La marcia della morte nei ricordi di un dalmata

Senza cultura un popolo non ha identità. Nel dopoguerra gli italiani che abitavano la costa orientale d’Italia scelsero di abbandonare la loro terra per mantenere l’identità italiana e la libertà di pensiero. “Raccontare per ricordare” è uno dei concorsi online più importanti per la storia dell’Europa del ‘900. Tutti possono partecipare per restituire al mondo le storie dell’esodo dall’Istria, da Fiume e della Dalmazia.

Il primo concorso nazionale di letteratura dell’Esodo giuliano-dalmata è stato promosso dalla piattaforma di condivisione di opere scritte Kepown in collaborazione con l’Unione degli Istriani e con il quotidiano Libero.

Riceviamo e volentieri condividiamo l’incipit del racconto La marcia della morte. Il diario vero di un sopravvissuto alla marcia della morte dalla Serbia, all’Albania, all’Asinara tra il 1915 e il 1916 e la sua odissea fino al 1951.

ABSTRACT
Ciò che mi accingo a scrivere è il diario (vero) del mio nonno materno, italiano, nato e vissuto in Dalmazia fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando l’invasione dei partigiani di Tito lo costrinse ad abbandonare con tutta la sua famiglia la propria casa di Zara e a fuggire in Italia, dove sarebbe morto nel giro di pochi anni. Il diario che egli scrisse si riferisce alla prima guerra mondiale, quando era un militare dell’esercito austriaco, fatto prigioniero dai Serbi e  da essi obbligato  insieme a migliaia di altri prigionieri dell’esercito austro-ungarico ad intraprendere una marcia terribile, di centinaia di chilometri, fra le montagne del Kosovo e  dell’Albania, per raggiungere la costa adriatica, dove c’erano le navi italiane ad attenderli, per soccorrerli e per trasportarli in Italia. Egli era italiano, ma  poiché  a quell’epoca Zara e la Dalmazia appartenevano all’impero austriaco, dovette combattere con l’esercito austriaco.

Indice:

  • Introduzione
  • Ottobre 1915: Prigionieri dei Serbi
  • Novembre 1915: a piedi Serbia, Kosovo, Macedonia e Albania
  • 1916: L’Asinara
  • Dalla fine della prima guerra mondiale al 1951

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Questo diario venne scritto dal mio nonno materno poco più di un secolo fa, nell’inverno del 1916, ed è rimasto per tanti anni nel cassetto di qualche mobile a casa dei miei genitori ad Aosta fino a quando, agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, saltò fuori all’ improvviso su uno scaffale della libreria che era situata nella sala da pranzo.

Non so chi ce lo avesse messo lì, se mio padre, mia sorella o mia madre.

La prima cosa che mi domandai, quando lo aprii e quando ne sfogliai in fretta le pagine, fu: “Che cos’è questo manoscritto? Da quanto tempo la mia famiglia ha custodito un documento così prezioso? Perché nessuno ne ha mai parlato a tavola o in altre occasioni?”.

Il diario in questione è un quaderno a quadretti dalla copertina nera e dai bordi rossi, largo undici centimetri e mezzo, alto poco più di diciassette centimetri e mezzo e spesso un centimetro, circa.

Venne scritto in croato, non so perché, dal momento che il nonno era italiano e conosceva l’italiano.

Di sicuro deve averlo custodito mia madre, perché era una profuga dalmata e perché, oltre all’italiano, conosceva anche il croato.

Le chiesi più volte di tradurlo, ma si rifiutò sempre di farlo, probabilmente perché pensava che rivangare il passato sarebbe stato solo fatica sprecata e un grande dolore e forse immaginava anche che le tragedie degli italiani dell’Istria e della Dalmazia non interessassero a nessuno.

Ad ogni modo racconterò quanto so e cercherò di far pubblicare la storia della “Marcia della morte, della quale egli fu uno dei tanti ignoti testimoni.

Oltre alla traduzione del suo diario, parlerò anche di ciò che accadde dopo: di come visse nella seconda guerra mondiale, dell’esodo dalla Dalmazia e della sua morte in Italia.

Agli inizi degli anni novanta mi trasferii in Liguria e portai con me anche il diario, che custodii nella mia libreria, nell’attesa di trovare qualcuno che potesse tradurlo.

Nel frattempo andai a lavorare all’estero e quando seppi che la mia partenza era imminente, riportai il diario a casa di mia madre perché se lo avessi portato con me, avrei potuto perderlo facilmente.

Rimasi circa sette anni in Etiopia e dopo il mio ritorno in Liguria, quando andai a trovare mia madre ad Aosta, ripresi il diario e lo portai con me a Bordighera.

Trovai una ragazza croata che viveva anche lei in Liguria, non ricordo se a Ventimiglia o a Camporosso; parlava bene l’italiano e glielo feci tradurre.

Fra il 2005 e il 2006 l’opera era compiuta.

Il testo originale, però, non era stato scritto molto bene dal nonno: la punteggiatura, infatti, non era curata e buona parte delle frasi necessitava di un gran numero di correzioni.

Dovetti riscrivere il diario, evitando il più possibile di alterarne il contenuto.

Sperai di farlo pubblicare entro il 2015, per celebrarne il centenario, ma poi, per motivi vari, non riuscii a realizzare il mio proposito.

Mio nonno originario dell’isola di Traù, si chiamava Giovanni Calebotta e prestò servizio nell’esercito austriaco, dal momento che a quel tempo la Dalmazia faceva parte dell’impero austro-ungarico.

Ciò che trovo un po’ strano è che il nonno non avesse fatto il minimo accenno a dove e a come fosse stato fatto prigioniero.

Il racconto, infatti, inizia quando egli è già prigioniero dei serbi a Paracin in Serbia, proprio nel momento in cui sta per cominciare la “Marcia della morte” e in concomitanza con un’altra tragedia, di cui egli era all’oscuro: il genocidio degli armeni.

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