Italia centro-settentrionale e la parte meridionale, dove si formarono due ducati longobardi indipendenti, Spoleto e Benevento, estesi fino all’Adriatico, e i territori bizantini di Puglia, Campania, Basilicata e Lucania. Se osserviamo le mappe dell’Italia, da allora fino all’unificazione del 1861, risulta evidente come la spaccatura politica della fine del VI secolo si sia ripetuta più volte diventando una costante delle dinamiche economiche, sociali e istituzionali del paese. La frammentazione della regione italiana in più stati, prima autonomi, fino alla sopravvivenza dei grandi imperi medievali, e infine indipendenti, con l’età moderna, trova la sua radice culturale e giuridica in quegli eventi.
La condizione della Dalmazia in quegli anni è ben documentata dalle lettere che i papi Pelagio II (579-590) e Gregorio Magno (590-604) inviano ai vescovi della regione. Intatte appaiono sia l’organizzazione civile che quella religiosa della provincia, con un Proconsul Dalmatiae Marcellinus e un Praefectus Pretorio Illyrici Jobinus, il metropolita di Salona Massimo e i vescovi suffraganei di Zara, Sabiniano, e di Epidauro (Ragusa), Florenzio.
In una di esse, del maggio 591, Gregorio I, scrivendo in accordo con l’imperatore d’Oriente Maurizio, rivolge un appello ai vescovi dalmati affinché accolgano nelle loro sedi vescovi e chierici che fuggono dall’Illirico settentrionale “quos e propriis locis hostilitatis furor expulerat…” Ancora più drammatica ed esplicita è la lettera del luglio del 600 al metropolita di Salona Massimo per la minaccia della prima invasione slava: “Et quidem de Sclavorum gente, quae vobis valde inminet, et affligor vehementer et conturbor. Affligor in his quae iam in vobis patior; conturbor, quia per Histriae aditum iam ad Italiam intrare coeperunt” (E molto mi affligge e mi turba il pericolo degli Slavi che fortemente vi minaccia: mi affligge per i mali che già con voi soffro, mi turba perché già per la via dell’Istria stanno passando in Italia).
Non potrebbe risultare più evidente la coscienza comune di appartenenza all’ecumene romano-cristiana delle popolazioni latine dell’Italia e della Dalmazia di fronte alla minaccia dei barbari.
Verso la fine del VI secolo potenti masse di popoli slavi si erano addensate al di là del Danubio. Sirmio, già capitale dell’Illirico orientale, si era arresa nel 582 dopo un assedio estenuante. L’imperatore Maurizio organizzò una spedizione militare per alleggerire la pressione sulla frontiera, risoltasi in un fallimento, che portò alla caduta dello stesso imperatore e alla sua uccisione da parte delle milizie sollevatesi proprio a causa dei suoi insuccessi (602).
“Immense orde di Slavi e di Avari – scrive Georg Ostrogorsky – si riversarono su tutta la penisola balcanica fino alle sponde dell’Adriatico a occidente, e quelle del Mar Egeo a sud e a oriente. Dopo terribili devastazioni e saccheggi gli Slavi si stabilirono sulla penisola e presero possesso del territorio. La dominazione bizantina sui Balcani crollò. Non solo le province danubiane, ma anche tutta la Macedonia vennero occupate da immense masse di Slavi e la Tracia venne devastata fino alle mura di Costantinopoli. Particolarmente violenti furono gli attacchi contro Tessalonica, che venne ripetutamente assediata e aggredita da orde slave e avare. La città resistette, ma tutte le zone circostanti caddero in mano degli Slavi; l’ondata slavo-avara si riversò sulla Tessaglia e oltre, fino alla Grecia centrale e al Peloponneso…”
“Altrettanto minacciose furono le incursioni in Dalmazia. Intorno al 614 venne distrutta Salona…Oltre a Salona ed altre città dalmate, cadde in questo periodo in mano degli invasori anche la maggior parte delle principali città dell’interno della penisola balcanica, come Singiduno (Belgrado), Viminacio (Kostolac), Naisso (Niš), Serdica (Sofia). Le uniche roccaforti della potenza bizantina che resistevano nella penisola erano – oltre alla stessa Costantinopoli – da una parte, innanzitutto, Tessalonica, dall’altra poche città sulla costa adriatica, come Iader (Zara) e Traù (Trogir) nel nord; Butua (Budva), Shkodra (Skadar) e Lisso (Lješ) nel sud.”
