mercoledì 22 agosto 2012
LE POPOLAZIONI DI TROPPO
Spostamenti forzati di popolazioni dal Trattato di Losanna all’esodo istriano: aspetti storici e giuridici
Ezio Giuricin
Lo sradicamento di popolazioni e il loro trasferimento coatto, così come l’eradicazione di intere comunità e culture hanno contrassegnato particolarmente il Secolo breve, incidendo profondamente, nella fase di ascesa degli Stati nazionali, sull’assetto sociale e la complessa e delicata dimensione degli equilibri etnici in Europa. Nel presente saggio si analizzano le correnti di pensiero e i meccanismi che hanno favorito il ricorso agli spostamenti forzati di popolazione, sino a legittimare, in talune fasi, la prassi dei trasferimenti forzati e delle “pulizie etniche”, quale strumento per raggiungere un grado quanto maggiore di omologazione e “purezza” nazionale all’interno dei nuovi Stati, o per annullare le complesse realtà plurietniche e multiculturali tipiche dell’Europa centro-orientale, considerate erroneamente quali possibili fonti di instabilità o di conflitti. Oltre a descrivere le profonde conseguenze provocate dallo stravolgimento delle aree storicamente multietniche del continente, si illustra l’evolversi degli approcci alla questione dei trasferimenti forzati, adottati sia dai singoli Stati che dai consessi internazionali, dal Trattato di Losanna a Potsdam sino alle più recenti diposizioni del diritto umanitario internazionale. Mettendo in relazione l’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia con gli altri fenomeni similari, nel più ampio contesto degli spostamenti di popolazioni avvenuti nella prima metà del Novecento, e in particolare dopo le due guerre mondiali, si analizzano alcune particolarità dell’esodo degli italiani dell’Adriatico orientale, inteso come uno “spostamento indotto” o “semivolontario”, difficilmente distinguibile, vista la sua collocazione intermedia tra “semivolontarietà” e “coercizione”, dal contesto complessivo dei “trasferimenti forzati”. Il saggio, oltre a fornire dei riferimenti di carattere storico e giuridico per meglio comprendere il fenomeno degli spostamenti coatti, e inquadrarlo nell’ambito del moderno diritto umanitario, rileva la necessità di definire dei più appropriati strumenti per garantire, oggi, nell’ambito del diritto internazionale, la tutela dei patrimoni culturali e sociali, dei diritti umani e dei tessuti multiculturali sconvolti dagli esodi e dai trasferimenti non volontari di popolazioni.
1. Gli inizi
I trasferimenti coatti o indotti di popolazioni e di gruppi sociali, nelle loro svariate espressioni e modalità, rappresentano purtroppo un fenomeno molto diffuso, se non una costante, nella storia politica dell’umanità. Le deportazioni, le “pulizie etniche”, gli spostamenti forzati o le “cacciate” di interi gruppi nazionali hanno assunto una dimensione crescente e radicale in particolare negli ultimi due secoli, con l’avvento degli Stati nazionali moderni, il loro confronto per il predominio territoriale e l’affermarsi del principio di esclusività etnica e nazionale dello Stato e delle sue forme di controllo sulla società. Tali fenomeni, nel loro manifestarsi fra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale, non furono mai concretamente banditi o sanzionati dal diritto internazionale.
Oggi la comunità internazionale considera gli spostamenti forzati, le varie forme di “pulizie etniche” e, più in generale, gli sradicamenti dal proprio territorio di gruppi linguistici, religiosi o nazionali delle gravi violazioni dei diritti umani; dei crimini contro l’umanità, degli atti moralmente esecrabili e incompatibili con i principi del diritto internazionale.
Ma non sempre è stato così, in particolare nel periodo che va dallo scoppio della prima guerra mondiale all’inizio della “guerra fredda”. Alla fine del diciannovesimo secolo vari autori e diplomatici avevano “sposato” la causa dei trasferimenti forzati come un’accettabile soluzione atta a superare insanabili antagonismi etnici o controversie fra gli Stati.
Lo spostamento di minoranze linguistiche o d’interi gruppi nazionali era considerato dalle cancellerie delle principali potenze (anche se non veniva mai apertamente dichiarato) uno strumento per pacificare delle aree geografiche contese, sanare le contrapposizioni e le linee di frattura fra le diverse componenti presenti all’interno di spazi storicamente multiculturali.
Uno dei primi a teorizzare i trasferimenti di intere popolazioni come legittima misura statale fu un importante statista ottomano, Ahmed Midhat Pasha, ex governatore della Rumelia (Bulgaria meridionale). In un articolo pubblicato con il nome di Midhat nel 1878 nella rivista “The Nineteenth Century”, discutendo dei risvolti della guerra russo-turca del 1878 (conclusasi con una disastrosa sconfitta militare dell’Impero ottomano, che era costata alla Sublime Porta la perdita di un terzo del suo territorio) , proponeva uno spostamento di popolazioni nei territori bulgari divenuti indipendenti, ovvero il trasferimento di tutti i musulmani che non sarebbero voluti restare nel nuovo Principato, e lo scambio delle loro proprietà con quelle di quei bulgari cristiani giunti dai territori ancora sotto il controllo ottomano. Tale proposta non fu accolta al Congresso di Berlino, tuttavia un terzo di secolo dopo, con le guerre balcaniche, venne ripresa dalla Convenzione di Adrianopoli . A conclusione del primo conflitto mondiale furono attuati sistematicamente, su queste premesse, degli scambi di popolazione tra Grecia, Turchia e Bulgaria .
Alcuni anni dopo l’idea di trasferire intere popolazioni fu ulteriormente elaborata da un funzionario bavarese, Siegfried Lichtenstaedter che, nel 1898 pubblicò, con lo pseudonimo di Mehmed Emin Efendi, un libretto su “Il futuro della Turchia”. Facendo riferimento alle crescenti tensioni nazionali nell’Europa centro-orientale, Lichtenstaedter ipotizzava, quale mezzo ottimale per risolvere i problemi degli imperi plurinazionali, lo scambio volontario di popolazioni .
“Tra diverse nazionalità, o più precisamente tra combinazioni di popolazioni di diversa razza, lingua e religione, una pace completa e duratura – affermava il Lichtenstaedter – non si verifica mai in nessun posto, anche laddove tali combinazioni esistono sotto un’unica amministrazione centrale. L’esistenza di diverse nazionalità, lingue e religioni in uno Stato inevitabilmente causa degli scontri, in una forma o l’altra… Di conseguenza il popolo cristiano deve scomparire, per quanto possibile, dalla sfera del Governo turco… Il problema che ci si pone è quello della scoperta – proseguiva il teorico bavarese – di mezzi meno drastici per l’eliminazione delle popolazioni non musulmane dalla Turchia. Chiaramente la strada migliore sarebbe quella di stimolare l’emigrazione volontaria… Ma anche l’emigrazione forzata non mi appare un’offesa contro l’umanità” .
Lichtenstaedter inoltre preannunciava teoricamente quell’insieme di “pulizie etniche” e di scambi forzati delle popolazioni che si sarebbero concluse (a seguito della guerra greco turca del 1919-1923 e del Trattato di Losanna) con la cacciata definitiva dei greci dall’Anatolia orientale, dalla Cilicia e dal Ponto (un milione e 200 mila persone residenti in quei territori da più di due millenni) e di gran parte dei turchi-musulmani dalla Grecia (350.000 cittadini greci di fede musulmana).
Profeticamente nel suo libello del 1898 affermava che “nel giro di venti o trent’anni… molte voci potrebbero udirsi lamentare le orribili atrocità compiute nell’Asia Minore occidentale contro i disgraziati greci” .
Egli inoltre sembrava giustificare, almeno parzialmente, la logica dei sanguinosi “pogrom” antiarmeni verificatesi in quell’epoca. “Un immenso macello venne, è vero, compiuto negli anni 1895-96 contro gli armeni: ma esso ebbe la sua spiegazione – rilevava lo studioso bavarese – nel pericolo immediato che la Turchia vedeva negli sforzi dei rivoluzionari armeni, e nelle minacce delle potenze europee…” .
Si anticipavano in tal modo le tesi “giustificazioniste” e i ragionamenti che, successivamente, avrebbero fatto da sfondo allo scatenamento del grande genocidio armeno del 1915.
