Scritto da Kristjan Knez
mercoledì 09 aprile 2014
Tratto da: “La Voce in più Storia & Ricerca” supplemento a “La Voce del Popolo” del 01/03/14
Dai tempi antelucani, i rapporti tra il Veneto e l’Istria rappresentano una costante. Nel corso della protostoria, la cultura di Este, che si era sviluppata nell’età del ferro, si riflesse anche sulla penisola adriatica.
Quella popolazione era solita costruire gli abitati sulle parti alte delle sommità; i castellieri, questo è il nome di tali villaggi, conservano le prove palesi di queste antiche relazioni, come la necropoli venetica portata alla luce a Nesazio, l’antica capitale degli Istri. Questo fugace riferimento, che ci rimanda alle epoche più remote, rivela inequivocabilmente il percorso comune dei territori finitimi, i cui popoli entrarono in contatto, sviluppando scambi resi possibili dagli scali di Adria e Spina.
Dopo la vittoria navale riportata su Cleopatra e Antonio ad Azio, che decretò la conquista dell’Egitto e pose fine alle guerre civili, fu Ottaviano Augusto, ormai padrone dell’Impero, a dare una nuova organizzazione territoriale alla penisola italica, suddividendola in undici regioni. La decima, la Venetia et Histria, comprendeva il nord-est e la penisola d’oltre Adriatico, dal Po all’Arsa, fiume che segnava il confine d’Italia, che prima del 12 d.C. correva lungo il Risano.
Ebbe inizio un periodo di stabilità e prosperità. Il crollo dell’edificio imperiale d’occidente per opera delle popolazioni che avevano oltrepassato i limiti di Roma, non rappresentò una cesura per le terre dell’alto Adriatico, il regno di Teodorico, infatti, comprendeva sia l’Italia centrale e settentrionale sia l’Istria e la Dalmazia. Gli Ostrogoti acquisirono la maggior parte delle istituzioni politiche ed economiche dell’Urbe, come pure la sua lingua e cultura.
L’andirivieni di nuovi popoli, che misero a ferro e fuoco una vasta area geografica, non ebbe fine e i risultati furono deleteri. Centri urbani fiorenti si trasformarono in spettri, e le collettività degli stessi cercarono riparo in direzione di approdi più sicuri. Quella fu la sorte di Aquileia, emporio e città tra le più importanti dell’Impero romano, saccheggiata dagli Unni; non diversa quella di Padova, piegata sotto i colpi dei Longobardi, i cui abitanti trovarono riparo a Monselice.
Tra la terraferma e la laguna, in mano ai Bizantini che contrastavano l’avanzata longobarda verso il mare, il braccio di ferro perdurò fino al collasso del sistema difensivo che correva da Oderzo a Padova. Il precipitare della situazione costrinse i superstiti a cercare una nuova dimora sugli isolotti lagunari, che furono vivificati, mentre precedentemente erano stati per lo più delle zone di transito o di pesca e in buona parte disabitati. Si assistette a una traslazione di uomini e di istituzioni, che dettero vita a nuovi agglomerati, come Civitas nova, la futura Eraclea. E le ondate di profughi non si arrestavano, continuavano verso Torcello, Caorle, Malamocco. Il ducato bizantino delle Venezie scomparve sulla terraferma, ma serebbe continuato nelle lagune, con i fuggiaschi che portarono seco il retaggio della romanità, conservato con particolare attenzione e in seguito nuovamente irradiata. Vi giunse nuova linfa, mentre con l’andare del tempo uno slancio inedito avrebbe trasformato quell’ambiente nella culla di una civiltà vigorosa e grazie alla sua posizione geografica e al suo essere una cerniera tra oriente e occidente, che inizialmente faceva riferimento a Bisanzio, furono gettate le basi di quella mediazione che contraddistinse la fortuna e la strategia di Venezia, anche una volta affrancatasi dalla Roma d’Oriente. Terminato il dissidio franco-bizantino, il cui punto di frizione passava proprio ai margini della laguna, nell’840 l’imperatore Lotario confermava gli accordi precedenti, ridando a quelle comunità la libertà e l’indipendenza. Il centro dell’unità politica e territoriale si polarizzò a Rialto. La potenza del centro lagunare crebbe soprattutto grazie ai traffici, ai commerci che portarono le sue navi nei porti dell’intero Adriatico e del Mediterraneo. L’afflusso della ricchezza permise poi l’allestimento di una flotta militare e quindi di contrastare la pirateria, un problema ormai endemico che rendeva difficile la navigazione e bloccava gli scambi. Ormai stiamo parlando di Venezia, che in due secoli circa, tra il IX e X secolo, si sviluppò in un agglomerato urbano. Dalla difesa si passò all’idea di conquista. Nell’anno Mille il doge Orseolo compì la spedizione in Dalmazia ottenendo l’omaggio di quelle comunità, le promesse di fedeltà, di cooperazione e di collaborazione quale segno di gratitudine per aver contrastato le insidie provenienti dal mare e la minaccia dei principi slavi. Si stava tracciando una nuova politica, che aveva dei precedenti importanti, come l’accordo firmato con Capodistria nel 932.
