Scritto da Alessandro Cuk
Ma il cinema ha preso in considerazione i temi della complessa vicenda del confine orientale? In maniera specifica si è occupato del dramma delle foibe e dell’esodo?
Il cinema italiano è stato oggettivamente carente verso queste tematiche, mai nessun film ha toccato specificatamente la tragedia delle foibe, mentre nel 1949 Mario Bonnard con “La città dolente” ha parlato dell’esodo, poi nessuna voce successiva.
Un altro film che ha toccato da vicino questo tema è quello di Luigi Zampa “Cuori senza frontiere” proiettato verso il dramma del confine, inteso come linea di separazione e di conflitto.
Poi vi è la trilogia diretta da Franco Giraldi, che ha una matrice letteraria e che racconta il dramma e la difficoltà di vivere al confine, che nel Novecento, con l’affermarsi dei nazionalismi e delle guerre, si è fatta ancora più complessa.
Poi vi è il caso televisivo del “Cuore nel pozzo”.
Ma vediamo gli esempi più importanti.
La città dolente
“La città dolente” di Mario Bonnard forse rimane il film più significativo sulla questione giuliana, anche perché è l’unico con il dramma dell’esodo in primissimo piano. Si tratta quasi di una sorta di instant-movie, perché realizzato quasi contemporaneamente agli avvenimenti di cui tratta.
Un’opera imparentata con il neorealismo, dove si mettono insieme immagini documentaristiche del dramma dell’esodo con il racconto di una storia familiare che diventa un punto di riferimento all’interno dell’affresco storico generale.
Il film venne girato da Bonnard tra il 1947 e il 1948, quindi a ridosso dell’esodo da Pola, il tema principale del film, ma uscì solo un anno dopo, nel 1949.
Un film particolare, anomalo, dove il melodramma si mescola alla ricostruzione storica, che rimase bloccato per un anno e uscì nelle sale cinematografiche il 4 marzo del 1949, ma passò quasi inosservato e finì presto dimenticato, seguendo in questo la sorte degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, il cui dramma venne volutamente messo da parte e cancellato dalla memoria, per motivi di opportunità politica nazionale e internazionale.
Una prima cosa che colpisce guardando i collaboratori del film riguarda la sceneggiatura. Il soggetto è dello stesso regista, Mario Bonnard, la sceneggiatura è firmata anche da Federico Fellini, Aldo De Benedetti e Anton Giulio Majano. Tre nomi di grande livello, due in prospettiva futura, Fellini nel cinema (diventerà uno dei più grandi registi italiani) e Majano nella televisione (sarà il papà del teleromanzo), e uno come De Benedetti, già importante come autore teatrale, ma che torna a collaborare a qualche progetto dopo l’ostracismo che gli era stato imposto dal fascismo perché era ebreo.
Certo vedendolo a posteriori sembra incredibile che una tragedia italiana come l’esodo dalla Venezia Giulia sia stata trattata, quasi in tempo reale, in questo film del 1948 e poi non sia stata più rappresentata, abbandonata completamente dal mondo del cinema che pure ha trattato infinite volte il tema della seconda guerra mondiale con tutte le sue conseguenze.
Questo dimostra che “La città dolente” è stato probabilmente un film eroico perché si è avvicinato ad un tema così delicato ed ha pagato subito con l’ostracismo ad una pellicola che è uscita in ritardo e che è stata vista pochissimo.
Il film comunque ha tanti lati positivi, a partire da quell’idea brillante di combinare insieme immagini documentaristiche e immagini di scene ricostruite. Sono inserite nel film, montate nel succedersi del racconto, molte scene girate nei giorni reali dell’esodo da operatori di cinegiornali come Gian Alberto Vitrotti ed Enrico Moretti.
Bravissimo da questo punto di vista è stato anche il direttore della fotografia, l’allora venticinquenne Tonino Delli Colli (al suo ottavo film), quello che diventerà uno dei grandi direttori della fotografia del cinema italiano.
