Da Le mie estati letterarie di Fulvio Tomizza pubblichiamo il brano iniziale del capitolo che dà titolo al libro, per gentile concessione di Marsilio Editore.
Non è certo casuale che tutti i miei 20 libri di narrativa, a eccezione di un paio, siano stati scritti d’estate, in campagna. Per un ex studente uscito dall’ambiente contadino i tre mesi estivi si configurano sia quale vertice di operosità dell’intera annata (ma anche con notti malandrine, con giornate di baldoria nella ricorrenza dei santi patroni) a cui egli non può o non sa rimanere estraneo, sia come un lungo periodo di stasi da riempire mettendo al lavoro anche il cervello.
Intorno ai vent’anni, quando avevo terminato il liceo e non possedevo ancora un impiego, continuavo a trascorrere le vacanze nella nativa Istria paesana, malgrado che i perturbamenti politici me lo sconsigliassero. Avevo cominciato a leggere Pavese, Vittorini, e gli autori americani in buona parte tradotti da loro. Erano i soli libri che circolavano nella redazione di Radio Capodistria, alla quale collaboravo già da studente insieme a un gruppo di persone piuttosto eccentriche: comunisti italiani contumaci o propensi a integrarsi in un Paese socialista, sloveni tornati in patria dopo aver provato la prigione o il confino fascista, il calabro-altoatesino Peter Kolosimo che traduceva dall’inglese, giornalisti toscani e dalmati in cerca di affermazione e di avventura dopo aver partecipato alla guerra partigiana, i quali, un po’ più grandi di me, si facevano promotori di una cultura nuova e già critica nei confronti dell’ideologia stalinista. Questo ambiente, così diversificato e colorito, mi attirava sempre di più ma nel contempo anche mi allontanava progressivamente dalla cerchia degli insegnanti e compagni di scuola, della maggioranza dei miei conterranei, ivi compresi i genitori e i paesani benpensanti, in palese opposizione al regime titoista il quale perseguiva con metodi aspri l’annessione del territorio.
Nel momento stesso in cui mi si schiudeva l’orizzonte letterario-artistico e venivo iniziato alla cultura di sinistra, stavo diventando un uomo dolorosamente diviso negli affetti, negli impulsi, nelle fedi e nell’appartenenza etnica. La mia estate campagnola cedeva spazio nell’immaginazione ad altre estati, contadine e operaie, a forti tinte neorealistiche di protesta e solidarietà, sullo sfondo di un socialismo che assorbivo e condannavo perché da un lato riscattava il mio mistilingue angolo contadino da sempre emarginato, dall’altro incarcerava mio padre e altre persone colpevoli soltanto della loro contrarietà al capovolgimento di fronti, di sorti.
Il Memorandum di Londra dell’ottobre 1954, che assegnava alla Jugoslavia anche quell’ultima fetta d’Istria appartenuta all’Italia, mi trovò a Belgrado, studente all’Accademia d’arte drammatica e cinematografica grazie a uno stipendio ottenuto dalla Triglav Film di Lubiana in seguito a un soggetto cinematografico che le avevo inviato. In una decina di cartelle avevo raccontato la vicenda da poco consumatasi di un compaesano mite, il quale a un’ennesima angheria del fratello (il tentativo di vendergli anche l’ultimo bue) lo aveva bloccato freddandolo col fucile da caccia; e il tribunale popolare lo assolse quasi subito. Non mancavano in quel grezzo e ingenuo racconto, intitolato Terra rossa, tenere descrizioni della mia terra semiselvatica e dalle aride zolle rosse, che quasi mi avevano guidato la mano.
Nella capitale straniera, piena di studenti di ogni regione balcanica ridotti come me alla fame, subivo soprattutto i contraccolpi della morte recente di mio padre, che mi volevano inesorabilmente colpevole; e per liberazione, o ulteriore autopunimento, annotavo sui primi pezzi di carta venutimi sottomano i sogni angoscianti che mi riportavano alle sue esequie. Da Belgrado fui chiamato a Lubiana per la lavorazione quale aiuto-regista di un film sulla guerra partigiana, girato interamente sulle nevi della gentile e discreta Slovenia, dove vigeva un costume di vita molto vicino a quello della nostra regione giuliana per il comune passato austroungarico. Al termine ritornai puntuale alla mia estate di Materada, che trovai sconvolta dalla difficile scelta aperta dall’intesa londinese tra i due paesi, se restare definitivamente nella terra degli avi sottoposta a un comunismo sciovinista o invece optare per l’Italia poco conosciuta ma compresa nell’emisfero occidentale. Successe che in quei tre mesi, in cui i paesani di solito si ammazzavano di fatica, ogni attività rimanesse paralizzata per lasciar posto a febbrili interrogativi e severi bilanci sul decennio trascorso, i quali nella maggior parte dei casi si risolsero con l’abbandono delle cose più care e sicure. Forse il solo a lavorare, quasi di nascosto, fui io, che presto presi a registrare quanto avveniva sotto i miei occhi.
Penso con autocompatimento e un pizzico di franco rimpianto a quel mio disinvolto spreco di fogli di carta protocollo, riempiti da una scrittura spavalda e frettolosa. Elaborai una serie di bozzetti sulle vicissitudini presenti e passate di un gruppo di famiglie che avevano mostrato un differente atteggiamento verso il regime e si erano ugualmente decise alla partenza. A quelle cronache private di L’ultima estate si aggiungeva la mia, parziale ed epidermica ma letterariamente più accettabile delle altre, tanto che molti decenni dopo ne trassi un brano per il libro di racconti Ieri, un secolo fa (Rizzoli, 1985) e fu proprio Una notte a Fiume a rappresentarmi ahimè in un volume di racconti di 23 autori italiani del Novecento, pubblicato in lingua olandese.
A ottobre partii anch’io raggiungendo la madre e il fratello a Trieste, dove m’iscrissi alla facoltà di giurisprudenza, in un ambiente divenutomi presto ostile per il “collaborazionismo” a radio Capodistria, a Belgrado e a Lubiana. Sostenni il solo esame di diritto costituzionale, cavandomela con un diciotto: non per impreparazione ma perché inceppato, come in tutti i rapporti ufficiali con la città e specie con gli istriani profughi, da soggezione, senso di inferiorità e di colpevolezza.