Istria e Dalmazia: una storia, troppi silenzi

Scritto da Giuseppe Parlato
C’è una tendenza, in particolare in Italia, a lamentare carenze e oblii in merito ai libri di testo di storia, dimenticando che, salvo rare eccezioni, in queste pubblicazioni prevale la riproposizione di tesi già consolidate. Istria Quarnero Dalmazia. Storia di una regione contesa dal 1796 al Ventesimo secolo, scritto da Marco Cuzzi, Guido Rumici e Roberto Spazzali e pubblicato dalla Leg-Libreria Editrice Goriziana, si qualifica, di fatto, anche come strumento didattico, costruito su un robusto apparato di ricerca fondato sulla consultazione di diversi archivi in Italia e oltre confine. L’obiettivo che gli autori si sono posti è stato quello di esaminare la complessità di una storia regionale priva di elementi di unitarietà, se non quelli propri di un territorio che è appartenuto a Stati diversi, che si sono succeduti nel corso di due secoli, in molti casi Stati scomparsi; un territorio, inoltre, che è stato a lungo diviso e conteso, per decenni al centro di spinte internazionali e interessi locali, di conflitti localizzati e di due guerre mondiali. Da Istria Quarnero Dalmazia. Storia di una regione contesa dal 1796 al Ventesimo secolo di Marco Cuzzi, Guido Rumici e Roberto Spazzali pubblichiamo l’introduzione di Giuseppe Parlato, per gentile concessione della Leg-Libreria Editrice Goriziana.
La storiografia sulla questione istriana e, più in generale, sulla questione orientale, si è arricchita di numerose opere negli ultimi anni. Segno, questo, che l’attenzione si sta spostando finalmente su questi temi dopo anni di oblio e di silenzio. In realtà, tra gli storici triestini e giuliani questo problema è sempre stato il problema della nostra storia moderna e contemporanea: non da adesso, realtà istituzionali come le associazioni degli Esuli, o centri della cultura giuliana, istriana, fiumana e dalmata hanno deciso di puntare sull’analisi storica ritenendo, giustamente, che soltanto un serio approfondimento delle ragioni che hanno prodotto le tragedie di cui queste terre sono state inconsapevoli protagoniste avrebbe potuto determinare condizioni di convivenza più accettabili e, soprattutto, avvicinarsi a una verità che si sentiva lontana ed estranea. Il problema, in questo lunghissimo dopoguerra, è stato duplice. Da un lato, la storiografia ha inevitabilmente (ma forse anche più del dovuto) risentito delle necessità e dei condizionamenti della politica e dell’ideologia: per carità di patria omettiamo di ricordare quanti fino agli anni Settanta e Ottanta hanno sostenuto con convinta sicurezza che le foibe erano solo il frutto malato di un nazionalismo becero e che l’Esodo era niente di più che una irritante reazione a sfondo parafascista di chi si ostinava a non considerare il nuovo assetto dell’Adriatico orientale come il migliore possibile, dimenticando colpevolmente di notare che le autorità di Belgrado consideravano fascisti non solo quelli che se n’erano andati ma anche quelli che erano rimasti. Per un altro verso, la ricerca storiografica fu condizionata anche dalla linea seguita dalle autorità politiche di Roma – e, in particolare, dalla classe dirigente democristiana – che aiutarono gli Esuli dal punto di vista dell’inserimento (faticoso e talvolta umiliante) nella società italiana, a condizione che tale questione rimanesse circoscritta nei confini locali, che non diventasse cioè un problema strettamente connesso con la definizione dell’identità nazionale nel secondo dopoguerra. Aiuti in cambio di silenzio, in modo tale che le responsabilità, le leggerezze, i trasformismi di una classe politica superficiale non diventassero un motivo di riflessione in merito a quanto era accaduto. Si è sostenuto che comunisti e democristiani, portatori di ideologie internazionaliste o di un pensiero sociale ecumenico, siano stati poco sensibili al dato nazionale, in particolare per quel che riguarda la frontiera orientale; ma si pensi, solo per fare un significativo esempio, alle raccomandazioni del giornale del Partito d’Azione (tra l’altro, un partito di stretta derivazione risorgimentale) affinché nel 1945 della Venezia Giulia si parlasse il meno possibile per non dare spazio a nazionalisti e a reazionari (E. Reale, Ricordi opportuni, in «Italia libera», 13 giugno 1945). La caduta del Muro di Berlino e la fine dei socialismi reali hanno
contribuito in qualche modo a liberalizzare – su questo come su altri temi – la storiografia e a rendere gli storici meno succubi di ordini di scuderia. Inoltre, in Italia, la fine dei partiti della prima repubblica ha permesso di analizzare con maggiore serenità la questione, e i risultati non sono mancati, sia a livello storiografico, sia a livello politico: se prima le divisioni della storiografia erano radicali e nette, da un ventennio a questa parte il clima è più sereno e, sebbene vi siano ancora, come è assolutamente naturale e necessario, visioni e interpretazioni differenti, il dialogo tra le culture politiche e tra le scuole storiografiche su questo tema è più costruttivo e convincente.
