«Fari tra le due sponde» nel saggio di Enrica Simonetti

Scritto da Giacomo Annibaldis

Pare solo un grande lago, un ampio fiordo del più vasto Mediterraneo. Eppure fu nel mare Adriatico che Fernand Braudel ebbe l’illuminazione sulla organicità storica del Mediterraneo: era nel porto di Ragusa, ora Dubrovnik, in Dalmazia, e lì lo storico francese comprese che il «mare nostrum» aveva funzionato per secoli – e ancora funzionava – come un «brodo di coltura» (e di cultura) che univa le diverse civiltà che si bagnavano nelle sue onde. L’Adriatico era per i romani il «mare superum». Nella sua sacca di acqua e di rocce si è rifugiata la storia, il mito, la vita. Per lungo tempo è stato un liquido confine tra Oriente e Occidente: dal tempo dei due imperi romani all’avvento “minaccioso” dell’islam, fino alla frontiera della cortina di ferro…

Ora le due sue coste contrapposte cercano di ritessere le storie interrotte. E ad aiutarci in questo rammendo arriva opportuno un volumetto di Enrica Simonetti, Luci sull’Adriatico, dedicato ai «Fari tra le due sponde» (non a caso propiziato dall’assessorato regionale al Mediterraneo; Laterza ed., pp. 112, euro 12). Un percorso ideale, che tende a fare la spola da una costa a quella di fronte, quasi infilando un filo di luci e splendori nelle crune di questi aghi in verticale. Dal faro Finibus Terrae di Santa Maria di Leuca a quelli dell’isola greca di Corfù, da Brindisi all’albanese Durazzo, da Bari ai fanali e alle lanterne del Montenegro… E così via in una rotta a zig-zag nel nostro mare, da sud a nord.

Dall’architettura dei fari si sprigiona un fascino impalpabile: quasi fosse racchiuso in questa parola «verticale» una simbologia che tocca il nostro inconscio. Il faro si erge tra terra e cielo, sfiorando il mare con i suoi fasci di luce e i suoi lampi: e sta forse in questo suo includere in sé i quattro elementi primordiali della natura (terra, aria, acqua, fuoco) a suscitare in noi sentimenti di originaria attrazione. i sensi del viaggiatore sono costretti a inerpicarsi sui piedistalli di scogliere a strapiombo e a librarsi, lungo le scale a chiocciola, sulle lanterne, per assaporare una sottile vertigine che l’architettura e l’ambientazione ci procura: sempre in bilico tra smarrimento e garanzia (da una parte il precipizio e il pericolo, dall’altra la sicurezza), tra l’oscurità e la luce, tra un’agognata solitudine e l’incombente pazzia, tra l’abisso insidioso e il protettivo avviso ai naviganti…

Tutte queste sensazioni Enrica Simonetti era riuscita a esprimere – e a condividere con il lettore – attraverso il suo precedente volume Fari d’Italia. Luci ed eclissi sul mare (edito sempre da Laterza nel 2005).

Ora il suo viaggio di pellegrina del mare si fa più lieve, diventa più corsivo, quasi sospinta da un’onda breve in rotte spezzate. L’aiutano in ciò le foto molto belle, perlopiù tratte dall’Archivio Fotogramma (Nicola Amato e Sergio Leonardi), immagini che contribuiscono a visualizzare le descrizioni della giornalista barese. Tutto parte da Santa Maria di Leuca, la punta estrema della Puglia, che divide idealmente l’Adriatico dallo Ionio, mari che si fondono idealmente al 40° parallelo. Qui la storia si intreccia con il mito: il dio messapico Batas, lo Zeus adorato nella vicina grotta della Porcinara, lancia i suoi fulmini che hanno precorso i lampi del faro.

Luci bianche e splendori rossi sono il linguaggio di una delle lanterne di Corfù. Mentre tra gli anfratti e le falesie del Salento il faro della Palascìa ad Otranto è riuscito a rivendicare una dignità che va oltre il dato tecnico e l’avviso ai naviganti: è diventato sede di un museo virtuale e di un Osservatorio per lo studio dell’ecosistema del Mediterraneo.

Parlano i fari, tra il vento e la nebbia: raccontano grandi storie e piccole vicende quotidiane. A Durazzo, in Albania, una torre sulla brulla scogliera ha accolto il testimone di vedetta da un edificio ellenistico, il cui basamento è attualmente emerso durante scavi archeologici: a farci immaginare fuochi accesi sulla sua cima, in una terra e in un mare infestati da pirati. Sul Gargano, a Torre Preposti, una guardiana ha passato la sua vita in solitudine: è stata lei l’unica farista della storia italiana, e ha ispirato anche una suggestiva pièce teatrale di Francesco Scotto, andata in scena di recente con le musiche di Nicola Piovani.

A Sveti Andrjia, un’isola della Croazia, le onde e i pescatori riesumano un’antica leggenda d’amore e morte, che ricalca il mito ellenistico di Ero e Leandro: la prima accendeva un fuoco perché il suo ragazzo a nuoto arrivasse da lei guidato dalla luce. Il destino nel mito, l’inganno nella leggenda croata, sviarono l’infelice innamorato; la morte nel mare accolse i due infelici. Nel volume di Simonetti l’Adriatico, percorso da una navigazione di piccolo cabotaggio, si configura come un immaginario portolano in cui i segmenti collegano una costa all’altra.

Si resta lievemente invischiati dalla passione del navigatore. Dalle suggestioni raccolte. A Spalato, il faro di Veli Rat, fu edificato con pietre e con l’albume di 10mila uova. Non è già un salto nella favola questo costruire fari come se si facessero meringhe? E una meringa ci appare – nella sua metafisica circolarità – il faro sullo scoglio di Porer al largo di Pola: una torre che ha preso il biancore della roccia; o, al contrario, una roccia che si è mimetizzata per impallidire come la sua torre. Perché – se lo sai ascoltare – il faro può ergersi all’altezza della metafora. Da quello di Bari Guglielmo Marconi si collegò radiotelegraficamente con Bar sulla sponda del Montenegro; quello di Trieste fu edificato con le pietre del Carso su cui gettarono il sangue molti italiani nella prima guerra mondiale, e ad essi fu dedicato.

Fonte: «La Gazzetta del Mezzogiorno», 22/11/09.