Allo scadere del secolo undecimo, l’ancella di un tempo offerse il suo aiuto ai Bizantini, impegnati nel basso Adriatico in duri scontri con i Normanni.
I successi riportati furono di straordinaria importanza per i traffici
veneziani, ampliati esponenzialmente al tempo delle crociate. l’influenza politica e militare della Repubblica era viepiù maggiore.
Era una protagonista a tutti gli effetti, fu proprio questa che mediò la pace tra l’imperatore Federico I Barbarossa e papa Alessandro III, firmata nella città di San Marco nel 1177. Si arrivò anche alla IV crociata, nel 1204. I navigli veneziani avevano trasportato gli uomini armati non in Terrasanta ma a Costantinopoli, che fu saccheggiata decretando il crollo temporaneo di quell’impero. Le enormi risorse trafugate e l’occupazione di punti strategici nel Mediterraneo orientale rappresentarono il punto di svolta della sua talassocrazia. Contemporaneamente andò a cozzare contro le repubbliche marinare di Pisa e Genova, anch’esse interessate ai commerci in quel settore che fruttavano generosi guadagni.
Nella seconda metà del XIII secolo, complice la crisi che interessava il Patriarcato d’Aquileia, che aveva alimentato le bramosie dei comuni istriani e il loro spirito autonomistico, specie di Capodistria, il patriarca dovette ricorrere all’aiuto del conte di Gorizia, Venezia, invece, puntò lo sguardo sull’Istria. Sarà Parenzo a rivolgersi ad essa per evitare di cadere nell’orbita giustinopolitana.
Era il 1267. Ebbe così inizio l’espansione marciana su quella sponda, in poco più di un quindicennio tutte le cittadine della costa occidentale (esclusa Muggia e la Polesana) e Montona nell’interno finirono sotto la sua egida. Nel 1331 fu la volta di Pola e del suo ampio contado; sul finire di quel secolo la Repubblica acquistava anche alcune posizioni importanti, come Grisignana e Raspo. Nel Quattrocento, nel corso delle guerre contro il patriarca e l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, venuto meno il suo appoggio perché impegnato nella Boemia infuocata dallo scontro religioso, la Dominante abbatté quella struttura ormai pericolante. Estese il dominio all’intero Friuli e a diverse zone istriane: Muggia, Portole, Fianona, Albona, Pinguente, Pietrapelosa, ancora prima Buie. Era il 1420-21.
La sentenza di Trento del 1535, dopo anni di guerre, che avevano sconvolto la penisola italica, coinvolgendo pure l’Istria, cercò di fissare un confine accettabile con la Casa d’Austria, che dal 1374 possedeva la Contea di Pisino, mentre nel 1584, con l’istituzione del Magistrato di Capodistria con funzioni di corte d’appello, furono gettate le basi dell’organizzazione provinciale di quel possedimento. L’Istria, lo scudo della Serenissima,
rappresentava la propaggine della laguna e assieme ad essa costituiva un tutt’uno. L’area costiera, facilmente raggiungibile attraverso le vie del mare, lo era senz’altro. Questa osmosi secolare, questo dare ma anche ricevere, hanno scandito la storia di queste contrade, pertanto non deve stupire se nel 1797, spentasi la Repubblica oligarchica e costituita la Municipalità democratica, le comunità della sponda opposta avevano deciso di dedicarsi spontaneamente, e alcune inviarono le loro delegazioni in laguna, per rimarcare le antiche corrispondenze ed evitare di recidere il cordone ombelicale. Gli accadimenti volsero diversamente e le truppe asburgiche entrarono negli ex possedimenti di S. Marco e dopo ci fu il Trattato di Campoformio. Nonostante ciò, il ricordo rimase vivo. A Perasto, nelle Bocche di Cattaro, con un commiato della comunità, il gonfalone fu deposto sotto l’altare della chiesa; a Pirano, invece, abbattuto il vecchio palazzo comunale ed eretto quello nuovo, nel 1879, sulla facciata dell’edificio neoclassico, che rimanda al gusto architettonico proveniente da Vienna, si volle ricollocare il leone alato, considerato un simbolo imperituro.
