L’anima di Trieste e Fiume negli occhi di Penco

Scritto da «Il Piccolo», 18/12/10
Dal volume Francesco Penco. Trieste e Fiume in posa, a cura di Claudio Ernè e pubblicato da Comunicarte Edizioni, anticipiamo il testo introduttivo del direttore del «Piccolo» Paolo Possamai.

di PAOLO POSSAMAI

Le immagini di Francesco Penco non raccontano “solo” un ambiente urbano, non sono solo un documento delle mutazioni intervenute sul volto di Trieste e di Fiume, la narrazione di pagine di storia grandi e minute, un faro puntato sui protagonisti di quei giorni lontani. Le foto di Penco ci proiettano incontro alla folla di uomini e donne che le popolano, ci interrogano sui loro destini, ci pongono in ascolto di un mondo trascorso e di cui avvertiamo a tratti l’eco remota nel nostro affaccendato vivere, nel nostro percorrere le stesse strade, praticare gli stessi mestieri, inebriarci di odori e colori che appartengono solo a questa striscia di terra sposata al mare.

A chi si lascia intrigare e non soffre di far scorrere distrattamente l’occhio su questi quadri di vita, può mettere i brividi pencolare sull’abisso di ombre che non hanno più un volto, né una voce e nemmeno uno sguardo proprio, se non quello che Penco ha salvato un secolo fa con la sua macchina fotografica su una lastra di vetro, spalmata di grani d’argento. E così l’emozione muove il petto di chi guarda pezzi di città scomparsi, le case che sono state abbattute, le vie e le piazze sconvolte nel ’900, ma ancora esistenti su fogli di carta che chiamiamo fotografie.

Brani di vita salvati dalla sparizione. Non sono in questione soltanto palazzi e interi blocchi di Trieste atterrati dalla stupidità degli uomini e dei regimi. Le colossali bitte in pietra d’Istria, d’un bianco sfavillante, non sono materia ornamentale e quasi relitti di grandezza perduta come sono oggi le ultime disseminate lungo le Rive: evocano navi che attraccano e scaricano le loro merci, ci fanno sentire lo sferragliare dei cerchioni metallici dei carri sulle strade lastricate di arenaria, ci richiamano la ricchezza dei mercanti che avevano i loro palazzi affacciati sui moli.

Il volto della città attiene anche alle strade lastricate in pietra, cifra stilistica del tutto aliena dall’orrido e insulso asfalto che copre oggi come una colata vulcanica la trama delle vie cittadine. Che poi quasi sempre sotto all’asfalto sopravvivano i lastroni in pietra non è che un altro indizio della povertà culturale cui siamo ridotti. Che poi tutto dipenda dalla schiavitù cui l’automobile ci ha condotti lo testimonia pure l’onnipresenza, nelle foto di Penco, di vetture tramviarie che davano a Trieste un aspetto allora moderno e insieme affine alla sua anima commerciale, al suo spirito d’impresa, al suo dinamismo e alla sua proiezione al futuro. Trieste di tram non ne ha più, salvo la trenovia che si inerpica verso Opicina. E con i tram nel secondo dopoguerra ha pure perduto parte importante della sua apertura al mondo, della sua voglia di esplorare nuovi orizzonti. Sfide che interrogano oggi la città sul suo futuro, che può essere coerente con la gloria del passato quando l’ambizione fosse declinata con chiarezza e determinazione.

Cantieri, navi e locomotive a vapore del tempo che fu esistono ancora e possiamo osservarli cercando in loro qualcosa che va al di là della pàtina e della burocratica registrazione di un evento. Francesco Penco è stato per tutta la sua lunga carriera un reporter che non bara, un cronista con estro e che non si inchina al potere, un uomo che attraverso l’obiettivo osserva il mondo con ironia, incapace per forma mentale e stile di declinare il suo sguardo al mondo nel segno dell’enfasi e della retorica, men che meno della propaganda. Per interpretare lo spirito dell’autore è sufficiente posare l’occhio su alcune immagini, scampate alla dispersione del suo archivio. Alle spalle di una schiera di militari asburgici, disposti come baccalà secondo la scala gerarchica di tutti gli eserciti, spicca beffardo un ragazzino arrampicato su una finestra della chiesa di Santa Maria Maggiore. Allontanarlo, o meglio farlo allontanare, non sarebbe stato difficile per il fotografo che intanto armeggiava col cavalletto e metteva a fuoco l’immagine sul vetro smerigliato. Ma Penco ha voluto invece che quel muleto di Città Vecchia, con i capelli quasi rasati, rimanesse lì dove la vita lo chiamava, negli anni del primo conflitto mondiale. Un soffio di leggerezza in una immagine ufficiale, scattata in tempi difficili, quando Trieste era pervasa dal rombo dei cannoni che dai pontoni armati di Punta Sdobba scagliavano quintali di ferro e di esplosivo sulle trincee del Monte Hermada.

Analoghi tocchi di leggerezza – o semplicemente un irrinunciabile rispetto per la verità della quotidianità – l’autore manifesta in altre immagini. Osservate, per esempio, la compunta processione che risale il Corso, illuminata da un bambino che saluta i fedeli assiepati sui marciapiedi, agitando nell’aria un grande cappello di paglia. Ma guardate anche con attenzione la piccola folla di fedeli sloveni radunati col parroco davanti alla porta della chiesa di Roiano per la festa di Santa Cecilia: se guardate bene, vedrete un ragazzo di una decina d’anni che è uscito dal gruppo e che è riuscito a salire su una colonnina e si propone all’obiettivo come “statua vivente”. Anche in questo caso Penco avrebbe potuto allontanare l’importuno, avrebbe potuto piegare la vita alle necessità di raccontarla secondo un copione: invece il ragazzino è rimasto fissato per sempre su una lastra di vetro. Di quel ragazzino oggi non conosciamo il nome, ma ci colpisce per il suo slancio da pro­tagonista, il suo spirito autenticamente iconoclasta, il suo desiderio di vita.

Di reportage, con il suo valore di testimonianza, possiamo parlare anche relativamente a una parte cospicua del corpus dedicato a Fiume. Le insegne di botteghe di dentisti, cambiavalute, modiste, fotografi, spedizioneri e birrai richiamano una città che conciliava e coniugava ungherese, italiano, croato e spesso tedesco. Una ricchezza spazzata via dai nazionalismi. Ma del dossier fiumano possiamo ricordare anche una foto che, forse al di là delle stesse intenzioni dell’autore, traccia un ironico rapporto tra città e campagna. Nel 1906 in piazza Elisabetta a Fiume vengono innanzi a noi una giovane signora con l’ombrellino e una popolana. La prima è strizzata da un busto che pretende di regalarle, come vuole la moda, una vita da vespa. L’altra si muove libera, senza stecche di balena e legacci da far stringere disumanamente dopo aver svuotato i polmoni da tutta l’aria. Due mondi in un solo quadro, entrambi svaniti e lontani.

Di queste donne, come dei tecnici della Ferriera di Servola, dei macchinisti fiumani, dei soldati imperiali e dei ragazzini che scherzano anche nei momenti solenni non resterebbe nulla se Francesco Penco non ne avesse colto il passaggio con la sua macchina fotografica.