venerdì 17 ottobre 2014
Essere a Trieste oggi, nei giorni in cui si ricordano i sessant’anni dalla riannessione di Trieste all’Italia, ha per me un significato particolare. Prima di essere un politico, infatti, sono stato per tanti anni uno storico, ed è per questo che ringrazio Davide Rossi per avermi invitato qui oggi: perché in questo modo, per preparare questo mio breve intervento, ho avuto la possibilità di ripercorrere un momento storico che avevo studiato e sul quale avevo riflettuto. Attingendo a questo retroterra cercherò, quindi, di portare il mio contributo per mettere in correlazione la cosiddetta “questione di Trieste” con il contesto internazionale e la situazione dell’Italia in quegli anni. Quando, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il dialogo fra le superpotenze cessa definitivamente, al suo posto subentra quella che il giornalista americano Walter Lippmann ha efficacemente battezzato “guerra fredda”: non guerra guerreggiata, ma irriducibile e continua ostilità tra due blocchi. Da una parte Stalin e la strategia di allargare sempre più il suo “impero” attraverso la comunistizzazione dell’Europa dell’Est, andando a creare un “cordone sanitario” di servili Stati cuscinetto, tutto in giustificazione del fatto di dover costruire una barriera difensiva contro una rinata Germania; dall’altra parte l’amministrazione americana di Truman, che interpreta la strategia staliniana come il primo passo di una campagna volta ad acquisire il controllo dell’intero continente europeo. Per evitare ciò, gli Stati Uniti inaugurano un nuovo corso di politica estera. Il 12 marzo del 1947 Truman tiene uno storico discorso al Congresso americano, dove esprime quella che sarebbe stata presto battezzata “dottrina Truman”: l’impegno incondizionato da parte degli Stati Uniti, attraverso la concessione di aiuti d’emergenza, di «sostenere tutti i popoli liberi che resistono all’asservimento da parte di minoranze armate o da pressioni esterne». Soltanto gli Stati Uniti, usciti dalla Seconda Guerra Mondiale con il definitivo rango di superpotenza, avevano la possibilità di porre un limite all’espansione della potenza russa, ma non potevano farlo in modo diretto e aperto attraverso l’utilizzo della forza militare, bensì in modo discreto e indiretto attraverso la promozione di prosperità, sicurezza e stabilità delle nazioni a rischio. Questo tipo di politica prendeva il nome di “politica del contenimento”, nella convinzione che l’obiettivo principale della politica estera sovietica fosse il conseguimento dell’egemonia sulla metà occidentale non comunista dell’Europa. La politica del contenimento viene applicata attraverso il Piano Marshall, ossia attraverso una massiccia iniezione di aiuti finanziari statunitensi per far rinascere l’agonizzante economia europea. Uno degli Stati europei considerati in maggiore pericolo dagli americani è proprio l’Italia, Stato di cerniera tra i due blocchi, che decide presto di far parte del blocco atlantico: dall’adesione allo European Recovery Program alla firma del Trattato Nord Atlantico nel ‘49, ma che presenta, allo stesso tempo, un Partito comunista molto forte, in rapporto diretto con l’Unione Sovietica di Stalin e visto con grande preoccupazione dall’Ambasciata statunitense a Roma. Per questo motivo, gli angloamericani dalla fine del secondo conflitto bellico mondiale in poi controllano con particolare attenzione la penisola italiana, perché suscettibile dell’influenza comunista presente a pochi chilometri dai nostri confini e perché esposta a possibili invasioni dall’esistenza di un “corridoio” che vede la sua porta d’ingresso proprio in Trieste. È in questo contesto, allora, che bisogna considerare la peculiarità della questione di Trieste. Dopo la crisi politica internazionale del maggio 1945 che scoppia, innescata quando la Jugoslavia di Tito aveva messo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna di fronte al fatto compiuto dell’annessione di Trieste, e i successivi accordi di Belgrado e Duino del giugno 1945, che avevano fatto sì che le truppe jugoslave fossero costrette ad evacuare Trieste e a rimanere oltre la “linea Morgan”, il Trattato di pace di Parigi del 1947 aveva previsto la formazione del Territorio Libero di Trieste (TLT), diviso in due zone: Zona A, che comprendeva la città di Trieste ed era sotto l’amministrazione angloamericana; Zona B, gestita dalla Jugoslavia comunista di Tito. Gli angloamericani consideravano la Zona A come l’ultimo baluardo contro il dilagare del comunismo in Italia e nel resto dell’Europa occidentale. In