Rapporti economici, culturali, artistici, spirituali e umani avevano forgiato un ambiente unitario, che già per ragioni storiche antecedenti era stato contraddistinto da una comunanza di elementi. Se a Venezia arrivava il sale, il legname, la pietra, l’olio d’oliva, dalla capitale giungevano gli influssi culturali, le tele, le pale d’altare, i libri, le idee, i prodotti di lusso, come pure le granaglie e più tardi il caffè o il cioccolato, che si consumavano nelle famiglie patrizie di Capodistria.
Le corrispondenze culturali, poi, annoverano una storia particolarmente importante, rappresentano il cemento dei rapporti tra le terre bagnate da un mare comune.
Monaldo da Capodistria, frate francescano del XIII secolo, fu autore della Summa de iure canonico, opera nella quale sono trattati argomenti economici, come l’analisi del mercato e la sua eticità o la simonia. Il manoscritto più antico oggi conosciuto si conserva a Padova, alla Biblioteca Antoniana, e risale al 1293. Nicolò d’Alessio, esponente di una famiglia modesta di Capodistria, si laureò in legge all’Università di Padova, nellaloro idee di libertà s’opposero al governo asburgico, il docente perdette la cattedra e dovette trasferirsi a Milano, seguito da Combi stesso. Nel capoluogo lombardo dettero il loro contributo fondando giornali e scrivendo articoli per i fogli patriottici. Combi nel 1851 rifiutò di diventare assistente di filosofia a Padova per non giurare fedeltà alle autorità di Vienna.
L’isolano Domenico Lovisato si laureò in matematica e scienze naturali, fu geologo di fama mondiale e garibaldino (nel 1866).
Le guerre risorgimentali decretarono la fine del Lombardo-Veneto; la guerra del 1866 rappresentò anche una cesura per le terre dell’Adriatico orientale.
Il Veneto passò nel Regno d’Italia e al tempo stesso si ruppe il legame intrinseco esistente con l’Istria e la Dalmazia, che di fatto era continuato anche nel periodo napoleonico. Con quell’annessione la popolazione della sponda dirimpettaia si trovò privata della possibilità di completare l’istruzione superiore nella propria lingua madre. Sorgeva la questione universitaria italiana, che da subito appassionò i liberalnazionali, che in Trieste avevano individuato la sede ideale per un ateneo che avrebbe accolto i giovani connazionali.
Rappresenterà un problema per tutta la seconda metà dell’Ottocento, ripreso con veemenza ai primi del Novecento. Non se ne fece nulla. D’altra parte gli alti funzionari asburgici erano intenzionati ad ostacolare quell’aspirazione, già nel 1866 il luogotenente di Trieste, Kellersperg, aveva dissuaso l’istituzione di un istituto universitario italiano.
città natale fu notaio, mentre tra il 1360 e il 1380 fu cancelliere di Francesco da Carrara, signore della città del Santo.
La celeberrima università, le cui origini risalgono agli anni Venti del XIII secolo, istituzione che raccolse le menti migliori e i giovani di varia provenienza, fu frequentata da numerosi studenti istriani e dalmati, compresi i ragusei. Nomi eccellenti, di grande spessore intellettuale, si formarono in questo ateneo.
Non possiamo ricordarli tutti in questa sede, anche perché l’intervento diverrebbe un’elencazione con centinaia di nomi. I capodistriani sono i meglio rappresentati. L’umanista e pedagogista Pier Paolo Vergerio il Vecchio frequentò quell’università e ottenne il dottorato in arti, medicina nonché diritto civile e canonico.
Ottonello de Belli, che si laureò in legge nel 1589, è autore di un poemetto satirico Lo Scolare (1588) nel quale presenta la vita mal costumata degli studenti universitari a Padova, soffermandosi sulle loro malefatte nei confronti delle matricole, ma anche sulla loro strategia adottata per procurarsi il denaro presso genitori e parenti.
Nel 1585 Girolamo Vida scrisse la Filliria favola boscareccia, un’imitazione dell’Aminta di Torquato Tasso, rappresentata dapprima a Capodistria e subito dopo a Padova.
Santorio Santorio quivi addottoratosi (1582), nel 1599 si stabilì a Venezia ove ebbe rapporti con la famiglia Morosini, con Paolo Sarpi, con Galileo Galilei. Grazie a questa frequentazione applicherà ai suoi studi la ricerca sperimentale. Nel 1611 fu chiamato alla cattedra di medicina teorica nello Studio di Padova (che tenne sino al 1624).
