Le ombre scure del secolo breve e i sogni di libertà degli sloveni

Scritto da Alessandro Mezzena Lona, «Il Piccolo», 16/10/11

Raccontare gli inferni del “secolo breve” in un romanzo è un’impresa da far tremare le gambe. Alojz Rebula ci ha provato. Scegliendo come fondale per la sua storia quell’angolo di mondo che conosce meglio. La sua terra. La striscia d’Europa che sta tra Trieste, il Carso, l’Isontino e la Slovenia. Un microcosmo dove si è combattuto senza esclusione di colpi. Dove si è sofferto prima le violenze del fascismo, poi le crudeli utopie del comunismo. L’impresa di raccontare gli inferni del ’900 a Rebula è riuscita perfettamente. Perché il suo romanzo “Notturno sull’Isonzo”, tradotto con la consueta bravura da Martina Clerici per le Edizioni San Paolo (pagg. 300, euro 17) non solo sa mettere in prima piano quanto ha dovuto soffrire la popolazione slovena sotto il fascismo, che avrebbe voluto spazzarla via dalla Venezia Giulia, dall’Isontino. Ma racconta anche l’altra faccia della medaglia: il tramonto del sogno di una Slovenia libera, che dovette chinare la testa davanti al socialismo autoritario e anticristiano della Jugoslavia di Tito. Rebula, in questo “Notturno sull’Isonzo”, ha ricreato con la forza della narrazione la figura di un prete sloveno realmente esistito. Quel don Filip Tercelj, ribattezzato tra le pagine del libro don Florijan Burnik, che finì massacrato dai comunisti. E in questa figura di sacerdote anticonformista, attaccatissimo alla cultura slovena, lo scrittore di San Pelagio ha proiettato il tormento doloroso patito da tanti preti in quegli anni. Spinti a dubitare della loro stessa fede davanti all’incalzare della sempre più asfissiante pressione fascista. Incapaci di trovare in Dio la risposta consolatoria a tanta barbarie. Seguendo le tracce di don Florijan, mandato al confino a Campobasso e tentato dall’amore di una donna, internato nel lager di Dachau e poi guardato con sospetto dai comunisti per la sua scarsa simpatia nei confronti della nascente Jugoslavia comunista, Rebula tratteggia con forza e passione le vicende dei sacerdoti e del popolo sloveno nel periodo più buio della loro storia. Distillando pagine commoventi e belle.

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Rebula e il calvario di un’anima che rischia di perdere Dio dentro l’inferno del Novecento
Lo scrittore nato a San Pelagio sul Carso triestino racconta la storia di un prete perseguitato prima dai fascisti in Italia, poi dai comunisti nella Jugoslavia
IL PROGETTO
LETTERATURA – IL ROMANZO
Tradotto in italiano “Notturno sull’Isonzo” dello scrittore sloveno che arriva nelle librerie edito da San Paolo

Quella collaborazione con la Biblioteca ‹erne “Notturno sull’Isonzo” (che in sloveno ha per titolo “Nokturno za Primorsko”, ovvero Notturno per il Litorale) è solo la prima tappa di un progetto elaborato dalla Edizioni San Paolo in collaborazione con la Biblioteca Dušan Cerne di Trieste e con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia. Dopo questo romanzo, è prevista la pubblicazione di altri due volumi di opere dello scrittore Alojz Rebula. Un progetto che va lodato e sostenuto, visto che finora i lettori italiani hanno potuto leggere di Rebula soltanto una minima parte delle oltre quaranta opere da lui pubblicate: “Nel vento della Sibilla”, “La peonia del Carso” e la biografia del sacerdote Jakob Ukmar. Dal romanzo “Notturno sull’Isonzo” di Alojz Rebula pubblichiamo l’inizio del primo capitolo, per gentile concessione delle Edizioni San Paolo. di ALOJZ REBULA Melhior Galant, parroco di Borovje, un paese della Valle del Vipacco, era in attesa del suo nuovo cappellano. Già avanti con l’età, si sarebbe dovuto rallegrare di un giovane aiutante che lo avrebbe sgravato del tanto lavoro in quella parrocchia che includeva anche zone di montagna. Tuttavia, da quando aveva reso visita al confratello Vodopivec, curato di Kromberk, nutriva una certa apprensione.