questa prospettiva, come ricorda Marina Cattaruzza nel suo libro L’Italia e il confine orientale, essa rappresentava una trincea importante per impedire l’espansione del sistema sovietico oltre la sua sfera di influenza in Europa orientale e nella zona di occupazione sovietica della Germania, verso una terza fascia di Stati. La politica del containment, quindi, trovava la sua realizzazione in Trieste, che diveniva una vera e propria muraglia contro il pericolo del comunismo in Italia. La situazione cambia nel giugno del 1948. A quel tempo, pochi mesi dopo che gli italiani avevano scelto da quale parte stare, si realizza il cosiddetto “scisma di Tito”. In seguito alla resistenza da parte di Tito ad adeguarsi ai piani staliniani di divisione del lavoro all’interno del blocco sovietico, Stalin accusa la Jugoslavia di “deviazionismo” e di collusione con l’imperialismo, decidendo di escluderla dal Cominform. In una situazione di totale isolamento, Tito resiste alle pressioni sovietiche e vara una inedita linea di politica estera, fondata sull’autonomia, sul non allineamento, e dunque sull’equidistanza fra i due blocchi. Con tale avvenimento la città di Trieste perde la sua qualità originaria di “zona di confine” tra i due blocchi e di contenimento dell’avanzata comunista, divenendo, secondo la definizione di Giampaolo Valdevit, “un’area di conflitto periferico”. Il depotenziamento della questione di Trieste ha due conseguenze, dal punto di vista dell’interesse italiano, contradditorie: da un canto apre nuovi spazi di intervento per il governo italiano, che cerca di sviluppare una maggiore iniziativa al fine di integrare la Zona A all’Italia e, in generale, di portare a casa il miglior risultato possibile per una questione, quella triestina, che agita sempre più l’opinione pubblica nazionale. Dall’altro canto pero’ lo strappo tra Tito e Stalin apre anche altre prospettive, e in particolare quella dell’interesse dimostrato dagli Stati Uniti di voler attuare una politica di concessioni al potenziale nuovo alleato, per cercare di coinvolgerlo nel campo occidentale. Tentare di riallineare dalla propria parte la Jugoslavia non allineata, infatti, rappresentava un’occasione proficua di risposta all’espansione sovietica e cio’, inevitabilmente, indeboliva la posizione italiana nel contesto atlantico. Se si considera un secondo elemento, e cioè quello della “piccola distensione” che si verifica con la fine del conflitto in Corea, e che si concretizza nell’apertura di Churchill nei confronti di Stalin, si capisce bene che, di fronte a una complessiva riclassificazione delle relazioni internazionali, il ruolo dell’Italia a livello internazionale subisce un significativo indebolimento. Da Stato di frontiera, determinante negli anni più accesi della guerra fredda, il nostro Paese si va a collocare in un’area balcanica che presenta al suo interno una nuova Jugoslavia, meno pericolosa in assoluto, perché non più sovietica, ma proprio per questo più sconveniente per l’Italia appunto perché suscettibile di rendere gli alleati più accondiscendenti rispetto alle tendenze espansionistiche di Tito, anche in merito al Territorio Libero di Trieste. Questo contesto internazionale si rafforza ulteriormente con la morte di Stalin, nel marzo del 1953, e con le successive aperture della dirigenza sovietica, andando a produrre una più forte distensione, che inevitabilmente influisce sull’ordine degli interessi di politica estera da parte degli Stati Uniti. Non è casuale, in questo contesto, il discorso che Pella, presidente del Consiglio italiano dall’agosto ’53 al gennaio del ’54, tiene al Campidoglio il 13 settembre del 1953, in risposta alla dichiarazione di Tito di pochi giorni prima, tramite la quale chiedeva l’internazionalizzazione della città di Trieste, dando pressoché per scontata la volontà di annettere la Zona B al territorio jugoslavo. Il discorso del Campidoglio di Pella, oltre ad avere un contenuto marcatamente nazionalista, nello stile e nei contenuti rappresento’ una rottura rispetto a quello impostato negli anni dal suo predecessore Alcide De Gasperi. Il ragionamento di Pella verteva sostanzialmente su una minaccia, consistente nel sostenere che la ratifica del trattato CED – la Comunità Europea di Difesa che avrebbe dovuto rappresentare il passo successivo alla CECA nel processo di integrazione europea e nella cui progettazione, di iniziativa francese, aveva avuto un ruolo fondamentale proprio l’Italia di De Gasperi – sarebbe avvenuta da parte dell’Italia solo in seguito alla risoluzione della questione di