“Non conoscevo nessuno in tutto il Paese che, come lui, fosse ritenuto tanto un privilegiato quanto un perseguitato. Capitava che questi due epiteti gli venissero affibbiati in una stessa conversazione di dopocena e talora dallo stesso interlocutore. Tutti concordavano comunque nel dire che i suoi rapporti con il potere statale avevano del misterioso. Si parlava di critiche, persino di pesanti accuse formulate nei suoi confronti, di quelle che possono spezzare la vita di un uomo, ma, con l’eccezione di un solo plenum, tutto ciò che lo concerneva aveva sempre avuto luogo a porte chiuse. Poi, mentre ci si aspettava la sua caduta in disgrazia (“Adesso tocca lui” o “Non possono fargli niente” erano altri argomenti prediletti delle conversazioni di fine serata), il suo volto ricompariva all’improvviso su qualche palco, esibendo la stessa inalterabile cupezza. Qual era stato il prezzo di quella immunità”.
Con queste parole, tratte dal suo romanzo La figlia di Agamennone (scritto a Tirana tra il 1984 e il 1986 in piena dittatura comunista e pubblicato venti anni dopo), Ismail Kadare, figura centrale della letteratura albanese, venuto a mancare lo scorso primo di luglio, dipinge il ritratto di un celebre pittore immerso in un’Albania comunista, paranoica e arbitraria. La descrizione che emerge da queste parole si rivela però calzante per lo stesso Kadare, che si è trovato nel corso della sua vita più volte al centro di controversie e polemiche. […]
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