L’opera che qui si presenta ha almeno tre motivi per essere segnalata come il più completo lavoro sulla storia dell’Istria dalla fine del Settecento. In primo luogo è da sottolineare la scansione temporale. Appare assolutamente positiva la scelta, ben motivata dagli Autori (Marco Cuzzi, Guido Rumici e Roberto Spazzali) nella densa introduzione, di iniziare formalmente il racconto con la fine della Serenissima, ma sostanzialmente con le conseguenze della Pace di Madrid, onde consentire una narrazione di lungo periodo in grado di chiarire meglio la nascita della storia moderna istriana. Infatti uno dei difetti della moderna storiografia è quello di avere un po’ perso il gusto per le ricostruzioni di largo respiro e di lungo periodo, in favore di analisi sempre più settoriali e parcellizzate. Inoltre, proprio la storia istriana – e più in generale la vicenda della cosiddetta «questione giuliana» – sono state spesso affrontate come se i problemi fossero iniziati nel 1943 o, al massimo, nel 1919, con il reale rischio di una interpretazione carente o addirittura fuorviante. In secondo luogo, questo volume rappresenta una riuscita sintesi tra due esigenze: si tratta di un’opera di ricerca che non dimentica le necessità della didattica e contemporaneamente si qualifica come strumento didattico che tuttavia è stato costruito su un robusto apparato di ricerca fondato sulla consultazione di diversi archivi in Italia e oltre confine. Le due esigenze, infatti, vanno di pari passo. Quando ci si lamenta, in Italia, di certe carenze o di certi oblii sui libri di testo di storia, si dimentica che, salvo rare eccezioni, i libri di testo di storia tendono a ripetere tesi già consolidate e le innovazioni che la ricerca riporta alla comunità degli studiosi raramente vengono recepite tempestivamente dai manuali. In questo caso non si tratta di una pubblicazione manualistica, ma nondimeno la presenza di elementi funzionali alla didattica (si pensi agli apparati cronologici o alle “finestre” che riportano in termini specifici l’analisi monografica di un problema) risulta di notevole utilità. In terzo luogo, questa opera induce a una considerazione più generale. Il ruolo delle organizzazioni in qualche modo legate all’Esodo e alla memoria delle vicende delle Seconda Guerra Mondiale è, a quasi sessantacinque anni dagli avvenimenti, a un giro di boa. Lo scarto generazionale è forte e appare quasi miracolosa la “tenuta” delle organizzazioni degli Esuli e di quelle dedicate alla memoria dell’italianità delle terre perdute con il Trattato di pace, a Trieste come altrove. La scelta di convergere coraggiosamente e prioritariamente su iniziative di taglio culturale, su programmi che prevedono la ricerca e l’alta divulgazione, se ieri ha costituito merito e vanto per quelle istituzioni che a questa strategia si votarono, oggi diventa indispensabile. L’apertura alla cultura determina l’apertura al dialogo e al confronto sereno delle posizioni. Ciò è però possibile soltanto se si producono riflessioni di alto livello in grado di portare effettivi contributi alla conoscenza dei fatti e se non si ha timore di raccontarli nella loro complessità e nella loro completezza. In questo senso, questo volume costituisce non solo un indispensabile contributo alla maggiore conoscenza delle vicende storiche relative all’Istria ma anche un ulteriore momento di riflessione sul ruolo che le istituzioni che raccolgono le memorie dell’Esodo possono svolgere nel nuovo contesto europeo.
Fonte: «Il Piccolo», 22/07/09.