Trieste. Trieste, quindi, diveniva merce di scambio. Se si ha anche solo una minima conoscenza del pensiero politico di De Gasperi, non è difficile capire quanto profonda sia stata la rottura in politica estera tra la linea che De Gasperi aveva impostato e quella del suo successore. Mentre il leader trentino aveva operato per rimettere in asse atlantismo ed europeismo, ricercando attraverso quest’opera l’acquisizione di una posizione vantaggiosa nella trattativa su Trieste, Pella si era mostrato disponibile a sacrificare sull’altare di Trieste la ratifica italiana della CED. Ciò rischio’ di provocare un irrigidimento nei rapporti transatlantici e, nel contempo, la perdita in ambito europeo della specificità conquistata da De Gasperi. Il discorso di Pella riflette, dunque, implicitamente l’indebolimento del ruolo del Paese al variare dello schema delle relazioni internazionali, motivo per cui alla strategia diplomatica si sostituisce quella offensiva, pur sapendo di non avere la forza per poter isolare l’Italia dal sistema occidentale. Dopo la parentesi dell’esecutivo Pella, durante il quale il governo arriva a sfiorare la crisi diplomatica con gli Stati Uniti, il ripristino di una formula centrista con il varo del governo Scelba avrebbe favorito il ritorno di un europeismo declinato in piena sintonia con la prospettiva atlantica. Questo momento di relativa stabilizzazione porta nel giro di pochi mesi alla risoluzione, per quanto non definitiva, della questione di Trieste, che si compie pochi mesi dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa, avvenuto nell’agosto ‘54. Con il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954 – il protocollo d’intesa sottoscritto da Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia – si stabiliva che la Zona A del Territorio Libero di Trieste sarebbe passata all’amministrazione provvisoria civile italiana e la Zona B a quella jugoslava. Il passaggio dei poteri dall’amministrazione militare alleata a quella civile italiana avveniva il 26 ottobre 1954, in un clima di festa, ma la provvisorietà dell’accordo, che sarà definitivo solo nel 1975 con il trattato di Osimo, e le modifiche a favore della Jugoslavia per quel che concerne i comuni di Muggia e di San Dorligo della Valle, rappresentano un ulteriore simbolo della relativizzazione del ruolo italiano a livello internazionale. E proprio l’obiettiva relativizzazione del ruolo dell’Italia nel contesto Atlantico che la ricostruzione della “Questione di Trieste” nel decennio cruciale 1945-1954 riflette, spinge a ripensare l’ultimo atto della politica estera degasperiana: quella che si concluse con la sconfitta della CED. La storiografia ha riconosciuto con precisione l’impegno di De Gasperi a favore della CED nel periodo nel quale ricoprì l’incarico di presidente del Consiglio. Il progetto CED nasce dall’idea originaria del 1950 del primo ministro francese René Pleven, secondo il quale, per stemperare il problema del riarmo tedesco, si sarebbe dovuta creare un’organizzazione europea sovranazionale di forze armate comuni, seguendo il felice esempio della CECA, la Comunità del Carbone e dell’acciaio. La perplessità maggiore da parte di De Gasperi in merito a questo piano era alimentata da una ragione logico-teorica: la difficoltà di immaginare un esercito integrato senza l’esistenza di un nucleo di potere politico comune. In seguito, però, all’ufficializzazione dell’appoggio americano alla costruzione dell’esercito europeo, ma soprattutto al già ricordato cambio di prospettiva internazionale dovuto alla rottura tra Stalin e Tito, De Gasperi, di ritorno da una visita degli Stati Uniti, si trova ad avere tutte le carte in mano per rendersi conto che, nelle circostanze date, l’Italia non potesse permettersi di frapporre ostacoli all’esercito europeo. Ed è in questo momento che lo statista trentino capisce l’opportunità che la storia da’ a un’Italia indebolita come nazione perché all’interno di un’Europa con equilibri differenti: l’Italia avrebbe dovuto dire sì all’esercito europeo, ma assumendo la leadership dell’iniziativa e modificandone laddove possibile i termini, al fine di poter riguadagnare quel prestigio e quella capacità contrattuale nel contesto internazionale che la rottura tra Stalin e Tito inevitabilmente gli aveva sottratto. L’Europa, dunque, come risorsa strategica per la politica estera italiana, a patto però che si tratti di un’Europa vera. De Gasperi, dalla fine del ’51, evidenziò l’obbligatoria correlazione tra esercito europeo e costituzione di un nucleo di potere politico comune. E nel marzo ’52 