Va comunque rilevato che all’inizio, nella teorizzazione di tali soluzioni, si faceva riferimento innanzitutto agli spostamenti di popolazione soprattutto come processi di carattere volontario. I trasferimenti o gli scambi sarebbero dovuti avvenire solo con il consenso delle popolazioni interessate (anche se è evidente la relatività del concetto di “volontarietà”, anzi la sua inapplicabilità e contraddittorietà in condizioni di crisi, di gravi pressioni sociali, politiche, economiche o di guerra).
Tuttavia va rilevato che in queste prime “elaborazioni” teoriche dello “scambio di popolazioni” erano già presenti tutti quegli elementi che, nei decenni successivi, avrebbero condizionato la storia europea e i moderni meccanismi di costruzione dello Stato nazionale attraverso i più cruenti e disumani processi di “pulizia etnica”.
La teorizzazione degli spostamenti forzati prese piede in modo particolare alla vigilia e nel corso del primo conflitto mondiale, contestualmente all’applicazione su vasta scala di tale metodo. Nel 1915 il medico ed etnografo svizzero Georges Montandon (che dopo la guerra si sarebbe distinto per il suo antisemitismo radicale) rilevava che l’unico modo per risolvere gli attriti tra maggioranze e minoranze era “l’estirpazione di massa della popolazione non appartenente alla nazione e il suo reinsediamento oltre confine”. Un suo memorandum sull’argomento venne pubblicato in connessione con la Conferenza delle nazionalità riunitasi a Losanna nel 1916 .
Montandon distingueva le frontiere nazionali da quelle etniche e linguistiche rilevando che “due nazioni giungono facilmente ad un’intesa quando il tracciato della loro frontiera non deriva che da fattori geografici. Ciò che rende arduo un compromesso è sempre la questione della popolazione. Quando il vincitore sposta la frontiera la popolazione rimane sul posto ed ecco che si viene a creare una marca”. La soluzione del “problema” delle “marche”, ovvero delle regioni di confine abitate da minoranze, o da popolazioni aventi legami transfrontalieri, era, secondo lui “l’estirpazione di massa, al di là della frontiera, dei non appartenenti alla nazione, poi l’interdizione del diritto di proprietà e anche quello di soggiorno per gli stranieri nella provincia di frontiera” . Su queste basi Montandon proponeva concretamente l’espulsione dei tedeschi dall’Alsazia-Lorena (almeno quelli stabilitisi dopo il 1870), una volta riconquistata dalla Francia e lo scambio di popolazione fra tedeschi della Prussia orientale e i polacchi residenti in quella occidentale. Montandon prevedeva inoltre, nella sua precoce “ingegneria sociale ed etnica”, la formazione di uno Stato cecoslovacco e di una “Grande Serbia” anticipatrice della Jugoslavia, nonché l’unione alla Germania dell’Austria. Oltre allo scambio di popolazione fra ungheresi della Transilvania centrale e romeni della Transilvania settentrionale, l’etnografo svizzero proponeva uno scambio fra italiani di Trieste e dell’Istria, con i croati della Dalmazia centrale. Questi ultimi avrebbero dovuto essere trasferiti nella “Grande Serbia”, mentre gli italiani della Venezia Giulia in Dalmazia, per lasciare Trieste e l’Istria alla Germania-Austria unificate, quale loro sbocco nel Mediterraneo.
Le teorizzazioni di Montandon non erano isolate; si accompagnavano a quelle di Adolf Bartels – poeta, storico della letteratura e scrittore – che nel 1914 proponeva in un memorandum politico l’annessione della “Russia occidentale” alla Germania, con un’emigrazione organizzata di popoli . O a quelle di Heinrich Class, presidente della Lega pangermanista che propugnava uno scambio tra polacchi e russi residenti nei territori che sarebbero stati annessi alla Germania con i tedeschi che risiedevano nell’Impero zarista . Per non parlare del sionista britannico Israel Zangwill che, fondatore dell’organizzazione territorialista ebraica (noto per aver coniato la frase “una terra senza un popolo per un popolo senza terra” e per avere reso celebre l’espressione “melting pot” – facendone il titolo di un’opera teatrale), fu il primo a proporre nel maggio del 1917 (ancora prima della dichiarazione Balfour) il trasferimento degli arabi residenti in Palestina allo scopo di creare uno stato ebraico .
“La terra è abitata da 600.000 arabi – affermava Zangwill riferendosi allora alla Palestina – per cui dovremmo gentilmente persuaderli ad emigrare… Gli ebrei saranno ben contenti di pagare loro le spese e di comprare altresì le loro proprietà al loro effettivo valore…” .
Qualche anno dopo avrebbe affermato inoltre che “la redistribuzione delle nazionalità nell’interesse della prosperità generale è, mi sembra, una delle funzioni della Lega delle Nazioni e dev’essere attuata in molte parti d’Europa. È stata anche suggerita come soluzione della questione irlandese” .
Solo pochi anni dopo, nel 1923, la Convenzione di Losanna avrebbe sancito ufficialmente, con la mediazione britannica e della Lega delle Nazioni, il primo grande trasferimento forzato di popolazione del Novecento. I rivolgimenti e le violenze della prima guerra mondiale contribuirono a inasprire in termini sempre più estremi – dando una misura del degrado morale ed intellettuale che l’Europa stava sperimentando a causa del conflitto – le esigenze di espansione degli “Stati nazionali” e a rendere “ammissibile” o “tollerabile”, tra gli altri delitti contro l’umanità, anche quello della “pulizia etnica” e dei trasferimenti forzati.
2. Lo stravolgimento e la “nazionalizzazione” delle aree storicamente multietniche dell’Europa centro-orientale
Se si compara una carta politica dell’Europa dei primi anni del Novecento con quella odierna ci accorgeremo subito non solo degli enormi e molteplici spostamenti dei confini, della scomparsa di Stati e imperi e dell’apparire di nuove compagini nazionali, ma soprattutto del radicale mutamento subito dai toponimi e dell’identità di molte città e territori, della loro trasformazione da entità etnicamente composite a realtà mononazionali, segno dei profondi sconvolgimenti avvenuti nel tessuto sociale di gran parte del continente. Ampie regioni da sempre plurilingui e multiculturali, in cui da secoli si intrecciavano e convivevano etnie, lingue, culture e religioni diverse, in cui si sovrapponevano, nell’ambito di complesse relazioni sociali, economiche e di classe, varie nazionalità, sono state sottoposte – in particolare nella prima metà del Novecento – ad un cruento processo di “semplificazione” etnica, attraverso l’espulsione di grandi masse di individui.
In mezzo secolo, in alcuni casi nel breve volgere di alcuni anni, decine di importanti città – da sempre “nazionalmente complesse” e con una storia di intrecci e di compresenze etniche, culturali e religiose – hanno visto cambiare i loro nomi, cancellare il loro passato, assumere nuove, definitive e esclusive identità. Sotto la sferza dei nuovi processi di “nazionalizzazione “, di “semplificazione” o di “pulizia etnica”, i loro toponimi, espressione di antiche sedimentazioni storiche, furono ribattezzati e cancellati .
A spostarsi, assai più dei confini sono stati gli individui che a milioni furono costretti ad abbandonare i propri insediamenti storici, come i tedeschi della Prussia orientale e occidentale, della Posnania e dell’Alta Slesia, dei Sudeti, dell’area del Volga o del Banato , i greci dell’Anatolia, della Cilicia e del Ponto, i polacchi dell’Ucraina occidentale, gli ungheresi della Slovacchia, del Banato e della Transilvania, gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Si parla di sconvolgimenti etnici e culturali mai avvenuti prima in questa proporzione. Solo durante e dopo la seconda guerra mondiale i trasferimenti e le espulsioni hanno riguardato una massa di circa 18 milioni di persone. Alcune decine di milioni di abitanti furono coinvolti durante e dopo la “grande guerra”, a cui vanno aggiunti il milione di greci espulsi dall’Anatolia negli anni Venti del Novecento, le numerose centinaia di migliaia di turchi e musulmani cacciati dalla Grecia, dalla Tracia, dalla Bulgaria, le espulsioni e gli eccidi di quasi un milione di armeni dalla Turchia, o i trasferimenti forzati di milioni di persone di varie etnie all’interno dei territori dell’Unione Sovietica. Senza contare gli stermini e gli sconvolgimenti avvenuti durante l’occupazione nazista, con il genocidio e l’olocausto di oltre i due terzi degli ebrei d’Europa (dai cinque ai sei milioni di persone) e la morte di un’altra decina di milioni di persone fra prigionieri politici e militari, oppositori, rom, sinti, pentecostali, omosessuali, disabili, ecc.
