Che i due paesi non si amino è cosa risaputa. Troppo diverse Serbia e Croazia ma, soprattutto, troppo profonde le ferite ancora aperte lasciate dalle guerre di fine secolo scorso.
Le espulsioni reciproche
Ma pochi giorni fa, il 20 novembre, l’iniziativa del ministero degli Esteri serbo di espellere Hrvoje Snajder, diplomatico croato in Serbia, rischia di approfondire ulteriormente il solco tra Zagabria e Belgrado. Nel suo comunicato, il governo serbo non fornisce dettagli in merito alle ragioni che l’hanno spinto a una decisione tanto drastica, limitandosi ad affermare che Snajder si sarebbe “allontanato grossolanamente dal quadro delle norme diplomatiche” violando la convenzione di Vienna, ovvero la convenzione che dal 1963 regola le relazioni consolari tra Stati. Con ogni probabilità le ragioni dell’accaduto non si sapranno mai, ma fonti non ufficiali e non riscontrate le individuano nel presunto coinvolgimento di Snajder in attività di controspionaggio; tema – questo – che rappresenta un nervo scoperto per la Serbia, specie dopo le recenti dimissioni dell’ex capo dell’intelligence Aleksandar Vulin.
Nel medesimo comunicato, il ministero degli Esteri serbo ha anche manifestato “l’auspicio che la Repubblica di Serbia e la Repubblica di Croazia possano lavorare insieme per costruire una fiducia reciproca così da raggiungere un futuro europeo comune” ma, a giudicare dalle reazioni arrivate a stretto giro da Zagabria, è difficile immaginare che potrà davvero essere così, quanto meno nell’immediato. Il governo croato ha infatti espressamente parlato di “passo verso il deterioramento delle relazioni reciproche” paventando addirittura ripercussioni per la “sicurezza regionale in un momento in cui la stabilità nell’Europa sudorientale è di eccezionale importanza per l’intera Europa”. E dalle parole è anche passata ai fatti dichiarando persona non grata il primo segretario dell’ambasciata serba a Zagabria, secondo la regola non scritta della reciprocità, anche negli “sgarbi” diplomatici.
Un fulmine a ciel sereno?
Lo scontro tra le diplomazie di Serbia e Croazia è quindi totale e, quanto meno in parte, inaspettato. Negli ultimi anni, infatti, si era assistito ad un progressivo riavvicinamento tra i due paesi con timidi, ma comunque significativi, segnali di disgelo.
Riavvicinamento che si era palesato – tra l’altro – con una serie di incontri bilaterali tra i rispettivi primi ministri, Ana Brnabi? (Serbia) e Andrej Plenkovi? (Croazia), cui erano seguite dichiarazioni largamente concilianti di impegno per la tutela delle reciproche minoranze nei rispettivi paesi e di auspicio per il ricorso “al dialogo per risolvere le questioni aperte tra Serbia e Croazia al fine di favorire lo sviluppo dei rapporti tra i due Paesi”.
La guerra che non sa finire
Il punto vero, fuori dal linguaggio paludato della diplomazia, è tuttavia proprio questo: ossia la risoluzione delle tante “questione aperte”, prima tra tutte quella legata al ritrovamento delle persone scomparse nel corso del conflitto degli anni Novanta.
Era stato lo stesso Plenkovi? a ribadirlo, d’altronde, seppure nel contesto apparentemente cordiale e gioviale delle celebrazioni del Natale ortodosso ad inizio anno, cui aveva partecipato su invito del Consiglio Nazionale serbo, l’organo che rappresenta la minoranza serba in Croazia. Senza troppi giri di parole, Plenkovi? aveva espressamente parlato di una Croazia “vittima del regime di Miloševi?”, augurandosi che la Serbia potesse finalmente fare “passi concreti verso le scuse” e sottolineando quanto la questione irrisolta fosse “difficile e grava sulle relazioni tra Croazia e Serbia”.
Per canto suo il vicepremier e ministro degli Esteri serbo, Ivica Da?i? – anch’esso presente in quell’occasione – oltre a riconoscere una diversità di vedute su molte questioni, aveva anche sottolineato come il miglioramento delle relazioni bilaterali dovesse necessariamente passare “attraverso la normalizzazione della narrazione politica generale”, come a rivendicare la legittimità di una diversa visione della storia recente, delle sue responsabilità e, soprattutto, delle sue conseguenze.
Al di là delle levate di calici e dei sorrisi di circostanza, dunque, le distanze erano (e restavano) incolmabili, anche allora. Distanza, peraltro, che si misura anche su un’altra controversia, anch’essa figlia della guerra, quella del confine che corre lungo il Danubio. Confine che i serbi vorrebbero riconosciuto dal corso naturale del fiume – in sinistra idrografica Serbia, a destra Croazia – e che i croati vorrebbero invece riferito alla vecchia mappatura catastale predisposta quando il Danubio non aveva ancora subito le numerose deviazioni naturali e artificiali che ne hanno disegnato il corso odierno. Una discussione solo apparentemente secondaria – questa – poiché comporta reciproche rivendicazioni territoriali anche in aree “sensibili”, come quelle della cosiddetta isola di Vukovar.
La crisi diplomatica aperta con l’espulsione del diplomatico croato, dunque, non deve sorprendere e sembra invece inquadrarsi perfettamente in un contesto che, al di là delle apparenze e degli sforzi fatti, resta difficile. Contesto ulteriormente esasperato dall’imminenza delle prossime elezioni parlamentari in Serbia, per lo meno stanti a quanto dichiarato dal ministero degli Esteri croato secondo il quale l’iniziativa serba verso il diplomatico rappresenterebbe “un’ulteriore pressione sui dipendenti dell’ambasciata croata a Belgrado che si manifesta soprattutto in periodo pre-elettorale”.
Si tratta di aspettare qualche settimana, dunque, per vedere se il percorso di normalizzazione così faticosamente (e contraddittoriamente) intrapreso saprà riprendere.
Pietro Aleotti
Fonte: East Journal – 29/11/2023