l’asse De Gasperi-Schuman riesce a far inserire nel trattato CED il famoso articolo 38, con il quale i sei paesi che avevano dato vita alla CECA accettavano, per la prima volta, il principio della costituente europea. Lo statista trentino aveva capito che, avendo un ruolo di primo piano in una Comunità politica europea, l’Italia avrebbe poi potuto avere un ruolo determinante nei vari processi politici che la riguardavano, compresa la questione di Trieste. Egli evitò sempre di stabilire una diretta correlazione tra l’adesione alla CED e la soluzione del problema di Trieste, proprio perché l’obiettivo era invece quello di inserire Trieste in un quadro di problemi di sicurezza riguardanti l’intera alleanza, facendo così immaginare la possibilità di strappare un accordo migliore. Come si sa, i suoi successori e alcuni suoi colleghi europei non ebbero per motivi diversi la stessa lungimiranza. Nell’agosto del 1954 la Conferenza di Bruxelles iniziava con un cattivo presagio: l’annuncio della morte di De Gasperi. In quella conferenza lo statista francese Mendés France rendeva nota l’indisponibilità della Francia a proseguire verso la ratifica del trattato CED. L’Italia, dal suo canto, aveva aspettato che la Francia si pronunciasse prima di prendere una decisione definitiva sulla ratifica di un trattato che sembrava sempre più lontano nella sua realizzazione. Con De Gasperi, dunque, moriva anche la CED, e il processo d’integrazione europea subiva una decisa frenata. Quello che non fu capito in Italia riguardava il fatto che chiedere un’Europa politica significava, prima di tutto, un’Italia più forte nel contesto atlantico. Il fatto che la “questione Trieste” abbia trovato una prima soluzione fuori da tale contesto non deve trarre in inganno. La risoluzione di Trieste, infatti, non ci consegnava un’Italia nazionalisticamente più forte. La CED avrebbe potuto rappresentare una variante in un’unità atlantica nella quale l’Italia aveva avuto in passato un ruolo importante in quanto Paese di frontiera, ma che in seguito alle vicende che abbiamo ripercorso era uno Stato di frontiera che scontava la vicinanza di una realtà, quella jugoslava, che agli occhi degli americani aveva perso dal 1948 la sua originaria pericolosità, perché non più allineata al sistema sovietico e che, dunque, godeva di un particolare status geopolitico. Questa ricostruzione richiama un’ultima considerazione in chiave di attualità. Dopo la caduta del Muro, la moneta unica è stata un fattore di unificazione che, per le sue dirompenze può essere paragonato a cio’ che avrebbe rappresentato la CED. Essa, pero’, non e’ stata compensata dalla edificazione di un nucleo di potere condiviso: non ce l’abbiamo fatta a realizzarlo. Per questo l’Europa di oggi ci appare come un uomo con un braccio troppo sviluppato e l’altro atrofizzato, privo di armonia. Questa disarmonia si riflette sull’esercizio della sovranità: e’ divenuto esercizio arduo rintracciare gli spazi di sovranità che sono lasciati all’ambito nazionale, le porzioni di sovranità che invece abbiamo devoluto, e quelle che si sono volatilizzate perche’ prive di un potere politico di riferimento. Questa situazione, però, non può portarci a liquidare l’Europa e a sposare posizioni euro-scettiche. Se mettiamo in collegamento la situazione che abbiamo ricostruito con quanto sta accadendo oggi e che coinvolge in particolare quella parte orientale del Paese che da Trieste a Lampedusa affaccia sul Mediterraneo, possiamo capire perche’. Oggi come allora, infatti, un serio processo di integrazione politica conviene all’Italia perché puo’ evitare che finisca per avere il ruolo di vaso di coccio tra i vasi di ferro, inserendosi come attrice non protagonista in una partita giocata da altri. Chi crede di risolvere in maniera autarchica e con una politica di pura forza i problemi economici posti dagli stravolgimenti geopolitici dell’area mediterranea e quelli della difesa dei confini, fra tutte la sfida più complessa che il tempo della globalizzazione ha portato con sé, si illude. Per ragioni pratiche, non ideologiche, bisogna declinare insieme europeismo e interesse nazionale perché, come nel caso della questione di Trieste, per ottenere i migliori risultati per il proprio Paese, bisogna saper individuare il ruolo piu’ efficace da svolgere nel contesto internazionale, dal quale non possiamo in alcun modo prescindere in un mondo che oggi si presenta ancora più largo che nel 1954. Grazie. Intervento presentato in video-conferenza a “La Bancarella – Salone del Libro dell’Adriatico orientale”, edizione 2014.