“In tutta la regione balcanica avvenne una radicale trasformazione etnica, tanto più che la migrazione slava continuava. Tutta la penisola, fino alla sua estrema punta meridionale, era sommersa dall’invasione slava. Ciò non significa, comunque, che si fosse giunti ad una completa e definitiva slavizzazione dei territori greci…A poco a poco il governo bizantino riuscì a riprendere il controllo sulla Grecia e sugli altri territori costieri, e così queste regioni riuscirono a preservare o riacquistare il loro carattere greco. Sotto la pressione degli Slavi che avanzavano, le popolazioni indigene si ritiravano ovunque nelle zone costiere o nelle vicine isole, e questo fatto rese possibile che in seguito nelle zone costiere meridionali e orientali la popolazione greca si rafforzasse e riacquistasse man mano il predominio nei confronti degli Slavi, e lo stesso avveniva nelle zone costiere occidentali per quanto riguarda la popolazione romanica”, e cioè la Dalmazia (Storia dell’impero bizantino, Einaudi, 1996, pag. 86).
Il fenomeno descritto da Ostrogorsky ben risponde a quella dinamica costante di cui si è parlato più innanzi, tra una costa e una cultura cittadina che rimane collegata alla penisola italiana e al Levante greco – custode fedele di una tradizione culturale universale – e un hinterland montano sempre inquieto e mobile, soggetto a ogni perturbamento che proviene dalle pianure danubiane e sarmatiche. E questo fenomeno non è circoscritto all’Adriatico orientale ma a tutti i territori balcanici bizantini. Le città e parte delle campagne rimangono abitate dalle popolazioni autoctone greche o ellenizzate a oriente; romanizzate e latine a occidente. E tutte queste zone preservate dall’alluvione slava si chiameranno romanìe: da Ravenna a Zara, a Valona, a Tessalonica, a Costanza, a Mesembria (Nesebar), a Filippopoli (Plovdiv), a Patrasso. Sclaviniae invece vennero chiamate le vaste aree rurali e montane ove si insediarono popolazioni di lingua slava.
In Dalmazia vennero certamente rase al suolo dagli invasori intorno al 615 le città illiro-romane di Asseria, Burnum, Scardona, Promona, Epetium, Epidaurum, Risinium. Resistettero invece perché più protette dal mare Aenona, Iadera, Tragurium, Butua e le città delle isole. Ad esse si restrinse l’autorità dei funzionari bizantini e delle curie cittadine mantenendo vive le leggi dell’impero e le strutture ecclesiatiche.
L’invasione avara si esaurì sotto le mura di Costantinopoli nel 626, finalmente fermata dalle formidabili mura e dal valore degli abitanti e delle milizie guidate dall’imperatore Eraclio (610-641).
Questa vittoria consentì a Bisanzio di regolare con un compromesso la situazione che si era creata con l’invasione. Mentre infatti le orde dei cavalieri avari ritornavano verso le pianure sarmatiche con il loro ricco bottino, le tribù slave che li avevano accompagnati erano rimaste sul territorio, essendo di costumi totalmente diversi, indoeuropee di lingua e di religione politeista, dedite da secoli all’agricoltura e all’allevamento del bestiame. Eraclio stipulò nel 638 un patto con i capi delle popolazioni slave impegnandoli, con l’emanazione di un sacrum rescriptum principis a rispettare le leggi dello Stato, i costumi e i diritti di proprietà degli abitanti autoctoni, le prerogative delle città latine e il loro ordinamento, restando all’interno dei territori ad essi assegnati.
Queste forme di compromesso furono poi applicate di frequente dagli imperatori bizantini, fino a consentire l’immigrazione di tribù slave anche nei territori anatolici per ripopolare aree devastate da guerre, pestilenze, carestie.
Né sarebbe comprensibile questa politica se si dimenticasse che in quegli anni cruciali Eraclio, dopo aver sconfitto definitivamente nel 627 i Persiani – che avevano invaso i confini orientali della Cilicia, dell’Armenia e della Siria, raggiungendo Gerusalemme – si trovò ad affrontare la nuova minaccia dell’Islam, che dalla penisola arabica avanzava verso nord e verso occidente in nome della “guerra santa” per l’islamizzazione di tutti gli infedeli.
Era indispensabile regolare in qualche modo la situazione nei territori balcanici trasformando gli invasori slavi in sudditi dell’impero e riordinando l’organizzazione militare e civile delle aree rimaste greche e latine: la Macedonia, la Tracia, l’Asia minore, la Grecia centrale e meridionale, la Venetia costiera, l’Istria e la Dalmazia – sottoposte all’Esarcato di Ravenna – e le propaggini meridionali dell’Italia (Salento, Apulia, Calabria, territori costieri della Campania), le grandi isole della Sardegna, Sicilia, Corsica e Creta.