Cuori senza frontiere
Se “La città dolente” è il film sull’esodo “Cuori senza frontiere” è quello sul confine, sui nuovi confini, sulla linea di demarcazione che divide e anche questa è un’opera in contemporaneità con gli eventi, visto che è stata girata nel 1949.
Il racconto si ispira probabilmente all’immagine del cimitero di Gorizia divisa in due dopo la divisione dei confini, in seguito all’assemblea dell’Onu del 9 agosto 1947.
Qui invece siamo in un paese ipotetico al confine fra Italia e Jugoslavia, dopo la seconda guerra mondiale, che viene diviso in due dalla linea bianca che viene fatta tracciare dall’apposita Commissione Internazionale dei Territori.
Un tema interessante e particolare che viene sviluppato dal regista Luigi Zampa in una produzione importante, la Lux Film di Carlo Ponti, con un cast che ha dei nomi significativi come Gina Lollobrigida, Raf Vallone e Cesco Baseggio.
Il film originariamente si doveva proprio intitolare “La linea bianca” e circolerà anche con il titolo “Guerra e pace”, ma poi è diventato “Cuori senza frontiere”.
Un titolo che sembra alludere a quelli che poi nel film sono i veri cuori senza frontiere, cioè quelli dei bambini, che superano, pur con qualche difficoltà, le divisioni imposte dai grandi, e nel segno dell’amicizia si riprendono la possibilità di giocare insieme, superando la linea imposta e abbattendo, anche fisicamente, il paletto che li divide.
La trilogia di Giraldi
Partito con Sergio Leone e con i western Franco Giraldi, originario di Comeno, allora (nel 1931) in provincia di Gorizia, oggi in Slovenia, ha fatto uno strano percorso nella sua carriera. Chiusa la fase dei western, Giraldi passa alla commedia all’italiana, allacciando un proficuo sodalizio con due attori importanti come Ugo Tognazzi e Monica Vitti. E qui inizia la virata di Giraldi, lo strano percorso della sua carriera, che lo riporta a casa, alle sue terre.
Nel 1973 c’è una svolta importante. Il vecchio amico Tullio Kezich, impiegato alla Rai come produttore, gli propone di portare sullo schermo il delicato romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini, “La rosa rossa”.
Inizia così quella che sarà la trilogia di Giraldi, ovvero i tre film collegati con il tema della frontiera, della sua frontiera, quella relativa al confine orientale che ha il nucleo centrale a Trieste e poi si dipana verso l’Istria e la Dalmazia. E’ una trilogia dal sapore decisamente letterario, visto che i tre film sono tutti tratti da opere di scrittori giuliani.
Dopo “La rosa rossa” ci saranno, infatti, “Un anno di scuola” dal racconto di Giani Stuparich e “La frontiera” dal romanzo di Franco Vegliani.
Il cuore nel pozzo
Nel febbraio 2005 viene trasmessa, in prima serata su RaiUno, la miniserie “Il cuore nel pozzo” diretta da Alberto Negrin. Viene presentata pochi giorni prima del 10 febbraio, data in cui è ufficialmente celebrato il “giorno del ricordo” in memoria dei martiri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, giorno che è stato istituito dal Parlamento con la legge n. 92 del 30 marzo 2004. Nel cinema e anche in televisione, non si era mai parlato di foibe in un racconto di fiction, solo accenni in dibattiti, in trasmissioni fatte di rievocazioni storiche, di documentari d’epoca. E l’argomento è dichiaratamente tabù che solo a parlarne montano le polemiche, le discussioni, le critiche, prima ancora della sua presentazione in televisione.
La miniserie fiction “Il cuore nel pozzo” merita considerazione soprattutto perché per la prima volta si è riusciti a portare in prima serata, con un pubblico che ha superato i dieci milioni di telespettatori, una vicenda che parla di foibe, caso più unico che raro nella storia dello spettacolo. Il regista, giustamente, parla di una storia di invenzione, di una vicenda che si inserisce però in un contesto storico.