La complessa realtà multietnica dell’Europa centrale ed orientale in meno di un secolo, e in particolare dopo le due guerre mondiali, fu stravolta e cancellata nel nome della “purezza” nazionale e del principio di esclusività etnica imposto dagli Stati nazionali. Delle intere comunità nazionali e linguistiche, presenti nei loro territori d’insediamento storico da secoli – in alcuni casi da millenni – furono letteralmente “spazzate”. La nascita dei nuovi Stati nazionali e l’applicazione del principio dell’esclusività nazionale basato sull’assioma “uno Stato – un popolo” nel volgere di pochi anni contribuirono a ridurre drasticamente il peso delle minoranze e del multiculturalismo.
Già nel 1919, dopo la prima guerra mondiale, gli appartenenti alle minoranze nazionali erano diventati un quarto della popolazione complessiva dell’Europa orientale rispetto alla metà dell’anteguerra. Dopo il secondo conflitto l’“omogeneità” nazionale degli Stati si era ulteriormente consolidata, riducendo ad una dimensione “residuale” la presenza di gruppi nazionali dislocati al di fuori dei propri Stati nazionali .
La complessità di relazioni culturali, la ricchezza sociale e civile derivante da antiche compresenze etniche sono state così inevitabilmente sacrificate per dare spazio a realtà sempre più uniformi, monolingui e monoculturali. Territori, regioni e città abituate da secoli all’uso e alla sovrapposizione di lingue diverse, all’interazione, allo scambio e alla convivenza fra diversi codici culturali, etnici e linguistici improvvisamente dovettero subire un processo di semplificazione e omologazione, sottostare ad un umiliante impoverimento civile ed umano.
3. I presupposti dell’“olocausto culturale”
La perdita della “complessità”, solo in parte compensata dal venire meno, con la scomparsa delle “diversità”, anche dei vari motivi di attrito e di scontro inevitabilmente a queste connessi, ha generato un inqualificabile “degrado” e impoverimento culturale della società. Un “vulnus” civile di portata storica, un grave e irreversibile danno al patrimonio dell’umanità per certi aspetti assimilabile al concetto di “etnocidio” o di “olocausto culturale”.
Le origini e i meccanismi di questo “olocausto culturale” sono solo in parte riconducibili al fenomeno del graduale “sovvertimento” dei rapporti, sociali, nazionali ed economici fra le cosiddette “nazioni dominanti” (i “popoli signori” o “master nation”) e le nazioni “subordinate” in Europa tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso.
Lo storico britannico Lewis Namier , che definiva il centro-est Europa come il “Medio oriente europeo” rilevava che “nelle numerose Irlande sparse in tutta l’Europa, tumulti e conflitti dovevano derivare dall’elevarsi delle classi inferiori e specialmente di quelle contadine, alla consapevolezza e all’azione politica. I conflitti nazionali e religiosi si intrecciavano ai movimenti agrari, inasprendosi a vicenda: la guerra era stata intrapresa sia per la proprietà nazionale che per quella personale della terra…”.
Secondo lo storico Andrea Graziosi ancora alla vigilia della “grande guerra”, e sino all’inizio del secondo conflitto mondiale, alcune etnie continuavano a svolgere un ruolo dominante dal punto di vista economico e sociale. Esse avevano monopolizzato gli strati sociali più elevati e dominato la vita urbana, contribuendo a rafforzare, con lo scontro e la sovrapposizione nazionale, anche la divisione tra città e campagna. In questa parte d’Europa la “nazionalità rendeva più forti i vincoli di classe, e nello stesso tempo i vincoli nazionali tagliavano verticalmente le classi sociali” .
In questo modo si era gradualmente creata – ed era ancora presente all’inizio del ventesimo secolo – una specie di catena gerarchica fra i diversi gruppi nazionali. Una catena che – rileva nel suo Guerra e rivoluzione Andrea Graziosi – “aveva al suo vertice, nel centro ed est europeo, tedeschi, russi e turchi, cui facevano da partner ungheresi, italiani, polacchi, greci e ai suoi anelli intermedi e inferiori popoli in via d’ascesa (serbi, rumeni, bulgari)”. Questi erano seguiti da popoli, che pur ancora marginali, stavano cercando di assumere maggiori spazi politici vista la loro dinamica partecipazione allo sviluppo economico (come i cechi) e altri le cui élite erano state da lungo tempo assimilate o eliminate, ed erano perciò quasi esclusivamente popoli contadini (come gli slovacchi, gli sloveni, i croati, i lituani, gli ucraini). La catena era chiusa da popoli privi sia di Stato che di territorio, e perciò più deboli ed esposti, nonostante il ruolo e la vitalità economici delle loro élite (come gli ebrei e gli armeni) per finire con gli zingari e altre comunità particolarmente emarginate .
La lotta per l’emancipazione sociale spesso dunque si intrecciava con quella per l’emancipazione nazionale e – anche se non inevitabilmente – rischiava di sfociare, nonostante secoli di pacifica convivenza – in tentativi di annientamento o di “pulizia” delle nazionalità ritenute “avversarie”. Il maggiore esponente dell’austromarxismo, Otto Bauer, nel suo fondamentale La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia, rilevava infatti, nel 1907, che “l’odio nazionale non era altro che un odio di classe modificato”.
L’affermazione del principio di nazionalità e dei concetti esclusivistici dello Stato nazionale (come basi dell’organizzazione politica europea) coincisero, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento – con i primi esempi di “ritirata” dei cosiddetti “popoli signori” dal “Medio oriente europeo”. Tale processo fu accompagnato, con la nascita di nuovi Stati nazionali, dalla “purificazione etnica” delle regioni interessate.
Per la prima volta veniva intaccato direttamente – come afferma lo storico Namier – “l’ancien régime” dei rapporti tra le nazionalità e le classi nell’area del “Medio oriente europeo” .
Questa realtà era formata dal complesso di nazionalità presenti negli imperi multinazionali, o che orbitavano, dal punto di vista economico e culturale, attorno alla Germania e all’Austria. Il suo collante era formato dalle élite tedesche o di cultura tedesca formanti un “reticolo urbano” che a suo tempo aveva costituito la spina dorsale dell’Impero asburgico. Un universo che aveva i suoi corrispettivi nei reticoli urbani abitati da altri “popoli signori”, spesso delle “isole” (russe, polacche, ungheresi, italiane, ma anche greche e armene, spesso con una forte percentuale di ebrei assimilati) collocate in un “mare” rurale abitato prevalentemente da altre nazionalità (che potevano essere di volta in volta ucraini, rumeni, croati, serbi…) .
La prima guerra mondiale segnò l’inizio della fine di questi “mondi paralleli e sovrapposti”, di queste storiche compresenze, contraddistinte da rapporti gerarchici e di classe, ma anche da antiche e radicate esperienze di reciproco arricchimento, di solidarietà e convivenza. Sino a che il secondo conflitto non ne determinò la definitiva scomparsa.
4. La cacciata dei “popoli signori”. Contraddizioni di un concetto
La cacciata dei “popoli signori”, ovvero il rivolgimento dei tradizionali rapporti etnici e delle “gerarchie” sociali ed economiche esistenti da secoli fra le varie nazionalità dell’Europa centrale e orientale spiega sino ad un certo punto il fenomeno delle “pulizie etniche”, o lo sradicamento di intere comunità avvenuto nella prima metà del Novecento.
La gerarchia tra diversi popoli e il presunto “dominio”, in talune aree, di alcuni di essi sugli altri è, ovviamente, da riferirsi alle rispettive élite sociali, politiche ed economiche. Questi strati sociali esercitavano, a loro volta, forme di dominio o di “sfruttamento” su gruppi e classi subalterne della loro stessa etnia, e spesso collaboravano con le élite dei popoli “non egemoni” allo scopo di assoggettare vasti strati di popolazione esposti allo sfruttamento economico e sociale (spesso appartenenti a diverse nazionalità).
Le stesse élite dei popoli non egemoni non si facevano scrupolo di sfruttare gli inferiori strati sociali ed economici della loro stessa nazionalità, o quelli, analoghi, delle “master nation”.
L’identificazione di un determinato “popolo” con una classe (anche quando storicamente la gran parte degli appartenenti ad una nazione si veniva a trovare, oggettivamente, nell’alveo dei gruppi sottoposti allo sfruttamento sociale ed economico) è il frutto del lungo perpetuarsi della propaganda prodotta dagli scontri nazionali nel periodo delle “building nation”, ovvero della formazione delle borghesie e degli Stati nazionali.