Nel 1675 con l’approvazione del Senato veneziano, a Capodistria fu fondato il Collegio dei nobili; decenni prima, nel ospitato un seminario laico ma ebbe vita effimera, la guerra contro gli arciducali prima e la preste degli anni Trenta successivamente, contribuirono ad eclissare l’istituzione, che non ebbe una ripresa, nonostante le premure del patriziato locale e dei rappresentanti istituzionali della città di San Nazario. Questa struttura deputata all’istruzione, voluta dalla nobiltà ma destinata non solo ad essa, divenne un punto di riferimento per l’intero Adriatico orientale, che ospitava i giovani provenienti dal Friuli alle isole Ionie, ma anche dalle terre asburgiche.
Dal 1699 l’insegnamento fu affidato all’ordine dei padri scolopi delle Scuole pie, con sede a Roma. Divenne la tappa obbligatoria nella formazione prima di passare a Padova, nella stragrande maggioranza dei casi.
Nell’età dei lumi, nella città veneta si formarono Alessandro Gavardo, Girolamo Gravisi, suo cugino Gian Rinaldo Carli, che intraprese gli studi di giurisprudenza e si fece subito notare per la sua erudizione, proprio per questo fu ammesso, ventenne, nell’Accademia dei Ricovrati. Tra il 1745 e il 1750 ebbe a Padova il lettorato di teoria dell’arte nautica. Oltre ad essere uno studioso di vasti orizzonti, in grado di occuparsi di materie tra le più disparate, sarebbe divenuto un funzionario di rilievo nella Milano teresiana, nel 1765 fu nominato presidente del neocostituito Supremo Consiglio di economia e consigliere per gli studi nel ducato di Milano.
Giuseppe Tartini, che in patria studiò materie umanistiche e si dilettava alla musica, soprattutto al violino, a Padova studiò lettere e filosofia e oltre alla passione per lo strumento musicale si dedicava alla sciabola e ai duelli. A Padova ebbe una carriera importante; nel 1721 divenne primo violino e capo di concerto dell’orchesta di Sant’Antonio. Nel 1723 fu chiamato a Praga per l’incoronazione dell’imperatore Carlo VI.
A Padova, centro culturale di prim’ordine, Girolamo Gravisi conobbe le opere teatrali di Carlo Goldoni che rappresentarono uno stimolo per la stesura della sua tragedia Merope e della commedia, appena abbozzata, L’uomo per se stesso.
Nel primo Ottocento a Padova si laurearono il capodistriano Francesco Combi, l’isolano Pasquale Besenghi degli Ughi, che studiò giurisprudenza ma è conosciuto per essere il maggiore poeta del suo secolo. Il piranese Vincenzo de Castro in quell’ateneo era professore di estetica e letteratura classica, qui giunse anche il figlioccio Carlo Combi; per le Un altro isolano, Attilio Degrassi, insigne storico antichista ed epigrafista, si formò a Vienna, ebbe una carriera impostante; nel 1949 vinse la cattedra di storia greca e romana all’Università di Palermo, ma scelse Padova, dove si era liberata la stessa cattedra, e nel 1956 si trasferì a Ftoma. Queste note sparse sono la testimonianza più schietta della presenza reale di una componente, che ha prodotto cultura, si è adoperata a formare i propri giovani e ha dato vita a una fitta rete di relazioni. Mai dimenticando l’amore per la lingua e la cultura italiana. D’altronde il contributo della piccola penisola e di Capodistria in particolare, l’“Atene dell’Istria”, allo sviluppo civile in senso lato del Bel Paese e non solo è stato considerevole nel corso dei secoli, per quanto oggi, e da più parti, si tenda a misconoscerlo.
Con la lodevole iniziativa dedicata a Giuseppe Tartini, possiamo dire, con larga soddisfazione, di aver ricordato una gloria istriana, italiana, europea “ante litteram? evidenziando, ancora una volta, la concreta potenza della cultura, vettore straordinario che unisce le persone, getta ponti e crea legami. Conosciamo le lezioni del passato, perciò riprendiamo a ripercorrere gli antichi sentieri e le rotte già segnate. Ne trarremo grande beneficio. Tutti!
Testo presentato il 15 febbraio 2014 nella chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Padova durante la cerimonia d’inaugurazione del busto dedicato al violinista piranese, intitolata “Giuseppe Tartini e i secolari legami culturali tra l’Istria e Padova”.