Scritto da Lucio Toth
Dopo quasi mezzo secolo di soggezione ungherese (1358 – 1409) Zara capitale della Dalmazia entra definitivamente nello Stato veneziano, per un accordo intervenuto a Venezia il 9 luglio 1409 tra Ladislao d’Angiò, re d’Ungheria e di Napoli, e la Serenissima, con il quale il re cedeva ogni diritto sul vasto contado di Zara (da Pago ad Aurana) e sull’intera Dalmazia per 100.000 ducati. Seguì la rivolta di Zara contro napoletani e ungheresi per questo oltraggio alla dignità cittadina e la immediata “dedizione” del comune, con solenne voto unanime del Maggior Consiglio, alla Repubblica di S. Marco. Non era la prima dedizione di Zara alla sua maggiore rivale adriatica; ma fu l’ultima perché da allora la capitale della Dalmazia divenne una delle città “fedelissime” della Repubblica. Immediata fu infatti da parte di Venezia la concessione a tutti gli zaratini della piena cittadinanza veneziana.
Fino al 1797 la più grande festa cittadina sarà la celebrazione della “Santa Intrada” dei messi dogali, il 31 luglio di ogni anno, con le invocazioni popolari a San Marco (“Al nome del santissimo et glorioso eterno Dio et de la sua Madre Vergine Maria…et del bon stado dela nostra Illustrissima Ducal Signoria de Venexia che Dio la salva et mantenga usque ad finem mundi. Amen. Et viva san Marcho… etc”).
In quel torno di anni avvengono le dedizioni a Venezia degli altri comuni dalmati, ad eccezione di Ragusa. E così da Arbe a Cattaro si estenderà il dominio della Serenissima. Furono rispettate le autonomie cittadine, con l’intero ordinamento comunale, così come elaborato nei secoli precedenti. Ma l’indipendenza politica era ormai perduta. Un conte nominato da Venezia ricopriva la massima carica cittadina.
Il processo si compie nel 1420 con l’accettazione da parte del Maggior Consiglio della dedizione di Cattaro, che l’aveva rinnovata per ben sei volte.
Da questo momento la Dalmazia – tranne Ragusa, come si è detto – seguirà le sorti dello Stato veneziano in pace e in guerra, fornendo alla Repubblica i suoi dirigenti (molte famiglie dalmate patrizie verranno iscritte nel Libro d’oro e si trasferiranno addirittura a Venezia), il suo naviglio, militare e mercantile, le milizie più valorose, per terra e per mare.
Discordi sono nella storiografia croata e in quella iugoslava i giudizi sul lungo periodo del dominio veneto. C’è chi ha ritenuto, specie negli anni del regime comunista, che si sia trattato di una amministrazione di rapina, che ha privato la regione delle sue risorse a esclusivo vantaggio della capitale veneta e della sua classe dirigente, a cominciare dalla distruzione dei boschi per la costruzione delle navi e per le palafitte di Rialto e di Dorsoduro a finire con le leve militari. E il patriziato dalmato, i suoi mercanti e in genere gli italiani delle città, si sarebbero fatti complici di questa politica di spoliazione.
E’ stata questa del resto una tesi assai diffusa nella storiografia europea anche a proposito di altri cosiddetti “domini coloniali”: quelli genovese e francese in Corsica; quelli pisano, genovese, aragonese e sabaudo in Sardegna; quello spagnolo in Sicilia e nel Mezzogiorno italiano; lo stesso dominio veneziano in Grecia e in Albania. Le accuse ricorrenti sono più o meno sempre le stesse. Si inseriscono in visioni ideologiche, tra nazionaliste e classiste, che si rivelano sempre più datate.
Ma ci sono anche riletture della storia dalmata da parte croata e iugoslava che riconoscono i benefici della lunga amministrazione veneziana. Primo fra tutti l’aver difeso la costa orientale adriatica dall’invasione ottomana ed aver fatto quindi della Dalmazia, dell’Albania veneta e delle isole greche tenute dalla Serenissima (ultime le Sette Isole Ionie) l’antemurale della cultura europea occidentale. E questo per molti secoli, prima che sorgesse la potenza militare dell’impero austriaco degli Asburgo.
Ma un merito tutto locale viene riconosciuto nell’aver conservato sulla costa dalmata i modi e le forme della civiltà europea, in periodi in cui tutto l’entroterra balcanico e danubiano, Croazia compresa, era stato sottoposto ad una cultura, come quella ottomana, indubbiamente asiatica ed estranea alla tradizione occidentale. Questa funzione è tornata di beneficio a tutta l’area balcanica, non avendo consentito che si disfacessero i legami culturali e religiosi di quelle nazioni con il mondo occidentale cristiano, alterandone irrimediabilmente la fisionomia.