Le élite dei popoli definiti subalterni non si ponevano l’obiettivo, in questa fase di scontro, di eliminare le cause delle eventuali ineguaglianze e dello sfruttamento (che spesso erano “trasversali” rispetto alle appartenenze nazionali e linguistiche), ma di “sostituirsi” ai gruppi dominanti, imponendo su tutti il loro specifico portato nazionale. È emblematico l’esempio, nel periodo austro-ungarico, del confronto per il diritto all’istruzione pubblica fra le borghesie italiane, croate e slovene in Istria e a Trieste. Le forze liberal-nazionali italiane si prodigavano ad aprire ginnasi, licei e scuole medie superiori anche in aree compattamente abitate da croati e sloveni, ed a negare a questi, ovunque, il diritto ad un’istruzione superiore, mentre non si preoccupavano dell’altissimo tasso di analfabetismo, dell’indigenza economica e culturale e della mancanza di scuole elementari nelle aree urbane e proletarie allora prevalentemente italiane. La lotta per il diritto all’istruzione fra i diversi vertici nazionali era chiaramente indirizzata a perpetuare l’egemonia e il dominio degli stessi, non a migliorare le condizioni delle loro rispettive “nazionalità”.
È significativo quanto affermava, a questo proposito, nel 1900, la socialista istriana Giuseppina Martinuzzi: “Noi dunque osserviamo due borghesie che si disputano il possesso economico e morale della comune patria, abbindolando il popolo ingenuo cogli idealismi di patria e nazione. E mentre la borghesia italiana sfoggia argomenti ideali e patriottici per rimanere al possesso della situazione economica, la borghesia slava sfoggia sentimenti umanitari per impadronirsi della situazione morale ed economica. Ma né l’una né l’altra potendo raggiungere i loro intenti senza il concorso delle masse lavoratrici, é a queste che rivolgono il verbo patriottico, suscitando timori infondati tra gli italiani, bagliori d’ingannevoli speranze tra gli slavi, odi, disprezzi, rappresaglie, gelosie in quelli e in questi, producendo insomma una rovina morale negli animi semplici e incolti” .
Va rilevato che il “nazionalismo” costituiva uno straordinario strumento di organizzazione del consenso grazie al quale i gruppi dominanti riuscivano a sottomettere ed a indottrinare ideologicamente gli strati subalterni della loro stessa nazione, al fine di “mobilitarli” nella lotta permanente per la gestione del potere.
Classe e nazione diventavano apparentemente alleati, dunque, allo scopo esclusivo di imporre ad un intero popolo, puntando sul “mito” della nazione, gli obiettivi dei suoi gruppi dominanti. È in questo contesto di polarizzazione e di organizzazione di massa del moderno nazionalismo che si sono potute verificare, con le due guerre mondiali, le devastanti sopraffazioni, gli sradicamenti territoriali e l’eliminazione di intere comunità in quanto le “pulizie etniche” hanno potuto avvalersi di una straordinaria carica ideologica che spesso è riuscita a coniugare, in varie forme, dei presunti traguardi “rivoluzionari” o dei falsi obiettivi di rivolgimento sociale con degli altrettanto falsi interessi nazionali, etnici, religiosi o razziali.
L’invenzione del concetto della “colpa” o della “responsabilità collettiva” da attribuire a interi gruppi o nazioni hanno inoltre spianato la strada alla logica delle “punizioni collettive” estendibili indistintamente a tutti gli appartenenti a un popolo o una comunità, favorendo, o quantomeno offrendo un facile alibi ai grandi disegni di stravolgimento delle realtà multiculturali, di annientamento o spostamento di intere popolazioni. Con la fine della seconda guerra mondiale si è definitivamente dissolto “l’ancien régime” dei rapporti nazionali in gran parte d’Europa, ma al contempo è stata inferta una ferita mortale al tessuto sociale di territori nazionalmente e culturalmente plurali da cui sarebbero potuti maturare – in un’apprezzabile scala – i presupposti per una reale convivenza, sostituendo le vecchie gerarchie con nuove e più ricche relazioni interetniche.
5. Dal Trattato di Losanna a Potsdam. I “popoli mobili”
Nell’evoluzione del diritto internazionale e nella storia dei trattati la questione dei trasferimenti forzati o indotti di popolazione ha avuto uno spazio molto ridotto, anche se non sono mancati sviluppi ed elaborazioni che hanno di volta in volta posto l’accento, a seconda delle condizioni politiche e storiche, sulla necessità di sancirne l’illegalità, in quanto delitti contro l’umanità, e dall’altra di tollerarne l’applicazione, quale “misura” per risolvere insanabili conflitti etnici o controversie internazionali.
Il Codice Lieber del 1863, considerato una delle basi della prima Convenzione dell’Aia (del 1899) stabiliva, nell’articolo 23, che durante una guerra la popolazione civile non poteva essere “uccisa, resa schiava, deportata o trasferita forzatamente in nuovi distretti” .
Con il nuovo secolo e l’avvicinarsi della “grande guerra” tali prescrizioni andarono gradualmente scomparendo. Gli accordi immediatamente precedenti la prima guerra mondiale non contemplavano più infatti il caso della deportazione o dell’espulsione di massa nel diritto internazionale di guerra. La Convezione dell’Aia del 1907 non prevedeva tali fattispecie per il fatto – secondo il giurista George Schwarenberg – che esse non richiedevano un espresso divieto essendo tali pratiche “generalmente rifiutate, e considerate al di sotto del livello minimo di civiltà” .
Dopo pochi anni il primo conflitto mondiale, con i suoi massacri, avrebbe contribuito ad abbassare radicalmente tale livello di civiltà, rendendo giustificabili e tollerabili spostamenti forzati, e cacciate dalla loro terra di milioni di persone.
Il primo trattato internazionale tra due Stati che prevedesse uno scambio di popolazione fu sottoscritto alla vigilia della prima conflagrazione mondiale. Si trattava della Convenzione di Adrianopoli (o Edirne), conclusa, dopo la seconda guerra balcanica, tra Bulgaria e l’Impero ottomano nel novembre del 1913. La Convenzione era stata allegata al Trattato di pace di Costantinopoli siglato poco prima, nel settembre dello stesso anno. Il documento prevedeva lo scambio di popolazioni residenti in una fascia di 15 chilometri dalle due parti del nuovo confine che divideva la Tracia. Oltre 48.000 musulmani (turchi residenti nella Tracia occidentale) furono trasferiti nell’Impero ottomano e circa 46.000 cristiani ortodossi (bulgari abitanti della Tracia orientale) in Bulgaria. Come in altri casi precedenti e successivi la maggior parte della popolazione si era già spostata prima della sigla definitiva dell’accordo .
La seconda guerra balcanica innescò una serie di movimenti di popolazione anche all’interno degli Stati che avevano sconfitto l’Impero ottomano per poi combattersi tra loro: nel 1913, 15.000 bulgari lasciarono la Macedonia, a seguito della ritirata dell’esercito bulgaro e dell’occupazione dell’area da parte della Grecia, mentre 80.000 greci furono costretti a spostarsi e abbandonare le loro case in seguito al Trattato di Bucarest (10.000 dalle zone della Macedonia assegnate alla Serbia e alla Bulgaria, 70.000 dalla Tracia occidentale occupata dalla Bulgaria). I trasferimenti forzati proseguirono nel 1914, con l’esodo in Turchia dagli Stati balcanici di 250.000 musulmani, e di 200.000 greci espulsi dalla Tracia orientale (in parte deportati verso l’interno dell’Anatolia e dell’Asia minore).
Dopo la prima guerra mondiale, la Bulgaria e la Grecia si accordarono con il Trattato di Neuilly per uno “scambio volontario” di popolazioni. A seguito di quest’intesa negli anni Venti circa 100.000 bulgari e 50.000 greci dovettero abbandonare i propri antichi territori di insediamento. Lo scambio fu avviato solo dopo che i greci decisero di deportare, accampando presunte “necessità militari”, alcune migliaia di bulgari dalla Tracia insediando al loro posto profughi greci cacciati dall’Anatolia turca .
Lo scambio tra greci e bulgari in quel periodo fu, forse, uno dei pochi condotti senza attuare una violenta e diretta costrizione, quantunque non si potesse parlare, ovviamente, date le condizioni generali di tensione e di minaccia, di “volontarietà .
Per la prima volta venne usato il termine “rimpatrio” non per descrivere il rientro di un profugo al luogo d’origine, alla sua casa, quanto per intendere lo spostamento dal luogo natale per stabilirsi in un posto lontano che si presumeva fosse la sua “vera patria” .
