Scritto da Marjola Rukaj
La Fame di Camilla è una band barese formata nel 2008 dall’incontro tra l’albanese Ermal Meta ex cantante degli Ameba4, Giovanni Colatorti, Dino Rubini, Lele Diana e Roberto Matarrese. La loro musica, ispirata al rock britannico e con un forte carattere cantautoriale, mescola le sonorità dell’Europa del nord con i testi estremamente poetici di Ermal Meta. Nelle prossime settimane è in uscita dalla casa discografica Universal il loro primo album Storia di una favola, che contiene anche brani cantati in albanese. La band italo-albanese è stata accolta con entusiasmo da parte della critica e il loro primo album viene considerato come una delle novità più interessanti della scena musicale italiana.
Com’è nata l’idea di formare questo gruppo?
Credo di aver sempre avuto quest’idea dentro di me, ma come tutte le cose importante, ci è voluto molto tempo perché maturasse. Il momento giusto è arrivato quando era finito il mio rapporto con il gruppo con cui suonavo prima, gli Ameba4. Avevamo un contratto discografico, abbiamo anche partecipato a Sanremo 2006, ma non era destinato a durare. Tuttavia non tutti i mali vengono per nuocere.
Come hai incontrato gli altri compagni del gruppo?
È successo per caso, non ci conoscevamo ma ognuno di noi ha visto nell’altro qualcosa che faceva sperare bene. Abbiamo iniziato a provare le canzoni che io componevo, alcune sono quelle che usciranno a giugno con l’album. I risultati sono stati immediati e di qualità. Dopo due mesi di collaborazione abbiamo iniziato i primi concerti, e da allora, dal settembre 2007 non ci siamo più fermati finché siamo arrivati alla registrazione del nostro primo disco.
Quali sono le tendenze che il gruppo vuole seguire?
Il nostro gruppo mira solo a una cosa, all’onestà artistica. Ce n’è poca nel mondo della musica oggi. Comunicare con il pubblico, senza aver paura, con tutti i sentimenti umani. L’amore è importante ma non è l’unico sentimento che merita una canzone. Scegliamo delle atmosfere e dei suoni freddi, tipici dell’Europa settentrionale, ma sono atmosfere che si riscaldano dal risultato finale della canzone. I testi vengono scritti con molta attenzione, per dare il giusto peso e il giusto significato a ciascuna parola.
Perché questo nome? Di chi è stata l’idea?
La fame è qualcosa che fa piegare l’uomo in un certo senso. Feurbach scriveva: «L’uomo è ciò che mangia…» La fame è un istinto. Noi facciamo musica istintivamente, e con la musica nutriamo tutti i nostri organi, tranne lo stomaco.
Ermal Meta, come mai una canzone cantata in albanese? Non trovate che vada contro le tendenze della globalizzazione e delle strategie del mercato internazionale?
No, al contrario. Se la globalizzazione significa creare più affinità possibile e scambio economico-culturale tra i paesi di ogni parte del mondo, l’arte può avere un ruolo importantissimo. Non ci facciamo condizionare da logiche di mercato o di globalizzazione perché non abbiamo una tendenza del genere e credo che non abbiamo neanche la forza. Per noi la musica, come l’arte in genere, è un’espressione libera dei sentimenti. Nel nostro primo disco c’è anche una canzone intitolata 28-03-1997… Si tratta di un giorno estremamente triste per tutti gli albanesi… Questa canzone è dedicata alle vittime di quel giorno.
Come spiegate il fatto che nonostante sia in albanese, questa canzone è stata accolta molto bene?
Perché la musica non ha confini. In questo caso è stato creato un equilibrio tra le note della canzone, che sono dei ritmi moderni e una lingua, che se cantata in questo modo lento, ha forse un altro suono.
Perché avete scelto di pubblicare un disco come questo in Italia, mentre il mercato italiano non è il più promettente d’Europa in questo genere musicale? Avete delle ambizioni internazionali?
Il disco deve uscire in Italia perché 11 delle sue 12 canzoni sono in italiano. È vero, il mercato italiano è molto difficile riguardo questo genere musicale, perché la tradizione italiana è molto conservatrice, mentre la nostra musica ha sfumature europee. Tuttavia rimaniamo fiduciosi di riuscire a farci spazio nel panorama musicale italiano, anche se attualmente i tempi sono un po’ difficili per la discografia mondiale. Per il momento ci concentreremo in Italia, invece all’Europa penseremo quando sarà il momento giusto. Non nascondo che una cosa del genere ci piacerebbe molto, ma per ora puntiamo a realizzare qualcosa in Italia, e perché no anche in Albania.
Come nascono le vostre canzoni?
È molto difficile spiegarlo. In genere sento qualcosa muovere dentro di me. Mentre mi sento così devo avere uno strumento musicale in mano, e mettermi a comporre. Così avviene che non sto mai con le mani in mano. Con la chitarra o il pianoforte, non importa, basta che mi metta a suonare qualcosa. Poi le canzoni le rielaboriamo insieme al gruppo, dopo che ho scritto il testo.
Come è iniziato il tuo rapporto con la musica?
Ho iniziato a studiare pianoforte alla scuola di musica di Fier, la città in cui sono nato, e dove ho vissuto fino all’età di 13 anni. Dopo un anno di studio ho mollato la scuola: troppa rigidità, poca fantasia… Poi sono arrivato in Italia e ho ripreso a studiare il pianoforte all’età di 19 anni. Questa volta senza prendere lezioni, ma suonando per piacere e per scrivere canzoni. Poi quando avevo 21 anni un incidente mi ha costretto a rimanere seduto, e per tre mesi non ho potuto suonare il pianoforte. Un amico mi ha portato la sua chitarra e quello che era iniziato come un gioco si è trasformato in qualcosa di molto importante per me, mi ha dato la possibilità di scoprire un altro strumento, con un altro universo. In quei tre mesi ho scritto una sessantina di canzoni, ma non ne ricordo neanche una.
Cosa ti ha dato l’Italia tutti questi anni, che forse in Albania non avresti avuto?
Sono arrivato a Bari nel 1994 con la mia famiglia. Ci aspettavamo di trovare tutto ciò che non avevamo in Albania, una vita migliore in un certo senso. Molti albanesi sanno di cosa parlo. È qualcosa che continuiamo a portarci dentro e penso che ci accompagnerà ancora per molti anni. Spero solo che le nuove generazioni riescano a trovare tutto nel proprio paese senza doversi spostare.
Cosa vuol dire essere albanese in questo settore?
La mia nazionalità è sempre stato un motivo d’orgoglio. Ho avuto difficoltà di tutti i tipi, ma per altri motivi. Per fortuna in arte non servono i passaporti. Molta gente mi chiede com’è la vita in Albania. Questo tipo di musica può procurare una certa popolarità. Se sarà così, l’essere albanese mi farà parlare del mio paese, con un pubblico più vasto che mi possa ascoltare.
Che rapporti hai ora con l’Albania? Hai dei progetti che riguardano il tuo paese d’origine?
In Albania ho ancora parenti, e non ci penso due volte a ritornaci quando si presenta l’occasione. Certo che fa parte dei miei progetti. Mi piacerebbe molto che suonassimo in Albania, ma per il momento non c’è fretta. Aspetterò che venga il momento.
Fonte: «Bota Shqiptare», giugno.