Sta di fatto che dopo la sconfitta degli Avari del 626 tutta la costa dalmata rifiorisce a nuova vita. I profughi rifugiati sulle isole tornano sul continente e fondano le nuove città di Spalato, all’interno delle mura del palazzo dioclezianeo, di Ragusa, di Cattaro in fondo al Sino Rizonico. Regolare è la nomina dei funzionari imperiali a capo della provincia e dei vescovi a guida delle diocesi. Arcivescovi di Ravenna saranno il dalmata Damiano e l’istriano Massimiano.
Nello stesso anno 639 – come osserva Giuseppe Praga – veniva consacrato a Spalato l’ex-mausoleo di Diocleziano, diventato tempio della Madre di Dio, la Teotòkos dei greci, e a Torcello veniva trasferita la sede episcopale di Altino ed eretta la basilica consacrata anch’essa alla Madre di Dio. “Spalato e Venezia hanno così – osserva Giuseppe Praga – lo stesso atto di nascita”.
Non è casuale che in quegli anni (640-642) sia salito al soglio pontificio un presule dalmata, Giovanni IV, figlio di un alto funzionario bizantino della provincia, che si era fatto le ossa nella curia romana. Restò in carica meno di due anni, ma dovette occuparsi con una certa urgenza del confine adriatico dell’impero. Mandò l’abate Martino in Istria e in Dalmazia per riscattare i prigionieri catturati “dai popoli pagani”- come recita il Liber Pontificalis – e raccogliere le reliquie dei martiri istriani e dalmati per portarle al sicuro a Roma e collocarli in una cappella del Laterano, annessa al battistero costruito da Costantino il Grande. I corpi dei santi sarebbero rimaste però nelle loro basiliche, più o meno.
A questo punto si pone uno dei temi più controversi della storiografia degli Slavi del sud: in quale epoca esattamente avrebbero raggiunto le loro attuali sedi, dalla Drava all’Adriatico, i due popoli affini nella lingua, ma già allora distinti, dei Croati e dei Serbi.
Secondo una prima versione essi sarebbero stati proprio quei fanti-contadini slavi che l’orda dei cavalieri avari, di stirpe turanica, si trascinarono dietro all’inizio del VII secolo, seminando terrore, distruzione e morte in tutte le province romane invase secondo il costume tipico di quelle orde, dagli Unni di Attila ai Mongoli di Tamerlano e di Gengis Khan.
Secondo un’altra versione – che pare allo stato la più accreditata presso gli studiosi croati e serbi – i due popoli sarebbero piuttosto quelli ai quali l’imperatore Eraclio concesse di stabilirsi nei territori imperiali con il rescritto del 638 e nulla avrebbero a che fare con gli indeterminati “invasori slavi” che avevano seguito gli Avari vent’anni prima. Anzi avrebbero contribuito con le milizie bizantine e le popolazioni latine e greche alla loro cacciata. Così dovrebbe essere interpretata la testimonianza, posteriore di due secoli dell’imperatore Costantino Porfirogenito nella sua colossale opera De administrando imperio” .
Una terza versione sposta invece l’arrivo dei croati e dei serbi, già organizzati in forme statuali, tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, in coincidenza con l’espansione del regno dei Franchi verso l’oriente e la riconquista germanica di quella che fu chiamata proprio allora “Austria”(marca d’Oriente = Österreich).
E’ chiaro che ognuna di queste ipotesi storiografiche può prestarsi a interpretazioni politiche diverse, più o meno strumentali ai diversi periodi della storia contemporanea della ex-Iugoslavia.
La Dalmazia comunque restava – con la Pentapoli, le Lagune venete e l’Istria, il Ducato di Roma e i territori bizantini meridionali – una provincia dell’Esarcato, ravennate fino alla sua fine, nel 751, ad opera del re longobardo Astolfo.
E’ già in quest’epoca che si sviluppa una caratteristica che sarà decisiva nella storia dalmata: l’autonomia delle città, connotato comune a tutti i territori periferici dell’impero bizantino dal VII secolo in poi. Nell’impossibilità di essere soccorse rapidamente dagli eserciti e dalle flotte imperiali, occupate in altri scacchieri strategici, le città (civitates – ??????) prendono a difendersi con le loro sole forze, acquistando quindi progressivamente una loro autonomia anche politica e amministrativa. E’ un fenomeno comune che gli storici, da Charles Diehl a Roberto Calasso, a Pier Silverio Leicht, hanno individuato, vedendo in esso la spiegazione dello sviluppo di molte città dell’antica ecumene greco-romana che riuscirono a conservare forme di vita e istituti giuridici giustinianei, preservando la loro indipendenza rispetto alle migrazioni e ai nuovi stati barbarici che si venivano formando.
