Scritto da Pietro Spirito, «Il Piccolo», 28/01/11
La sera del 13 settembre 1917 una strana sonnolenza si impadronisce di un intero battaglione bosniaco dell’esercito austroungarico attestato lungo la linea del fronte in Valsugana. “Alle otto di sera, tutto il reparto mitraglieri di Ert dorme, dal comandante all’ultimo soldato”, e le sentinelle non riescono a tenere gli occhi aperti. Il tenente Ljudevit Pivko, sloveno, pluridecorato ufficiale dell’Impero asburgico, considerato un eroe e lodato dall’imperatore Carlo in persona, è soddisfatto: il suo piano di drogare con grappa “corretta” all’oppio i suoi soldati sta funzionando. Presto l’operazione tanto a lungo preparata avrà inizio, e le truppe italiane potranno avanzare nella notte dilagando oltre le linee austriache trovando la strada spianata verso Trento. Sarà un colpo mortale per l’Aquila asburigca che forse metterà la parola fine al conflitto e all’impero.
Inizia così la “notte di Carzano”, uno dei più controversi episodi della Grande guerra, la congiura ordita da ufficiali e soldati austroungarici di origine slava e guidata da Ljudevit Pivko contro le forze imperiali per consentire ai soldati di Cadorna di sferrare un deciso attacco frontale. La congiura, alla fine, non funzionò: a causa di ritardi, miopia operativa, incomprensioni, diffidenze, i reparti italiani si sgranarono persi nella notte tra boschi e vigneti, le truppe austriache leali all’imperatore mangiarono la foglia, respinsero l’attacco con violenza e gli italiani si sbandarono e ritirarono in tutta fretta. Solo un assaggio di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco a Caporetto. In quanto ai congiurati, dopo aver rischiato di finire impiccato dai suoi stessi “alleati” in grigioverde, Pivko riparò in Italia dove in seguito creò con suoi fedelissimi il cosiddetto “Reparto Verde”, un manipolo di soldati in gran parte cechi e jugolsavi che combattè contro gli austroungarici vestendo la divisa italiana, ma con le coccarde delle rispettive nazioni e le mostrine rosse, bianche e blu, i colori dell’attuale bandiera slovena.
La scomoda storia del tradimento di Carzano, di Ljudevit Pivko e delle imprese del Reparto Verde torna ora alla ribalta per merito della Libreria Editrice Goriziana (Leg), casa editrice della famiglia Ossola tra le più attive e attente a frugare nelle pieghe della Storia senza farsi spaventare troppo dai revisionismi, che da oggi manda nelle librerie le corpose memorie di Pivko con il titolo Abbiamo vinto l’Austria-Ungheria, la Grande guerra dei legionari slavi sul fronte italiano (pagg. 849, euro 35,00, traduzione di Irena Lampe). È un’opera poderosa, quasi novecento pagine, che uscì per la prima volta in più volumi, in sloveno, tra il 1923 e il 1928 con il titolo Proti Avstriji (ripubblicata a Maribor nel 1991), e che narra passo passo in prima persona le vicende vissute da Pivko. La traduzione della Leg affianca e completa le memorie di colui che, da parte italiana, fu il più convinto sostenitore della congiura, il maggiore Pettorelli Lalatta, nome in codice Finzi. Finita la guerra, sul complotto di quella notte Lalatta scrisse un libro che, appena uscito, venne fatto sparire: stampato a Trieste nel 1927 con il titolo Il sogno di Carzano fu sequestrato dal governo fascista, e solo nel 1967 è stato ripubblicato da Mursia con il titolo L’occasione perduta (Carzano 1917), ora reperibile in un’edizione del 2007.
Ljudevit Pivko (1880-1937), nato a Nova Vas, vicino l’attuale Markovci, era un insegnante che aveva studiato in Croazia, a Praga, Cracovia, Vienna e Francoforte. Dopo aver conseguito il dottorato in filosofia a Vienna e aver assolto al servizio militare Pivko andò a insegnare al ginnasio di Maribor. Allo scoppio della guerra fu richiamato, proprio nel momento in cui il suo spirito nazionalistico toccava il diapason con l’appoggio alle attività del movimento patriottico sloveno “Sokol”. Come scrive Janez J. Švajncer nella postfazione al volume della Leg, «l’Austra-Ungheria è stata la prigione dei popoli nel vero senso della parola, e proprio noi sloveni siamo stati uno dei popoli maggiormente esposti ai due sciovinismi imperanti nel paese, quello austriaco e quello ungherese». Perciò, non appena mise piede al fronte, sull’esempio di molti altri commilitoni connazionali Pivko ebbe un solo pensiero: tradire la sua divisa, disertare e magari danneggiare nel modo più proficuo l’esercito imperiale.
Nelle sue memorie il racconto di ciò che fece è dettagliato, preciso, persino troppo pedissequo nella forma narrativa, ma proprio per questo assume a tratti toni da tragicommedia che l’autore, uomo colto e certo non privo di cinica ironia, non nasconde. Una volta spedito al fronte con i gradi di ufficiale, all’inizio Pivko tenta semplicemente di passare dall’altra parte. Ma rischia di essere impallinato dagli italiani, e quando torna tra i suoi ferito a un braccio e con il berretto sforacchiato dalle pallottole inventa la storia del tentativo individuale di un eroico assalto al nemico. Gli credono, così Pivko diventa un eroe, viene decorato, lodato dall’imperatore in persona e ottiene un tale credito che più tardi, quando passerà costantemente le linee italiane per portare al maggiore “Finzi” documenti e informazioni, e per mettere a punto con gli altri ufficiali cospiratori il piano di drogare l’intero battaglione, togliere l’elettricità ai reticolati e spalancare le porte ai bersaglieri, nessuno crederà ai sospetti che a più riprese soldati leali riferiscono ai comandi dell’esercito austroungarico. Nel racconto di Pivko la cronaca di quei giorni assume spesso toni grotteschi. Ma, come spiega Marco Cimmino nell’introduzione al libro, al di là della storia in sé – la cospirazione prima, le azioni militari del “Reparto Verde” poi – e del valore documentale del racconto, «la vicenda di questo manipolo di soldati, accomunati dall’odio verso l’Austria e dall’amore per la slavitas, è un capitolo paradigmatico della storia d’Europa: e ha, per questo, una sua dignità esclusiva e particolare».