Scritto da «La Voce del Popolo», 19/08/09
Nulla è più appassionante che entrare nel “cuore” di un’epoca attraverso gli occhi di chi ne è stato protagonista e testimone. Il libro di Gabriella Chmet non soltanto offre l’occasione di una esperienza “in diretta” per entrare dentro il Novecento istriano, ma offre anche la possibilità di farlo con gli occhi di una donna: Libera. Sembrerebbe un nome inventato a bella posta, tanto è perfetto, e invece no, si chiama proprio così il personaggio femminile, la grande riuscita del romanzo. Una storia istriana lunga cent’anni: dal 1905 al 1996. Libera Punis vive i due conflitti mondiali e vede la sua Stridone passare dall’Austria all’Italia, dal Ventennio fascista alla Jugoslavia di Tito e alla Croazia. Una testimonianza forte, che nulla concede alla retorica attraverso la storia di una vita cui fanno da cornice robusta gli eventi storici, che costituiscono ritmo e ossatura della narrazione.
Libera vive in una società arcaica e contadina travolta da due guerre mondiali, tra appartenenze a fazioni diverse e contrapposte, tra esodi volontari e forzati, tra invasati nazionalismi e foibe, dominazioni e “liberazioni”, e lacerata da frequenti mutamenti di organizzazione politica. La piccola comunità di Stridone resiste in qualche modo, unita dai suoi riti atavici, dall’eterno ritorno a modelli, azioni esemplari, archetipi, solidali con i ritmi cosmici e un complesso sistema di affermazione ultima delle cose, una vera metafisica. In questo scenario si affermano valori quali la famiglia, la fedeltà alla comunità, la convivenza e la solidarietà tra genti diverse, l’umanità, l’ospitalità. Se la Storia non si fosse messa di mezzo con le sue pretese, il paese sarebbe rimasto tale. Purtroppo i lunghi decenni di fascismo e comunismo hanno finito per devastarlo, distruggerlo, spegnerlo. Libera sperimenta sulla propria pelle ogni cambiamento. È una giovane donna ribelle, caparbia e determinata, una forza vitale, non ha marito né figli, non è neppure diventata quell’infermiera diplomata che da giovane, degente all’Ospedale di Pola, ha sognato di diventare. La sua opera d’arte è la sua vita, il suo avanzare faticosamente tra malattia, miseria, guerra e cattiveria della gente, la lotta per la sopravvivenza ad ogni costo combattendo la tubercolosi (che ha decimato la sua famiglia), lavorando a più riprese a Trieste da domestica presso una famiglia di ebrei e da banconiera nel caffè di piazza Garibaldi, senza mai perdere il contatto vitale con la realtà terragna, popolare e passionale in cui affonda le sue radici, trovando risposte di volta in volta diverse, agendo in coerenza con le sue idee, e non rinunciando a concretizzare i suoi ideali. Lei è un esempio che non c’è alcun limite – pur con frequenti cadute dovute alla tisi e alla dedizione all’alcool – alla crescita in sapienza e alla disposizione amorevole nei confronti del mondo, anche per chi di primavere ne ha viste più di novanta.
Una storia fuori dal comune è stata il suo amore con don Ferdinand, il religioso viennese diventato parroco di Stridone, animato da non poche ambizioni e da altrettante pulsioni carnali con relative conseguenze in un paese piccolo dove la gente mormora… Sono anni di oscillante relazione clandestina sul limite frastagliato ed incerto fra amore ed egocentrismo. Come resistere a quella giovane così spavalda e determinata e allo stesso tempo bellissima, piena di passione e di risorse? È un amore tra le spine, un amore che dovrebbe bruciare tra le fiamme dell’inferno, ma forse proprio perché così impossibile, rimarrà sempre vivo, sempre forte, non avrà mai eguali nella vita dei due. Sarà una conquista più importante della vita stessa: un ricordo per cui valga la pena esser vissuti.
Gli anni passano, gli eventi incalzano, le generazioni si susseguono. Libera, dopo l’allontanamento del parroco (prima a Draguccio e poi a Zara) da parte delle autorità ecclesiastiche, proverà a ricostruirsi una vita. Si susseguono altri amori, talvolta amori a prima vista e talaltra a prima svista, ancora delusioni e disillusioni. E la memoria si gonfia di passioni spente e impara a relativizzare tutto, anche i sentimenti. La vera dimensione è quella interiore, fatta di isolamento ed estraneità. Ma il suo Ferdinand non potrà mai essere dimenticato o sostituito. Da parte sua, anche lui da lontano la proteggerà e agirà in modo che di fronte all’apoteosi di violenza non finisca infoibata: il nome della donna figura già nell’elenco dei ricercati malgrado abbia curato e salvato da morte certa il partigiano Marko.
Se la protagonista principale è Libera, con la sua storia si intrecciano tante altre microstorie e la stessa storia dell’autrice che fanno del romanzo una struttura temporale prospettica ove il presente richiama il passato e il passato rimanda al presente. Il romanzo viene giocato su questi rimandi che rendono la lettura avvincente e partecipata. Comunque è sempre lei che lievita, bella ed affascinante, fagocitando tutta una folla di personaggi ben caratterizzati che man mano emergono dalle pagine (Domenico, Caterina, Giovanna, Ernesto, Costantino, Maria, Italico, Rosa, Stefania, Pino, Fulvio …), tanto che il titolo Libera assume un significato emblematico che va al di là del nome della protagonista: romanzo come vita, di una gente, di un tempo, di un paese istriano che di libertà ne ha goduto una porzione minima; romanzo come mezzo per tenere in vita la memoria di chi non c’è più e senza di cui la nostra stessa vita sarebbe più povera. La prima volta che andate a Trieste, dritti in libreria. Libera è un libro irrinunciabile per noi istriani. Sentirete nella Chmet la ricerca assoluta delle radici storiche e sociali di una terra fortemente amata. Sentirete gli innumerevoli accenti di questo lungo, radicato, duraturo ed eterno amore.