Scritto da Gigi Riva, «Il Piccolo», 30/04/14
mercoledì 30 aprile 2014
Destino vuole che la Slovenia arrivi all’anniversario tondo (dieci anni) dell’ingresso in Europa all’alba di una crisi politica che può sfociare in caduta del governo: incerti della democrazia. E nel mezzo di una crisi economica devastante per i cittadini: incerti del libero mercato. Benché non se la passino bene, la democrazia e il libero mercato, e nonostante la fiducia nella Ue non superi il 40 per cento, stando ai sondaggi, i vicini più prossimi del confine orientale possono misurare le loro fortune per paragone con altri popoli, un tempo affratellati sotto la stessa bandiera jugoslava, per i quali la democrazia è un’ipotesi, il libero mercato una giunga senza paracadute e l’Europa un sogno. Così come lo è, ad altre latitudini, per gli ucraini.
Siamo portati, noi umani, a considerare ovvio l’acquisito e un dramma ogni mancanza. Nel guado di un fiume misuriamo i passi che mancano all’approdo e non quelli percorsi dalla riva di partenza. Sulle pendici del monte Sabotino è ricomparsa la scritta “Tito”. Più che ideologia, pare nostalgia fuori tempo massimo per protezioni sociali insostenibili, oggi come allora, quando venivano camuffate con operazioni cosmetiche ai bilanci che sfociavano in inflazioni incontrollate e devastanti. Loro afflitti dalla penuria e noi italiani che ci facevamo furbi, andavamo alle Terme di Catez o al castello di Mokrice, pagavamo con carta di credito e l’addebito, un mese dopo, era la metà del conto originale. Il prezzo, almeno simbolico, era quel muretto che tagliava la piazza della Transalpina a Gorizia smantellato completamente oggi, dieci anni fa, più longevo di un Muro assai più imponente e potente, Berlino, ma più obsoleto e anacronistico se già Francesco Cossiga, in una delle sue estemporanee iniziative, lo aveva ridicolizzato, il 3 novembre 1991, passando a piedi il valico di via San Gabriele, sostenendo di farlo da privato cittadino: ma era il presidente della Repubblica, e non uno qualsiasi, l’uomo di Gladio, sezione italiana della rete “Stay behind”, organizzazione segreta dell’Alleanza Atlantica sorta per difenderci da ogni comunismo. Si può anche voltare il cannocchiale e vederla dalla nostra prospettiva. O, meglio, da quella dei commercianti di Gorizia o Trieste, arricchiti da quei tour di shopping compulsivo, carovane di pullman che varcavano il confine e ripartivano cariche di scarpe, jeans, calze. Un prologo di consumismo che annunciava, assai più delle pretese diversità etniche, lo sgretolamento non già di un Paese ma di un esperimento antropologico uscito ammaccato dall’autoscontro con i neon delle vetrine.
Il buffo muretto di Gorizia, rimasto là quasi fosse un oggetto d’antiquariato, cadeva alfine come una parentesi che racchiudeva il secolo breve delle ideologie. Le eterne ragioni geopolitiche della storia si riprendevano la loro rivincita a segnalare la comune e più lunga appartenenza austroungarica. Naturalmente ci vuole tempo per riannodare un filo interrotto, seppellire rancori, dimenticare incomprensioni. E ricordare che una frontiera, fisica o culturale che sia, è ricchezza, confronto, osmosi. Dieci anni sono un piccolo spazio davanti a un futuro ineluttabile. Cosa è la piccola Slovenia davanti al mondo globalizzato? E cosa è la pur assai più grande Italia se il metro di misura è il pianeta con le sue nuove superpotenze da un miliardo di abitanti? Certo il gigantismo spaventa, provoca, di riflesso, la tentazione di rifugiarsi nelle “Heimat”, nelle piccole patrie, illusioni di sicuro approdo contro i pericoli dell’altrove. Ma noi italiani avremmo maledetto la lira, e gli sloveni il tallero, se sotto la bufera finanziaria non avessimo avuto l’euro a calmierare tassi di interesse e persino debiti pubblici o privati impagabili con divise troppo deboli. Nella faticosa ma indispensabile costruzione di una identità europea (più lunga per noi, più breve per loro) abbiamo ancorato valori condivisi da un Continente senza dubbio Vecchio ma che costituisce una stella polare per chi reclama diritti civili, morali, libertà. Tutto questo dovrebbero ricordarsi i molti sloveni che, sempre stando ai sondaggi, non andranno alle urne il prossimo 25 maggio, tutti quegli italiani attratti dalle sirene di un populismo demolitore. E se gli anniversari hanno la loro ragione principale nei consuntivi a cui obbligano, allora un sacrosanto esercizio di memoria dovrebbe riportare a che cosa era, la frontiera, quando significava cesura e non scambio, quando una linea di separazione, arbitraria come tutte, segnava l’odio verso l’altro, l’impossibilità di un dialogo.
C’è una generazione, che ormai ha l’età per le urne, cresciuta dopo la fine dei rimbombi di cannone di là dalla frontiera, abituata ai weekend musicali a Lubiana, alle gite senza passaporto entro Schengen. Dovrebbe imparare che quanto sembra scontato non lo era per i padri e per i nonni, che la convivenza è si un destino ma arriva dopo un faticoso lavoro sulla tolleranza. Non si può tacere, in questi giorni di cerimonie commemorative, anche il senso di un’amputazione. Se Zagabria, pur tra molti ripensamenti, si è inserita nel cammino verso Bruxelles, mancano all’appello capitali incongruamente separate che non solo la carta geografica, anche la storia e una più profonda adesione dell’anima definiscono come Europa. Belgrado, Sarajevo, e le altre città dei nuovi Stati balcanici stanno là, dietro un muretto che prima o poi dovremo scavalcare. Per non lasciare a metà l’opera iniziata quando a Gorizia la piazza Transalpina è tornata integra.