Il grande arcipelago dell’orrore

Scritto da Alessandro Mezzena Lona, «Il Piccolo», 22/07/12
domenica 22 luglio 2012

Quando il “giaguaro” Vidali tramava contro il Maresciallo Gli amici di Mosca, i fedeli al comunismo sovietico, provarono a fare fuori Tito. Appoggiandosi a uno dei personaggi più carismatici e controversi del Pci triestino. Quel Vittorio Vidali, detto “il giaguaro”, che dopo la guerra di Spagna, sospettato di avere organizzato l’assassinio di Lev Trotsky, progettò un attentato contro il Maresciallo nel settembre del 1949. In pratica vennero sistemate delle mine sulle rotaie del tratto ferroviario Divaccia-Pola. Ma quando di lì passò il treno di Tito, il generale che comandava gli agenti della sicurezza militare venne informato da un pastore di movimenti sospetti attorno alla ferrovia. Le mine c’erano davvero, Tito si salvò proseguendo il viaggio in automobile.

Erano comunisti, di quelli veri. E si illudevano che la Jugoslavia di Tito fosse uno dei paradisi socialisti che avevano sognato a lungo. Governati dalla giustizia, dalla solidarietà, dal rispetto verso gli altri. A risvegliarli fu l’incubo di Goli Otok. L’inferno di roccia e arbusti piazzato lì, nella corrente del Mare Adriatico, di fronte alla meraviglia dell’isola di Arbe. Uno dei campi di concentramento più disumani e feroci che la mente di qualche aguzzino abbia mai potuto immaginare. Erano comunisti, certo, ma stavano dalla parte sbagliata. Loro credevano nel Cominform, nell’Unione Sovietica del piccolo padre Stalin. In quel Verbo internazionalista che nel novembre del 1949 spedì all’indirizzo di Tito e della Jugoslavia una scomunica senza appello. Trattando l’eroe della Resistenza e la sua “banda” da «spie e assassini» che, secondo Mosca, non avevano disdegnato complicità con la Gestapo. Additando la via balcanica al socialismo come il più clamoroso esempio di deviazionismo. Così, davanti a quei comunisti “cominformisti” si aprì il baratro delle condanne senza processo. La via verso l’Isola Calva, da cui moltissimi non fecero ritorno. Il calvario del Gulag in mezzo al mare che Giacomo Scotti racconta nel suo nuovo libro, pubblicato da Lint Editoriale di Trieste (pagg. 337, euro 18).

E che, come sottolinea Predrag Matvejevic nella sua bella prefazione “Un libro, un autore”, non è semplicemente una riedizione aggiornata e arricchita del suo primo saggio, “Ritorno all’Isola Calva” del 1991. In cui, per la prima volta, lo scrittore nato vicino a Napoli, che vive tra Fiume e Trieste, stracciava il fittissimo velo di silenzio che aveva coperto gli orrori del gulag titoista. No, questa volta Scotti ha voluto scavare ancora più in profondità. Andando a raccogliere le testimonianze di chi, per lunghi anni, ha scelto la via del silenzio. Scandagliando i pochi libri autobiografici scritti da chi dall’inferno era riuscito a tornare. Mettendo assieme una mappa precisissima di quello che è stato, appunto, il gulag in mezzo al mare. Perché oltre a Goli Otok, vennero trasaformati in lager altri posti come l’isola di Sveti Grgur (San Gregorio), Ugljan (nei pressi di Zara), Sremska Mitrovica in Serbia, Stara Gradiška e Nova Gradiška in Croazia, oltre a Bilea, in Erzegovina. «Un variegato arcipelago di terra e mare – scrive Matvejevic – nel quale si consumò per circa un decennio uno dei crimini più orrendi contro l’uomo: la sua distruzione fisica e morale, la sua trasformazione da uomo libero in schiavo». Ed è proprio in questo che il gulag jugoslavo si è differenziato dai lager nazisti, ma anche dai campi sovietici. Perché per ordine di Tito, e dei suoi strettissimi collaboratori, a Goli Otok si creò una terribile macchina per l’annientamento psicologico, prima ancora che fisico, di chi non era allineato con le idee del Partito. I comunisti che arrivavano sull’Isola Calva trovavano ad accoglierli uomini addestrati a fare di loro delle marionette. Veri e propri criminali, persone addestrate a picchiare, a estirpare da quei dissidenti le loro idee “cominformiste”.

Le cifre non contano. C’è chi parla di 60 mila, chi di 16 mila comunisti torturati nei gulag jugoslavi. Uomini e donne. Anche intellettuali come Ligio Zanini, l’autore del Martin Muma, e il poeta Ante Zemljar. Quel che ancora oggi lascia senza parole è il racconto delle torture bestiali inflitte ai prigionieri. Di cui nessuno aveva il coraggio di parlare. Nemmeno chi, sopravvissuto, ritornava prima o poi a casa. Storie che hanno trovato eco nei libri di Gianpaolo Pansa, in Anima Mundi di Susanna Tamaro, in Alla cieca di Claudio Magris, in un racconto di Federica Manzon pubblicato l’anno scorso dal «Piccolo». Molti tra i prigionieri erano italiani. Qualcuno si era trasferito in Jugoslavia da Monfalcone, dal Friuli, per partecipare alla realizzazione del progetto jugoslavo. A Goli Otok venivano accolti dagli altri prigionieri, schierati in doppia fila, che li massacravano di botte. A quell’accoglienza bestiale seguiva la fame, la sete, le umiliazioni, l’assalto delle piattole. Una “cura” così estrema doveva servire a riportarli alla ragione, a ripudiare le loro idee. A dimenticare il sogno comunista, trasformandolo in incubo.