Il confratello gli aveva fatto rizzare le antenne. Avevano conversato in giardino, mentre don Vodopivec si svagava in groppa al suo cavallo. Trascorreva ore e ore seduto al pianoforte a comporre musica e queste erano le uniche pause che si concedeva. Seduto in sella, aveva chiesto a don Melhior: «Burnik hai detto che ti mandano, Melhior, Florijan Burnik?». «Di lui so poco o niente», era stata la risposta di don Melhior. «Puoi dirti contento. L’ho sentito tenere lezione a Gorizia, a un corso per maestri di coro. Uno spirito artistico. E per giunta un bel giovanotto. Intendiamoci, non per questo ti darà grattacapi col celibato». Il cavallo recalcitrò. Dopo averlo domato manovrando le briglie, don Vodopivec soggiunse: «Semmai ti creerà qualche altro problemino…». «Con la musica, dirai tu musico». «Oh, no, no». «Con che cosa allora?». «Con i suoi sentimenti patrii». Melhior se n’era andato da quel colloquio piuttosto turbato. Ti pareva fosse il caso che – anno VIII dell’era fascista – qualcuno venisse a mettergli scompiglio in casa con il suo spirito d’amore patrio? Se era per questo, nemmeno lui nel corso di quel decennio scarso aveva mai alzato il braccio nel saluto fascista, ma la sedizione, quella no, non era nelle sue corde.

Fatto sta che in canonica regnava una sorta di pace provvisoria. Sarebbero forse cominciate a grandinargli addosso ammonizioni e diffide? Proprio adesso? In quella valle non ne avevano fin sopra i capelli di interrogatori e indagini, arresti e provvedimenti di confino? Con questo stato d’animo, in quei giorni che traduceva Blondel, aspettava l’entrata in scena di un’intransigenza provincialotta, di un’esaltazione nazionale, presa a compensazione del celibato. Insomma, non che desiderasse una copia gemella del precedente cappellano, quintessenza di un’ascesi tediosa, fattosi gesuita, però… Quando una bella sera gli si parò davanti un giovane in scarponi da montagna, occhiali sul naso e una buona verve, a Melhior balenò questo pensiero: ah, questo bel giovane susciterà ben altro tipo di amore che non quello patrio tra le ragazze di queste valli… «Florijan Burnik!». Gli porse la mano con affabile disinvoltura. Giungeva da parecchio lontano, rientrava direttamente da un pellegrinaggio sul Monte Santo. Vi si era recato per raccomandare alla Madonna se stesso e il suo nuovo incarico di cappellano. «Perché mi aiuti a fare il meno danni possibile, reverendo», disse. «E già che c’ero, ho approfittato per gustarmi appieno le nostre belle montagne». «Vuol dire che ha camminato tutto il giorno?». «Beh, di tanto in tanto mi sono anche riposato. Prima di scendere a valle, mi sono fermato a contemplare il panorama di questa nostra Canan del ‹aven. Me ne stavo lì seduto senza nessuna voglia di rimettermi in marcia. È una vista più bella di quella che Mosè deve aver avuto dal monte Nebo…». Un pellegrinaggio prima di iniziare la sua missione, l’accenno alla montagna biblica: il nuovo cappellano sortì sul parroco un’impressione migliore di quanto questi si aspettasse. E gli piacque altrettanto quando, accompagnatolo nella sua stanza perché posasse lo zaino, cercò di giustificare qualche pecca ricevendo in cambio un bel «Mi va bene tutto!».