Scritto da Lorenzo Chiarlone, «Avvenire», 04/02/14
martedì 04 febbraio 2014
Non se n’era accorta nemmeno la popolazione di Cairo Montenotte, la cittadina dell’entroterra savonese alla cui periferia sorgeva il campo di prigionia n. 95. I movimenti erano tenuti nascosti. Il campo era sorvegliato da quasi trecento soldati italiani, ma dopo l’8 settembre ne presero il comando i tedeschi. E risolsero sbrigativamente il problema del mantenimento e della sorveglianza: l’8 ottobre venne fatto fermare un treno sulla linea Savona-Alessandria, che passava ai margini del campo, e furono fatti salire i prigionieri su trenta carri bestiame blindati, che raggiunsero Mauthausen il 24 ottobre.
Dal 12 dicembre 1941 fino agli inizi del 1943, nel campo di concentramento cairese era stato internato un migliaio di prigionieri di guerra greci; questi nel febbraio del 1943 vennero trasferiti in provincia di Bergamo. «Pochi giorni dopo – ricordava Nilo Calvini, storico, che fu tenente in servizio al campo cairese – apprendemmo che nel campo sarebbero stati rinchiusi non più prigionieri di guerra ma internati civili. Non capimmo il vero significato delle parole: le autorità appena accennarono a “ribelli” allo Stato. La sorpresa aumentò quando, pochi giorni dopo, giunse al campo un centinaio di donne provenienti dal confine con la Jugoslavia. All’inizio dell’estate 1943 giunse un migliaio di uomini, pur qualificati come internati civili. A uno degli accompagnatori chiesi qualche precisazione: mi rispose che si trattava di abitanti di paesi situati al confine jugoslavo dove frequentemente avvenivano disordini, con assalti ai posti di polizia e alle stazioni dei carabinieri. Insistette sull’impossibilità di individuare i colpevoli dei disordini e attentati; il governo aveva deciso di operare rastrellamenti in massa».
In effetti, crescendo il numero delle persone fermate, l’Ispettorato generale per la Venezia Giulia e lo stesso ministero degli Interni richiesero l’assegnazione di un campo di internamento per i civili rastrellati. Ma quando il campo di Cairo passò sotto il comando tedesco, quei cittadini italiani (alcuni di origine slovena o croata, allora definita “allogena”) delle province di Trieste, Gorizia, Udine, Lubiana, Pola e Fiume furono trasferiti ai campi di sterminio. In alcuni casi si trattava semplicemente di familiari di giovani che non si erano presentati alla chiamata alle armi. Ha ricostruito la vicenda lo studioso di aeronautica Giancarlo Garello (autore de Il campo d’aviazione di Cairo Montenotte e dintorni, L. Editrice 2013): fu l’area del rudimentale aeroporto militare a essere successivamente utilizzata come campo di prigionia.
Dopo un paio di mesi dell’internamento dei prigionieri a Cairo il vescovo di Trieste, Antonio Santin, si recò a visitare i prigionieri, in quel periodo 750. Il prelato rileva un’accettabile gestione della struttura («Il campo è tenuto bene. Il colonnello fa quello che può»), anche se riconosce che «hanno fame: non si può nasconderlo. Ma il contegno di tutti gli internati, a detta degli ufficiali, è disciplinato e degno di lode» e si compiace per la condotta dei prigionieri, molti dei quali suoi diocesani («Ogni mattina oltre quattrocento uomini vanno a Messa e fanno la Comunione. Assieme recitano il Rosario. Non si può desiderare di meglio»); poi lamenta la sostituzione, avvenuta il giorno precedente il suo arrivo, del cappellano don Margon, triestino che conosceva lo sloveno e il croato, sostituito con un altro sacerdote che non parlava la lingua dei prigionieri. Ma parole molto dure, pur nel suo stile misurato e preciso, monsignor Santin scrive nella relazione della sua visita a proposito del generale Fabbri, giunto in concomitanza per un’ispezione al campo: «Mi sembra che alla base di tutto vi sia qualche incomprensione e qualche errore di valutazione della situazione. E porto un esempio. Mentre mi trovavo nell’infermeria a visitare gli ammalati è giunto d’improvviso al campo per un’ispezione il generale Fabbri. Certo non si può dire che sia stato cortese con me. Anche il colonnello e gli ufficiali ne rimasero male. Egli affermò fra l’altro che tutti quegli internati erano della gente poco da bene, che avremmo dovuto trattare ben più duramente. Non ripeto le sue gravi parole. Tutti sono rei. E quando io misi a posto le cose e gli osservai che non conosceva la situazione, sembrava dicessi delle eresie. Che egli credette in dovere di trascriversi. Io affermai che colà sono raccolti non dei delinquenti (quelli sono sottoposti al tribunale speciale) ma degli uomini, che furono allontananti perché non fossero presi dai partigiani o per qualche sospetto, che vi è su di loro. Molti fra gli internati lo sono per puri motivi occasionali».
Dopo il 25 luglio, osserva Garello, «nessuna decisone fu presa circa la sorte dei cittadini “allogeni” che rimasero bloccati nei campi». Il 9 settembre la Val Bormida ligure fu occupata dalle truppe tedesche e via via che la compagnia di sorveglianza, come tutto l’esercito italiano, si sgretolava, i militari tedeschi presero in mano la direzione del campo, che il 14 ottobre passò ufficialmente al comando germanico. Ma già l’8 ottobre, dice Garello, «con il campo ancora nominalmente sotto giurisdizione italiana, vennero spediti dai tedeschi alla volta della Germania 985 internati con tradotta militare composta da una trentina di carri bestiame; altri 170, vecchi e malati, furono avviati verso località imprecisate». Negli archivi tedeschi dell’International Tracing Service di Bad Arolsen è stata trovata traccia di un solo sopravvissuto fra quel migliaio di prigionieri: Gasper Sulin, che anni dopo si rivolse all’Its per chiedere documenti comprovanti la sua detenzione a Cairo Montenotte e a Mauthausen-Gusen.