“Nazionalizzazione e amministrazione tra le due Guerre. Il Ministero per le Terre Liberate tra tensioni politiche e crisi istituzionali” a cura di Davide Rossi e Davide Lo Presti
Prof. Davide Rossi, Lei ha curato con Davide Lo Presti l’edizione del libro Nazionalizzazione e amministrazione tra le due Guerre. Il Ministero per le Terre Liberate tra tensioni politiche e crisi istituzionali pubblicato da FrancoAngeli: quando nacque e che funzioni svolgeva il Ministero per le Terre Liberate dal Nemico?
Il Ministero per le Terre Liberate dal Nemico nacque pochi mesi dopo la fine della Prima guerra mondiale con il Regio Decreto n. 41 del 19 gennaio 1919. Si trattava di un provvedimento che si poneva in continuità con il ruolo interventista che lo Stato italiano aveva assunto nel corso del conflitto e contribuiva all’espansione dell’apparato burocratico di Governo che invece Giolitti aveva nell’anteguerra impostato in maniera fin troppo snella. Primo ambito d’azione del nuovo dicastero, che aveva reclutato personale comandato presso altri Ministeri, militari e liberi professionisti con contratti di collaborazione a tempo determinato, fu la bonifica delle province perse dopo la ritirata di Caporetto. Abbandonati dai legittimi proprietari fuggiti al seguito del Regio Esercito, trascurati dalle autorità di occupazione austro-ungariche ed attraversati da combattimenti, trincee e campi minati, i terreni del Veneto orientale e del Friuli versavano nell’abbandono e nell’incuria. Per non parlare delle infrastrutture idriche, sovente manomesse allo scopo di realizzare aree acquitrinose atte a rallentare la manovra delle truppe nemiche. In seguito alla firma del Trattato di Pace di Saint Germain con l’Austria veniva definito in maniera internazionalmente riconosciuta il nuovo confine settentrionale italiano, con le annessioni del Trentino, dell’Alto Adige ed alcune rettifiche in Carnia e nel Tarvisiano. Si trattava di zone in cui l’impatto del conflitto era stato meno grave per i beni immobili e per i residenti, tuttavia l’apparato ministeriale doveva presiedere al rientro degli irredentisti e regnicoli esfiltrati in Italia prima dello scoppio delle ostilità, al reinserimento dei trentini italofoni che erano stati evacuati nei campi di internamento allestiti dalle autorità asburgiche lontano dal fronte, al controllo dei reduci dell’imperial-regio esercito e degli ex prigionieri di guerra, ma soprattutto al confronto con la componente etnica tedesca predominante nel Tirolo meridionale. Analoghe ma più accentuate problematiche si sarebbero riproposte con riferimento al confine orientale allorché il Trattato di Rapallo avrebbe accordato Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni lungo la displuviale delle Alpi Giulie. Le 12 battaglie dell’Isonzo avevano stravolto il Friuli orientale, il retroterra delle città costiere abitate in prevalenza da italiani presentava invece concentrazioni di sloveni e di croati che avevano vissuto una forte contrapposizione nazionale con gli irredentisti ed avevano fornito le truppe per i reggimenti maggiormente lealisti nei confronti degli Asburgo. In una situazione così articolata caddero nel vuoto le richieste di Francesco Salata, figura nodale e punto di riferimento dell’Ufficio Centrale per le Nuove Province, affinché venissero confermate le autonomie di cui godevano questi territori durante la dominazione asburgica: il Ministero intese operare nel solco del tradizionale accentramento uniformatore sabaudo. Gli imperi multinazionali erano scomparsi, lo Stato nazionale era uscito vittorioso e dettava legge, a costo di creare malumori e contrapposizioni che avrebbero covato negli anni seguenti, destando focolai separatisti.
Quali ragioni spinsero alla creazione del Ministero?