Agli inizi del primo conflitto mondiale, e a seguito delle gravi sconfitte subite durante le guerre balcaniche, l’Impero ottomano, nel quale si era già affacciato, dal 1908, il movimento dei “Giovani Turchi” (che avrebbe portato l’Impero della Sublime Porta a trasformarsi, nel 1923, con la proclamazione della Repubblica, in uno Stato nazionale) intraprese delle politiche miranti a eliminare o cacciare i sudditi cristiani dell’Impero, in primo luogo greci e armeni.
Le repressioni del Governo guidato dai “Giovani Turchi” si rivolsero anche contro i nazionalisti arabi, con sanguinose repressioni a Beirut e Damasco, contro gli arabi palestinesi e contro la comunità ebraica palestinese (da Giaffa furono espulsi 9.000 ebrei, fra cui lo stesso David Ben Gurion, futuro primo capo del Governo israeliano). Nel 1911, a Salonicco, nel corso di un’assemblea segreta del partito dei Giovani Turchi “Ittihad Uterekki” (Unione e Progresso) le forze nazionaliste del movimento (che ebbero il sopravvento su quelle “costituzionaliste” che invece proponevano la trasformazione della Turchia in una federazione di popoli), decisero di avviare la soppressione degli armeni .
L’ordine ufficiale di deportazione degli armeni venne dato il 27 maggio del 1915 con una legge che autorizzava le autorità militari a reprimere e deportare le popolazioni civili sospettate di spionaggio e tradimento. La fase più acuta degli stermini, e il genocidio della popolazione armena, si svolse fra il 1915 e il 1916, durante la prima guerra mondiale (nella quale l’Impero ottomano intervenne a fianco dell’Austria e della Germania), e si concluse con l’uccisone (a seguito delle stragi di civili e resistenti, delle deportazioni, della prigionia in campi di internamento) di quasi due milioni di armeni .
A partire dal 1914, 150.000 greci furono espulsi a costretti a rifugiarsi in Grecia (nella Tracia occidentale, da cui furono allontanati circa 100.000 bulgari), mentre altri 50.000 venivano deportati verso l’interno dell’Anatolia .
Nel maggio del 1914, l’Impero ottomano e la Grecia raggiunsero un accordo preliminare per uno scambio di popolazioni . Lo scoppio della guerra fece fallire l’intesa, anche se le deportazioni di greci proseguirono nei due anni successivi, sino all’entrata della Grecia in guerra, a fianco dell’Alleanza, contro la Turchia, e al successivo conflitto greco-turco del 1919-1922 (il Trattato Sévres del 1920 assegnava alla Grecia l’area di Smirne) e alla sconfitta militare di Atene che portò al grande esodo di un milione e duecentomila greci .
Il documento che sancì, sul piano concreto e quello del diritto internazionale, un vero e proprio “salto di qualità” nella prassi degli spostamenti e dei trasferimenti forzati delle popolazioni fu certamente il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio del 1923 .
Già il 30 gennaio del 1923 era stata firmata la Convenzione per uno scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia che definiva le condizioni per i trasferimenti e gli indennizzi, la liquidazione delle proprietà e che stabiliva la non possibilità per coloro che erano stati trasferiti di fare ritorno.
La gran massa dell’oltre un milione e duecentomila profughi greci aveva però già abbandonato i loro territori a seguito della vittoriosa offensiva delle truppe di Mustafa Kemal Ataturk su quelle greche, nella fase finale del conflitto greco-turco (nel corso del quale l’esercito greco, nel 1919, dopo la conquista di Smirne, assegnatagli dal Trattato di Sévres, si spinse, per abbattere il Governo kemalista, sino a pochi chilometri da Ankara).
Nell’agosto del 1921 scattò la controffensiva di Mustafa Kemal, nell’ambito della cosiddetta “lotta per l’indipendenza” turca, che costrinse a una precipitosa ritirata l’esercito greco e che ebbe conseguenze ancor più devastanti per la popolazione civile. Nel settembre del 1922 la città di Smirne, dove si erano concentrate centinaia di migliaia di profughi, cadde in mano alle truppe turche. Alcuni giorni dopo, dopo stragi e saccheggi, la città fu distrutta da un gigantesco incendio, che causò non meno di 15.000 vittime.
I greci furono cacciati non solo dall’Anatolia occidentale e da Smirne, ma anche da ampie zone dell’entroterra. Numerosi furono i decessi durante la fuga, mentre 70.000 profughi morirono di malattia o denutrizione sulle navi o nei campi di accoglienza in Grecia.
Lo scambio forzato alla fine interessò (secondo le stime più accurate) 1.221.849 greci dell’Anatolia occidentale (secondo il censimento del 1928), di Smirne, della Cilicia e delle aree del Ponto sulle coste sud-orientali del Mar Nero e 350.000 turchi (musulmani) della Tracia, di Salonicco, di Creta e di altre regioni greche. L’accoglienza dei profughi, che costituivano quasi un quarto della popolazione complessiva della Grecia (4,5 milioni di abitanti nel 1922), causò notevoli difficoltà al Paese, che fu costretto a chiedere un prestito alla Società delle Nazioni .
Il principale criterio per definire quali popolazioni dovessero essere “scambiate” rimaneva quello religioso, tanto che i musulmani cretesi di lingua greca furono trasferiti in Turchia, e da questa vennero espulsi in Grecia, oltre a ex sudditi ottomani di lingua greca, anche circassi e curdi della chiesa greco-ortodossa (che, nei secoli, grazie al sistema dei “millet” aveva potuto comunque conservare la propria identità e una certa autonomia). Tuttavia l’aspetto “nazionale” rimaneva preminente, in un contesto nel quale il criterio “etnico” e gli obiettivi di estremizzazione nazionale imposti dai nascenti Stati nazionali portarono, in poco tempo, creando le basi per la creazione della Grecia e della Turchia moderne, alla distruzione dell’ellenismo dell’Asia minore e della presenza turca nei Balcani.
Lo scambio sancito dal Trattato di Losanna si basò inoltre su una fondamentale “asimmetria”: il numero dei turchi esodati fu, infatti, meno di un terzo del numero complessivo dei greci costretti ad abbandonare per sempre le loro case. Un’asimmetria che si trasfuse anche nelle percezioni dell’opinione pubblica: quella greca infatti visse il Trattato di Losanna come un’enorme sconfitta, definita la “catastrofe dell’Asia minore” (Mikrasiatiki catastrofi), data la scomparsa della millenaria presenza greca in quell’area. Per i turchi si trattò invece dell’apice della “guerra d’indipendenza” che aveva portato, sulle spoglie dell’Impero ottomano, alla nascita del nuovo Stato nazionale turco.
A ispirare il primo articolo della Convenzione di Losanna (sottoscritta qualche mese prima dell’analogo Trattato), che definiva i termini dello scambio forzato di popolazioni, fu Fridtjof Nansen, un ex esploratore polare norvegese che si occupava, per contro della Società delle Nazioni, di soccorrere i rifugiati.
Ma la formula del trasferimento forzato fu formalmente avallata dalle diplomazie delle potenze alleate: Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone.
La Convenzione e il Trattato di Losanna costituirono un fondamentale precedente nelle relazioni internazionali in materia di scambio di popolazioni, in quanto per la prima volta sancirono formalmente la prassi del trasferimento “forzato”, ovvero contrario alla volontà delle popolazioni interessate.
Losanna rappresentò un importante precedente anche sul piano del diritto internazionale poiché per la prima volta, in assoluto, la decisione relativa al trasferimento forzato non conseguiva solo dall’accordo bilaterale fra gli Stati interessati, ma dalla mediazione delle grandi potenze – e dunque dal loro avallo – nell’ambito di una conferenza diplomatica internazionale, il che contribuiva a legittimare sia la validità giuridica generale di tale modello che a trasformarlo in un esempio da applicare in futuro .
La fine della prima guerra mondiale provocò, a seguito della dissoluzione dei tre imperi multinazionali, quello austro-ungarico, quello zarista e quello ottomano, e con la nascita di nuovi Stati nazionali, una nuova fase di sconvolgimenti e di spostamenti etnici. Una delle conseguenze dei trattati di pace fu il drastico ridimensionamento dello spazio politico in cui avevano vissuto a lungo tedeschi e ungheresi, che dovettero emigrare dai territori in cui erano sorti i nuovi Stati nazionali (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia) o in cui altri Stati si erano allargati (Romania), per rientrare in ciò che rimaneva, dopo la dissoluzione degli imperi, delle loro nazioni.