Lo storico rumeno Nicolae Iorga così commenta: “la citta, la” polis”, conservata intatta dai Romani, resiste, s’innalza immortale al di sopra di questa fiumana torbida ed agitata senza tregua; essa trasmette il passato e prepara l’avvenire.
Mantenendosi inviolata dai barbari, come continueranno a farlo, fino alla fine del Medio Evo, le città dalmate, ammirevoli per la loro vitalità autonoma, essa non subisce cambiamenti, respingendo al tempo stesso qualsiasi influenza.” (La vie de province dans l’Empire Byzantin” in Atti del V Congresso Internazionale di studi bizantini, Roma, 1939-1940).
Come se non bastassero le minacce e gli attacchi dall’esterno l’impero bizantino era scosso al suo interno dall’incidenza politica dei ricorrenti dissidi tra le diverse fazioni della Chiesa, a causa dello stretto legame che l’imperatore aveva con l’organizzazione ecclesiastica, essendone egli il protettore e in qualche modo il tutore anche nelle dispute teologiche. La Dalmazia fu coinvolta in due conflitti di origine religiosa: lo scisma dei Tre capitoli e le lotte iconoclaste.
Il primo verteva su una definizione dell’unione delle due nature, umana e divina, nella persona di Gesù e derivava dall’eresia nestoriana condannata dal Concilio di Costantinopoli del 553. Si era diffuso nelle province orientali dell’impero e nella vicina Persia, ma anche in Africa, in Dalmazia e nell’Italia di nord-est, dove durò fino al 700, determinando la divisione tra il Patriarca di Aquileia, che vi aveva aderito, e quello di Grado, fedele a Roma. Né era estranea allo scontro la circostanza che Aquileia era caduta in mano longobarda mentre Grado era rimasta bizantina.
Nel 726 una nuova tempesta fu provocata dall’editto dell’imperatore Leone III Isaurico che proibiva l’uso delle immagini di qualsiasi tipo nel culto. Aveva prevalso sulla tradizione cristiana primitiva l’influenza dell’ebraismo e del nascente islamismo, che aborrivano ogni raffigurazione sacra come idolatra e pagana. L’editto di Leone III provocò nelle province occidentali rivolte cruente contro i governatori bizantini, dalla Dalmazia alla Sicilia. Lo stesso Esarca di Ravenna Paolo fu ucciso dai soldati della guarnigione che avevano fatto causa comune con la popolazione. Queste rivolte ebbero un’importanza decisiva per la storia dei territori italiani soggetti a Bisanzio, perché favorì lo sviluppo della loro autonomia. Le civitates e gli exercitus locali presero ad eleggere i loro capi (duces, magistri militum, consules, ??????), obbligando l’autorità imperiale a riconoscerli come legittimi governanti. Avvenne a Gaeta, a Napoli, a Venezia, a Ravenna, in Dalmazia. Ed è dall’elezione a dux del veneto Orso nel 726 che si fa iniziare la storia dell’indipendenza veneziana.
I disordini si trascinarono in Dalmazia fino al 732, ma solo nel 787 il VII Concilio ecumenico, riunito a Nicea, poneva fine alla contesa, ripristinando il culto delle immagini.
Con la conquista longobarda di Ravenna nel 751 la regione dalmata divenne, con le Lagune venete, l’ultimo baluardo nord-occidentale dell’impero bizantino. Tra il 751 e il 778 anche l’Istria fu occupata definitivamente dai Longobardi, malgrado la lunga resistenza delle milizie bizantine locali, aiutate dai veneti delle isole lagunari, che dimostrarono per la prima volta le loro capacità militari.
Ma la caduta dell’Esarcato aveva prodotto un evento ben più importante per l’avvenire dell’Europa. Il Papa Stefano II, ritenendosi libero dalla tutela bizantina, dimostratasi così pesante negli ultimi decenni, colse l’occasione per recarsi personalmente oltre le Alpi e incontrare a Ponthion il re dei Franchi Pipino, padre del futuro Carlo Magno. Roma aveva voltato le spalle all’impero romano d’Oriente.