Al nuovo Ministero era assegnata l’alta direzione e il coordinamento dell’opera di tutte le pubbliche amministrazioni per quanto concerne la ricostruzione della ricchezza nazionale e della piena efficienza produttiva dei territori già invasi dal nemico o costituenti zona delle operazioni militari. Contestualmente alla sua istituzione veniva soppresso l’Alto commissariato per i profughi di guerra, le cui attribuzioni furono devolute proprio al Ministero di nuova istituzione. Godette di un bilancio proprio, a conferma che non si trattava di un organo senza portafoglio, bensì di una parte integrante della compagine statale. Le funzioni attribuite originariamente furono poi ampliate sia dal punto di vista della tipologia che dell’area geografica di riferimento: i compiti sino ad allora assegnati – fra cui in particolare quelli sul risarcimento dei danni di guerra, sulla ricostruzione e sulla riparazione delle opere d’interesse pubblico e sull’organizzazione dei relativi servizi – furono estesi ai territori delle Nuove Province del Regno. Questo nuovo dicastero operò poco più di quattro anni, ma vi si avvicendarono 8 titolari, sia per effetto dell’instabilità di governo del periodo 1919-1923, sia perché i risultati non sempre erano all’altezza delle aspettative. Il primo titolare fu Antonio Fradeletto, il quale non fu particolarmente brillante nell’avviare la macchina amministrativa; vennero quindi l’ingegnere Cesare Nava, Giovanni Raineri, Alberto La Pegna, nuovamente Raineri, il Presidente del Consiglio Luigi Facta ad interim, Maggiorino Ferraris, Vito Luciani e Giovanni Giuriati.
In quale contesto si trovò ad operare il Ministero per le Terre Liberate?
Essenziale per la buona riuscita dei propositi interventisti dello Stato italiano in un ambito nuovo ed inesplorato fu il fiancheggiamento dell’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie, il quale sorse per decreto legge luogotenenziale n. 497 del 24 marzo 1919 e, di fatto, operava in maniera alquanto autonoma, andando a recepire istanze e proposte di collaborazione che giungevano dai territori interessati: seppe rapportarsi in maniera autorevole con l’amministrazione pubblica e lavorò in maniera rapida ed efficace a diretto contatto con quei contadini, imprenditori ed allevatori che intendevano rimettere a pieno regime le proprie attività produttive. Il Parlamento, sostanzialmente esautorato negli anni di guerra ed ora invece ben presidiato dai neoeletti rappresentanti dei partiti di massa (Popolare e Socialista usciti sostanzialmente vincitori dalle urne nel novembre 1919), invocava una maggiore partecipazione al processo decisionale e poteri ispettivi nei confronti dell’operato del Ministero delle Terre Liberate, che in alcune circostanze fu al centro di indagini per corruzione ed uso inadeguato del patrimonio pubblico che doveva amministrare. La ricostruzione ed il risarcimento dei danni di guerra rappresentavano lo scopo principale dell’azione ministeriale, ma al di là degli interventi infrastrutturali e finanziari, si trattò di un apparato necessario per uniformare al resto d’Italia le nuove acquisizioni territoriali, senza – purtroppo – tenere in considerazione le specificità locali: anche se la sede operativa era stata localizzata a Treviso, il personale dirigenziale non era autoctono e lavorava secondo una prassi di tipo top-down. Il primo governo Mussolini avrebbe chiuso il Ministero affidandone la liquidazione al nazionalista veneziano Giuriati, già fervente interventista e braccio destro di Gabriele d’Annunzio durante i primi mesi della spedizione a Fiume.
Quali scandali e polemiche ne animarono l’esistenza?