Nei sei anni successivi al 1918 ben 423.000 ungheresi dovettero emigrare dalla Romania, dalla Cecoslovacchia e dalla Jugoslavia (l’allora Regno degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi). Entro il 1920 la Repubblica di Weimar aveva già accolto circa 900.000 tedeschi provenienti dall’Alsazia-Lorena (ceduta alla Francia), dallo Schleswing settentrionale (ceduto alla Danimarca), dalla regione di Eupen-Malmedy (andata al Belgio). Circa mezzo milione proveniva dall’est, ovvero dalla Posnania, dalla Pomerania e da Danzica (divenute parti del cosiddetto “corridoio polacco”) e dalle altre zone della Prussia cedute alla Polonia. Nelle maggiori città della Pomerania e della Posnania, quasi completamente tedesche prima della guerra, rimasero solo delle piccole minoranze tedesche. Dalla Slesia, che fu oggetto di contesa tra tedeschi e polacchi tra il 1919 e il 1921, emigrarono 170.000 tedeschi (dall’area successivamente annessa alla Polonia), mentre circa 100.000 polacchi abbandonarono le aree rimaste alla Germania. Una parte dei tedeschi presenti nei Paesi baltici (i Deutschbalten) furono costretti ad abbandonare in particolare l’Estonia e la Lettonia. In Polonia rimpatriarono da varie zone, tra il 1918 e il 1922, oltre 1 milione e 200.000 persone (quasi la metà ucraini e bielorussi che, fuggendo dalla Russia sovietica, si insediarono nelle regioni di confine orientali della nuova Polonia).
Negli anni Trenta enormi masse di popolazione furono trasferite forzatamente da una regione all’altra dell’Unione Sovietica, a seguito dei processi di “dekulakizzazione”, della collettivizzazione delle campagne o al fine di neutralizzare popoli ed etnie considerati poco fedeli o pericolosi per il regime. La distruzione dell’economia rurale e la politica di requisizione dei raccolti (con l’ammasso forzato e la formazione obbligata, a partire dal 1927, dei Kolchoz e dei Solkhoz) provocarono fra il 1932 e il 1933, la più grande carestia della recente storia europea, che colpì in modo particolare le repubbliche dell’Asia centrale (il Kazakhstan) e l’Ucraina, dove la carestia provocò la morte di circa 3,5-3,8 milioni di persone (7 milioni secondo stime ucraine) assumendo connotati da genocidio (definito dagli ucraini Holodomor).
Gran parte delle vittime fu causata dalla volontà punitiva di Stalin nei confronti dell’indipendentismo ucraino, così come dell’autonomia e del “socialismo nazionale” sostenuti dai dirigenti comunisti di quella repubblica sovietica. Alcune centinaia di migliaia di persone persero la vita, a causa degli stenti, nel Caucaso settentrionale e nell’area del Volga (con un alto numero di vittime fra i tedeschi presenti storicamente in quella zona), mentre circa un milione e mezzo di persone perirono in Kazakhstan. Negli anni precedenti furono deportati quasi due milioni di cosacchi. Altre deportazioni avvennero in concomitanza con la “grande purga” di Stalin del 1936- 1937, iniziata, dopo l’assassinio di Kirov, con il primo grande processo di Mosca contro Zinov’ev e Kamenev, che dette luogo ad un interminabile serie di processi politici e a oltre 600.000 esecuzioni capitali . Il patto Molotov-Ribbentrop, del 1939, che portò all’occupazione sovietica di parte della Polonia, dei Paesi baltici, della Bessarabia e della Bucovina settentrionale (e più tardi della Carelia finlandese, a conclusione della guerra contro la Finlandia), determinò un’altra serie di spostamenti forzati e di espulsioni di massa (soprattutto a danno di polacchi, finlandesi, rumeni e moldavi).
Particolare dimensione assunsero i trasferimenti imposti fra le due guerre dal regime nazista nei confronti delle comunità tedesche presenti al di fuori del Reich, allo scopo di riportare in patria i “tedeschi etnici” (Volksdeutsche) nell’ambito di un’operazione, definita “Heim ins Reich”, che avrebbe dovuto condurre, nell’ambito della riorganizzazione razziale dell’Europa centro-orientale, all’unione di tutti tedeschi in una “Grande Germania”. Decine di migliaia di tedeschi furono fatti rimpatriare dai Paesi baltici, dalla Volinia, dalla Galizia, dalla Bessarabia, dalla Bucovina settentrionale e meridionale, dalla Dobrugia, dall’Alto Adige-Sud Tirolo, dalla Croazia nord-orientale .
Gli stermini e le deportazioni di milioni di persone attuati dai nazisti nei territori occupati durante la seconda guerra mondiale, e la stessa Shoah, il genocidio degli ebrei, fecero assumere al fenomeno dello spostamento forzato delle popolazioni una connotazione estrema, funzionale ad un più ampio e disumano progetto di dominio e di annientamento razziale.
Il “Generalplan Ost” dei nazisti prevedeva il trasferimento forzato di una massa enorme di popolazioni, soprattutto all’Est, che avrebbe potuto arrivare a circa 60 milioni di persone. La somma e l’incrocio fra la politica di sterminio razziale, le operazioni di guerra e l’attuazione del “Generalplan Ost” nell’ambito dell’ideologia nazionalsocialista dello “Spazio vitale – Lebensraum” causarono in maniera diretta o indiretta la morte di decine di milioni di persone (si parla di circa 17-18 milioni di vittime), in particolare ebrei e slavi (più di cinque milioni di ebrei degli oltre 9 milioni presenti in Europa nel 1939, dai due ai tre milioni di polacchi non ebrei, e numerosi milioni di altre vittime tra russi, bielorussi, ucraini, cechi, e altre etnie o confessioni, come gli zingari – sinti e rom – i cui componenti erano stati definiti “untermenschen”, subumani). Alla fine della seconda guerra mondiale in Europa c’erano, secondo alcune stime, circa 40 milioni di perone sradicate dalla propria terra, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fuggivano di fronte all’avanzare dell’esercito sovietico.
La sconfitta militare del Terzo Reich e l’avanzata dell’Armata rossa sovietica nel centro-est europeo determinarono, di converso, l’eliminazione quasi totale della storica presenza tedesca nell’Europa orientale.
Circa 13 milioni di tedeschi furono espulsi o deportati dalle regioni annesse dalla Polonia e dall’URSS, dalla Cecoslovacchia, e da altre aree dell’Europa sud-orientale (di questi circa due milioni morirono a seguito delle sofferenze, delle privazioni o delle repressioni). Circa sette milioni furono espulsi dalla Polonia e oltre tre milioni, a seguito dei decreti Beneš, dalla Cecoslovacchia (Sudeti e Slovacchia occidentale).
Oltre un milione di polacchi (ed ebrei) rimpatriarono in Polonia (i cui confini, dalla Linea Curzon all’Oder-Neisse, erano stati spostati di centinaia di chilometri ad ovest) dopo essere stati trasferiti o espulsi dall’URSS (Ucraina, Bielorussia, Lituania).
Verso la fine della guerra si estese, anche tra le grandi potenze che sarebbero risultate vincitrici, il concetto dell’ammissibilità degli spostamenti forzati di popolazioni come parte della soluzione del “nuovo equilibrio europeo” e dunque la quasi unanime applicazione del “principio di Losanna” (in particolare se riferito agli sconfitti).
Va rilevato che già nel 1940 il “Foreign Research and Press service” del Governo britannico (emanazione del prestigioso “Royal Institute of International Affairs”) preparò un Memorandum sui trasferimenti di popolazione in Europa che sarebbero serviti, dopo la fine della guerra, a risolvere i problemi delle minoranze. L’Ente elaborò delle proposte di spostamenti sul confine rumeno-ungherese, ai confini tra Italia e Jugoslavia, tra la Cecoslovacchia e l’Ungheria. L’esigenza di procedere a espulsioni di massa derivava dall’obiettivo britannico di dare vita, dopo la guerra, a delle confederazioni di Stati nell’Europa centrale e orientale per affermare la sfera d’influenza inglese e contrastare quella sovietica. Nel novembre del 1943 il Foreign Office costituì l’“Interdipartimental Committee on the Transfers of Population”. Nel 1944 dopo che il Governo britannico si era indirizzato a stabilire il nuovo confine tedesco-polacco sull’Oder-Neisse, il Comitato valutava che si sarebbero dovuti espellere più di dieci milioni di tedeschi. Il progetto delle “confederazioni” fallì a seguito dei successi militari e diplomatici di Mosca.