Questo riconoscimento può valere per la Croazia, come per la Serbia e il Montenegro e per la stessa Grecia, che trovò alla fine del Settecento e ai primi dell’Ottocento l’impulso culturale del suo ritorno all’indipendenza e all’europeità proprio nelle classi dirigenti delle Isole Ionie, profondamente legate a Venezia e alla cultura occidentale.
Per gli italiani della Dalmazia è naturale che il giudizio sul lungo periodo veneziano – iniziato nel 1000 come area di influenza e consolidatosi politicamente nei primi anni del Quattrocento, con quattro secoli ininterrotti di vita comune, nel momento storico decisivo in cui si modellava l’Europa moderna – non può essere che positivo. Anzi va riconosciuto che per i dalmati italiani Venezia rimase un mito indistruttibile. Ancora negli anni Quaranta del Novecento ai bambini di Zara veniva insegnata l’antica barcarola che diceva: “Oh Venezia, sii benedetta. La regina, la regina sei del mar…”
L’unica cosa che i dalmati italiani non sono disposti a riconoscere alla Serenissima è di aver portato l’italianità in Dalmazia. Perché – come si è visto – essa aveva origini ben più lontane, nella sua ininterrotta tradizione latina.
Ma l’attaccamento alla Repubblica di San Marco riguardava non solo gli italiani della Dalmazia, ma anche croati, morlacchi e albanesi. Questo attaccamento si manifestò costantemente in tutte le grandi prove che Venezia dovette affrontare tra il XV e il XVIII secolo.
Il 29 maggio del 1453 Costantinopoli, dopo due mesi di assedio, veniva conquistata da Maometto II. Partecipavano alla difesa della città milizie e navi veneziane e genovesi, queste ultime agli ordini di Giovanni Giustiniani, che restava ferito a morte mentre combatteva a fianco dell’imperatore Costantino XI Paleologo. Poche ore dopo anche questi rimaneva ucciso sugli spalti della sua capitale. L’Impero Romano di Oriente cessava di esistere dopo oltre un millennio di vita e Bisanzio diventava la sede dell’Impero ottomano.
La notizia fece enorme impressione in tutta l’Europa. Mosca si considerò erede della porpora imperiale e dell’ortodossia della Chiesa orientale e si attribuì il titolo di Terza Roma. In pochi anni quasi tutta la penisola balcanica cadeva in mani turche. Il regno dei Serbi, che Stefano Dusan aveva portato al massimo splendore, aveva cessato di esistere nel 1383 dopo la sfortunata battaglia di Kossovopolje. Anche il regno dei Bulgari era stato spazzato via nel 1393. Atene veniva occupata nel 1456 e il Partenone si trasformava in moschea; la Morea nel 1460. Tra il 1463 e il 1482 era la volta della Bosnia, dell’Albania e dell’Erzegovina.
Le ostilità in Dalmazia ebbero inizio nel 1468 con le prime incursioni e devastazioni nei contadi di Spalato, Sebenico e Zara. Seguirono oltre due secoli di battaglie e scorrerie.
Zara subì due lunghi e duri assedi: nel 1499 e nel 1571. Entrambi furono respinti con la vittoria delle armi cristiane. A quest’ultimo è legato l’episodio leggendario del giovinetto Cattich, della famiglia nobile dei capitani del Borgo, che con una fionda ferì il capo di una masnada turca che si era aperto una breccia nelle mura, consentendo così di respingere l’assalto. Anche Curzola fu assediata nello stesso anno 1571. Più assedi subì Sebenico.
Decisive, per alleggerire la pressione sulle frontiere dalmate, furono le giornate di Lepanto del 6-7 ottobre 1571. Ad esse partecipavano 214 navi da battaglia delle marine europee, agli ordini di Giovanni d’Austria. Sei galeoni e 105 galere erano veneziane, guidate da Sebastiano Venier. Sette di queste erano direttamente armate dalle città dalmate, con i loro equipaggi. Le altre navi erano spagnole, genovesi, pontificie, medicee, sabaude, maltesi. Gli equipaggi e gli armati sulle tolde erano prevalentemente italiani, sia tra quelli della flotta veneta, che delle altre flotte, essendo i reparti di alabardieri e di fanti di marina imbarcati sulle navi spagnole arruolati in gran parte nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna. Sulle galee venete combattevano ovviamente, ufficiali e comandanti compresi, gli altri sudditi della Serenissima: greci, slavi e albanesi.