I continui mutamenti di direzione non agevolarono l’azione ministeriale, inficiata pure dalla penuria di mezzi materiali e normativi e velata nella sua trasparenza da illeciti amministrativi compiuti da alcuni funzionari – come il capo di divisione Antonio Crispo, già direttore generale presso il Ministero dei Lavori Pubblici accusato di complicità in peculato – che avrebbero costituito oggetto di un’inchiesta parlamentare sulle gestioni per l’assistenza alle popolazioni e per la ricostituzione delle terre liberate e redente, nonché di un’indagine giudiziaria. L’avvio di tale inchiesta parlamentare traeva origine dalle proposte avanzate da alcuni parlamentari repubblicani e socialisti veneti, destinate a suscitare un dibattito in cui i temi e i problemi del dopoguerra della regione si intrecciavano con quelli legati alle aspettative autonomistiche e anticentralistiche, che si andavano sempre più diffondendo e che erano state manifestate alla Camera da Giovanni Cosattini nel giugno del 1920, durante la presentazione di un ordine del giorno volto all’accertamento delle responsabilità politiche per quella gestione. Nel corso del dibattito in aula si affermava la volontà di dare voce anche ai sospetti sull’operato delle pubbliche amministrazioni in altre zone devastate dalla guerra, già in precedenza oggetto di accertamenti amministrativi, e fu deciso, in conseguenza della proposta della commissione delegata all’esame del disegno di legge, di estendere l’ambito a tutte le «terre devastate dalla guerra direttamente o indirettamente», nonché a quelle redente. I lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta avvennero tra grandi difficoltà e furono condizionati dalle ristrettezze finanziarie in cui si dibatteva all’indomani della fine del conflitto lo Stato italiano e anche dalle speculazioni attuate dai «pescecani di guerra», capaci di lucrare sull’assistenza e sui rimpatri dei profughi nonché sulle stesse commesse per la ricostruzione, fornendo materiali scadenti, gonfiando i prezzi, erogando sussidi indebiti. L’inchiesta, al di là degli effettivi risultati raggiunti, rappresentò un tentativo di risposta alla crisi e alla trasformazione dello Stato liberale a cui, di là a non molto, il fascismo avrebbe dato un’impronta del tutto diversa. In questo senso l’esperienza del Ministero appare paradigmatica: dapprima sorge come un tentativo di gestione accentrata di scelte amministrative, quindi si trasforma in un centro di spesa per finanziamenti che avevano il preciso intento di far ripartire un’economia totalmente modificata da quella di inizio XX secolo, infine non mancheranno gli scandali associati alla mala gestio dei soldi pubblici, con annessa feroce propaganda politica denigratoria. Un cliché comportamentale che non suona affatto nuovo alle nostre orecchie e che pare anticipare ed evocare molte successive esperienze dell’Italia monarchica, prima, e repubblicana, poi, fino a plasmarsi nella quotidianità post pandemica che stiamo attualmente vivendo.
Che ruolo svolse la figura di Cesare Nava quale Ministro per le Terre Liberate dal Nemico?
L’ingegnere milanese Cesare Nava, il quale rimase in carica dal 23 giugno 1919 al 13 marzo 1920, proveniva da quei settori dell’associazionismo cattolico che avevano fatto pressioni affinché decadesse il non expedit: Una volta sceso nell’agone politico, fu eletto alla Camera nel 1909 e nel 1913, per poi assumere posizioni talmente moderate all’interno del Partito Popolare Italiano che finì per aderire al fascismo. Nel suo incarico al Ministero delle Terre Liberate mise altresì a frutto l’esperienza maturata nei primi anni del secolo, allorché fu impegnato nella ricostruzione di Catanzaro e di Messina devastate dai terremoti. Nella fase finale della Grande guerra ebbe modo di maturare un’esperienza ministeriale in guisa di sottosegretario prima e di commissario generale alle armi e munizioni in seguito. Trovatosi sovente a fronteggiare pesanti critiche in aula, Nava espose in maniera sempre minuziosa e dettagliata problematiche, costi e stato avanzamento dei lavori pianificati, segnalando altresì come nel contesto francese la situazione dei profughi e delle regioni in cui si era combattuto appariva ben peggiore, l’approvvigionamento delle materie prime era difficoltoso e costoso. Il Ministero cercava di erogare anticipi generosi sui rimborsi e finanziamenti, si adoperava per far lavorare imprese e cooperative locali e le aree di intervento richiedevano ulteriori attenzioni, in quanto il degrado ambientale aveva generato focolai di malaria. La commissione d’inchiesta riconobbe a Nava «ineccepibile rettitudine politica ed amministrativa» nonché la grandiosità delle opere compiute, ma gli contestò che non fu in grado di mettere mano al disordine amministrativo che caratterizzò l’operato del Ministero e dette adito ad operazioni illecite da parte di terzi.
Davide Rossi insegna Storia e Tecnica delle Codificazioni e Costituzioni Europee all’Università degli Studi di Trieste. Ha curato, più di recente, La città di vita cento anni dopo. Fiume, D’Annunzio e il lungo Novecento Adriatico (Cedam-Wolters Kluver).
Davide Lo Presti, avvocato e dottore di ricerca in Diritto ed Economia dell’Impresa Discipline Interne ed Internazionali, è autore di vari scritti relativi all’Alto Adriatico, tra cui la curatela (con Davide Rossi), per Cedam-Wolters Kluver, di Quarant’anni da Osimo.
Fonte: Letture