Il principio dei trasferimenti forzati venne sostanzialmente condiviso dalle potenze occidentali e dall’Unione Sovietica. Emblematico fu a questo proposito il discorso pronunciato da Winston Churchill, il 15 dicembre del 1944 alla Camera dei comuni: “Per quanto è dato vedere, l’espulsione – affermava il primo ministro britannico – è la soluzione più soddisfacente e definitiva. Non vi saranno più commistioni di popoli che causano infiniti guai come in Alsazia-Lorena. Si farà piazza pulita. La prospettiva di sradicare una popolazione non mi spaventa affatto, così come non mi spaventano questi trasferimenti di massa, oggi più possibili che in passato grazie alle tecniche moderne”.
Le conferenze di Yalta, Teheran e Potsdam dettero pieno avallo a questa impostazione.
Il “principio di Losanna” che riconosceva l’ammissibilità degli spostamenti forzati, anche sul piano del diritto internazionale, trovò conferma nell’articolo XIII della Dichiarazione di Potsdam, sottoscritta dai Governi del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica nell’agosto del 1945. In tale articolo si rilevava, infatti, che: “I tre Governi, avendo considerato la questione in tutti i suoi aspetti, riconoscono la necessità di provvedere al trasferimento in Germania delle popolazioni tedesche, o di suoi elementi, attualmente presenti in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria. Essi concordano altresì che qualsiasi trasferimento dovrà essere espletato in maniera umana e ordinata”.
Le espulsioni purtroppo avvennero in un clima tutt’altro che “umano e ordinato”, causando la morte di almeno due milioni di persone. Si affermò il concetto della “colpa collettiva” per le efferatezze commesse nel corso della seconda guerra mondiale dai nazisti. Nel clima influenzato dalle decisioni di Potsdam, vari Paesi decisero di espellere le comunità tedesche o le componenti nazionali degli Stati che avevano occupato i loro territori durante il secondo conflitto mondiale anche senza un’esplicita “sanzione politica o giuridica” (come i decreti Beneš in Cecoslovacchia o le decisioni sull’espulsione in Polonia). L’ondata di esodi e trasferimenti coinvolse anche altre componenti nazionali: gli ungheresi della Slovacchia, della Transilvania e della Jugoslavia (Banato, Ba?ka, Vojvodina), gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, i rumeni della parte di Bucovina passata all’URSS. Come afferma la storica Marina Cattaruzza, “mai un’epoca fu più favorevole per liberarsi in un colpo solo delle proprie minoranze dei mesi immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale”.
6. L’esodo degli italiani. Caratteristiche e interpretazioni
Lo spostamento dei confini a seguito della seconda guerra mondiale e il conseguente trasferimento (forzato o indotto) di buona parte delle popolazioni residenti nel territorio del proprio insediamento storico interessarono direttamente anche l’area della Venezia Giulia e l’Adriatico orientale. A segnare il destino di questi territori fu il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio del 1947 e il successivo Memorandum di Londra del 1954, che fissarono le nuove frontiere fra Italia e Jugoslavia.
Con il Trattato del 1947 furono ceduti alla Jugoslavia la gran parte del territorio istriano con Pola, le città di Fiume e Zara, le isole del Quarnero (Cherso e Lussino) e quelle di Lagosta e Pelagosa. Per l’Istria nord-occidentale (a settentrione del Quieto) e la città di Trieste si prefigurò la costituzione del Territorio Libero di Trieste (TLT), diviso nuovamente in Zona A (Trieste e dintorni) e Zona B (Capodistriano e Buiese), sottoposte rispettivamente all’amministrazione militare alleata ed a quella jugoslava.
La Conferenza di pace respinse la richiesta della delegazione italiana di attuare un plebiscito popolare nell’intera Venezia Giulia .
L’esodo degli italiani ebbe inizio già prima della sigla del Trattato, soprattutto a Fiume e a Pola, quando per una parte della popolazione – che aveva ampiamente provato le conseguenze dell’occupazione jugoslava – era ormai evidente che quei territori sarebbero stati definitivamente ceduti . Ancor prima era avvenuto il trasferimento degli italiani da Zara.
Un primo significativo esodo dalla Dalmazia era avvenuto già a conclusione della prima guerra mondiale, a seguito dell’annessione (riconosciuta dal Trattato di Rapallo del 1920) della Dalmazia (tranne Zara e alcune isole) al nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Alcune decine di migliaia di italiani dell’area lasciarono le loro terre per trasferirsi a Zara, nelle isole quarnerine, a Trieste o in altre città italiane (la gran parte emigrò oltre oceano).
Il Trattato di pace apriva così un drammatico dilemma per gran parte della popolazione italiana: o rimanere in balia di un potere che non offriva alcuna garanzia sul piano della sicurezza personale e delle libertà civili, così come su quella del proprio sentire nazionale e politico, oppure abbandonare tutto per prendere una via dell’esilio che appariva assai incerta . Proseguì inoltre, ed anzi assunse proporzioni quasi incontrollabili, l’ondata di processi politici e di condanne contro i vari “nemici del popolo”. Di fronte al dilagare del fenomeno era assente, nel potere jugoslavo, qualsiasi disponibilità a rimettere in discussione la strategia ed i comportamenti concreti che avevano portato al punto di rottura i rapporti tra autorità e la gran parte della popolazione italiana. L’esodo, per il regime, era da addebitarsi esclusivamente all’azione propagandistica delle forze “reazionarie” e non al nazionalismo di una parte dei nuovi poteri popolari, alla repressione e alle massicce campagne di epurazione condotte dalle autorità, al clima di insicurezza e di negazione delle libertà civili che il nuovo sistema aveva introdotto.
Il fenomeno dell’esodo continuò in varie ondate, anche negli anni successivi, assumendo proporzioni e dimensioni tali da snaturare e sconvolgere completamente l’identità culturale e gli equilibri etnici e sociali dell’intera regione.
Il Memorandum di Londra del 1954, che assegnò la Zona B alla Jugoslavia e Trieste all’Italia, produsse l’ultima ondata di trasferimenti su vasca scala, sradicando gran parte della popolazione italiana del Buiese e del Capodistriano.
Sotto il profilo storico l’esodo si tradusse, come rilevato dallo storico Raoul Pupo, “nel ritiro della presenza nazionale italiana da una regione che l’aveva vista attiva, come elemento originario e costitutivo, senza soluzione di continuità dall’epoca della romanizzazione in poi” . L’esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e dalla Dalmazia nel dopoguerra segnò, rispetto a tutti gli altri mutamenti demografici che interessarono nel passato quest’area, una novità sostanziale: a scomparire fu quasi un’intera componente nazionale, nell’insieme delle sue articolazioni sociali.
Alla fine la regione fu abbandonata da quasi 300.000 persone (in base a stime e fonti diverse l’esodo, nelle sue varie fasi, avrebbe coinvolto un numero di persone oscillante dalle 200.000 alle 350.000 unità) .
Le cittadine della costa occidentale dell’Istria ed i principali centri urbani della regione furono quasi completamente svuotati e, soprattutto, venne snaturata e cancellata in modo irreversibile, a conclusione di un radicale processo di sradicamento, l’identità plurale e la fisionomia culturale, linguistica e nazionale dell’Adriatico orientale.
Una delle caratteristiche specifiche dell’esodo istriano è che esso non fu determinato da provvedimenti formali di espulsione (come in Cecoslovacchia o in Polonia), e che da parte delle autorità jugoslave non venne attuata una politica ufficiale di espulsione (anche se non mancarono iniziative mirate all’allontanamento coatto di individui o segmenti di popolazione ritenuti avversi al regime). In effetti, a concepire la soluzione del trasferimento della popolazione di “lingua d’uso” italiana, disciplinandone i meccanismi, furono le stesse disposizioni del Trattato di pace e del Memorandum di Londra, con l’introduzione del meccanismo delle opzioni.
In base al paragrafo 2 dell’articolo 19 del Trattato di pace ai cittadini di lingua d’uso italiana veniva concessa infatti la facoltà di optare, entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato, a favore della cittadinanza italiana, con l’obbligo però di trasferirsi definitivamente in Italia a distanza di un anno dalla presentazione della domanda d’opzione. Più precisamente l’articolo 19 stabiliva che “lo Stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell’opzione si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione è stata esercitata” . L’Assemblea federale della RSF di Jugoslavia emanò, il 27 novembre del 1947, la legge sulla cittadinanza per i territori annessi, che fu completata (il 2 dicembre del 1947) da un apposito regolamento, il quale stabiliva, da parte jugoslava, i criteri e le procedure per la concessione delle opzioni: tali disposizioni prevedevano espressamente l’espulsione, ovvero l’obbligo di trasferirsi in Italia, entro un anno dall’esercizio del diritto di opzione.
Come era successo altre volte nella storia (dopo l’annessione dell’Alsazia-Lorena al secondo Impero germanico, o nel caso del nuovo assetto emerso nei Balcani dal Congresso di Berlino del 1878) il diritto di opzione diventava di fatto una specie di legittimazione formale o di strumento giuridico per favorire e regolare degli spostamenti (indotti o forzati) di popolazione .
Da varie parti l’esodo italiano è stato definito di tipo “volontario” o frutto di una “libera scelta”. Gli accadimenti storici rilevano però l’esatto contrario. Di fronte alle forti restrizioni dei diritti umani e delle libertà civili, al timore o alla concreta minaccia di perdere la propria identità nazionale e linguistica, alle paure derivanti dalle conseguenze del libero manifestare le proprie convinzioni religiose, culturali o politiche e, in genere, viste le ricadute oggettive della natura totalitaria del regime comunista jugoslavo, per gran parte della popolazione italiana quella dell’esodo appariva come una scelta obbligata, come l’unica soluzione possibile per salvaguardare la propria libertà personale, e in molti casi, la propria incolumità.
Sotto questo punto di vista l’esodo degli italiani dall’area dell’Adriatico orientale può essere visto come uno spostamento di popolazione “indotto”, le cui cause e fattori, per la loro stessa natura, spesso sono difficilmente distinguibili da quelle tipiche dei “trasferimenti forzati” e pertanto contigue al concetto di “coercizione”.
Alcuni teorici, data la difficoltà di distinguere oggettivamente tra i vari tipi di spostamenti forzati, hanno coniato, per quella che si potrebbe definire “la zona grigia” tra “semivolontarietà” e “coercizione”, la definizione di “semivoluntary compulsed expulsions”.
Per le sue specifiche caratteristiche l’esodo istriano dunque, può essere annoverato tra i trasferimenti “indotti” che, pur non avendo le specificità tipiche delle deportazioni e delle espulsioni, si trova ad avere in comune con queste la peculiarità dell’imposizione di un atto contro la volontà.
Su questi aspetti lo studioso di diritto delle minoranze Theodor Veiter affermava, nel 1967, che: “L’espulsione o la fuga di massa degli italiani dai territori ceduti alla Jugoslavia con il Trattato di pace del 1947 sono di natura complessa. In primo luogo bisogna partire dalla considerazione che la fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare un’espulsione di massa. È vero che tale fuga si configura come un atto apparentemente volontario. Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria terra o patria d’origine, non compie volontariamente la scelta dell’emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio Paese” .
In base alle recenti disposizioni in materia di diritto umanitario il trasferimento di una popolazione contro la propria volontà, ovvero in condizioni ambientali, politiche e di pressione tali da indurre i propri componenti a intraprendere una scelta che non avrebbero mai preso se queste condizioni non si fossero concretizzate, è da considerarsi assimilabile, nella sua interpretazione estensiva, al concetto di “spostamento forzato”, e dunque ad una violazione dei diritti dell’uomo. Naturalmente le motivazioni, le scelte e i comportamenti dei vari individui all’interno del fenomeno collettivo dell’esodo furono estremamente complessi e diversificati tra loro e le prove della “coercizione”, o di atti contro la volontà, in assenza di provvedimenti formali di espulsione, sono certamente difficili da configurare giuridicamente.
Tuttavia rimane chiara la cornice storica e la rilevanza etica e morale di un fenomeno, come quello dell’esodo degli italiani, che va visto innanzitutto per gli effetti che ha prodotto: lo sradicamento e l’allontanamento quasi totale di una popolazione autoctona, la parziale cancellazione della sua presenza culturale, civile e linguistica. In assenza di precise formulazioni giuridiche, che possano trovare concreto riferimento nelle attuali disposizioni sul diritto umanitario, il fenomeno dell’esodo dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia si avvicina certamente ad assumere i contorni, sul piano più generale dello “ius gentium” o del diritto naturale, di una grave violazione dei valori fondamentali di giustizia e umanità.
Considerato inoltre che, a seguito dell’esodo, è stata quasi completamente o prevalentemente cancellata la presenza culturale, civile e linguistica di una comunità nazionale nella sua area di insediamento storico, sradicata la realtà sociale e nazionale di un gruppo al punto da stravolgere e modificare profondamente l’identità di un territorio, si potrebbe coniare, per descrivere gli effetti di questo processo, il concetto di “olocausto socio-culturale” o di “eradicazione etnica” .
7. Oltre Potsdam. La condanna internazionale dei trasferimenti forzati
Gradualmente, dopo Potsdam, si fece largo nell’opinione pubblica mondiale e, di conseguenza, anche fra i vertici politici delle grandi potenze, la convinzione che i trasferimenti di massa e gli spostamenti forzati di popolazioni, quali misure per risolvere gli equilibri nazionali e geo-politici, non fossero più tollerabili ed, anzi, risultassero incompatibili con i nuovi orientamenti del diritto internazionale che stavano dando particolare rilevanza alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Un salto di qualità avvenne con l’istituzione del Tribunale militare internazionale di Norimberga, e l’approvazione, a Londra, l’8 agosto del 1945, del suo Statuto. Al di là delle numerose critiche emerse sinora sulla sua effettiva legittimità (il fatto che sia stato costituito dai “vincitori” del secondo conflitto mondiale per giudicare i “vinti”, e che il suo funzionamento fosse basato su norme in parte non esistenti al momento in cui erano stati commessi i crimini, in violazione cioè del principio “nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege”), lo Statuto del Tribunale di Norimberga introduceva per la prima volta la categoria giuridica dei “crimini contro l’umanità” (accanto a quelli contro la pace e ai crimini di guerra). Nella definizione si parlava di “assassinio, sterminio, deportazione e altri atti inumani commessi nei confronti di qualsiasi popolazione civile prima o durante la guerra”. Un altro aspetto non secondario del Tribunale di Norimberga era che, nei suoi criteri di giudizio, ribadiva chiaramente il concetto di “responsabilità individuale” (fondamentale principio del diritto penale) ponendo così un argine, anche di fronte all’opinione pubblica, all’ideologia della “responsabilità collettiva” che proprio in quei momenti stava contribuendo a legittimare le deportazioni in massa di parte dei “popoli sconfitti”.
Al ben noto processo contro i capi nazisti conclusosi nell’ottobre del 1946, fecero seguito altri processi celebrati dai tribunali militari americani. Uno di essi giudicò gli imputati responsabili dell’“Ente governativo nazista che si era occupato del reinsediamento dei Volksdeutschen” e di progettare la riorganizzazione razziale dell’Europa centrale e orientale . Durante questo processo fu contestata l’idea stessa che le espulsioni e i reinsediamenti potessero essere considerati dei legittimi strumenti di governo. L’accusa infatti sostenne che “l’espulsione di intere popolazioni dalle proprie terre natali e il reinsediamento di coloni al loro posto costituivano dei crimini contro l’umanità”.
I difensori degli imputati ricorsero all’argomento che le espulsioni erano state condotte nel passato in svariate altre occasioni da altri Stati e che le stesse potenze vincitrici le avevano “tollerate”. Nella requisitoria finale l’accusa affermò che la “legge non ha ancora riconosciuto che due torti fanno un diritto”, aggiungendo che “se altri hanno commesso ciò di cui questi imputati sono accusati, anch’essi hanno commesso dei crimini”.
La nascita dell’ONU (con il suo Statuto del 26 luglio 1945) favorì l’affermazione delle basi fondamentali della tutela internazionale dei diritti dell’uomo. Il 9 dicembre del 1948 a New York l’Assemblea generale delle Nazioni Unite proclamò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nel 1948 la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio formalizzava definitivamente l’inammissibilità e la punibilità delle pratiche di spostamento forzato, in particolare di quelle basate su discriminanti etniche .
La quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili in tempo di guerra, siglata il 12 agosto del 1949, annoverò le deportazioni fra i crimini di guerra ribadendo che “i trasferimenti forzati individuali o di massa di persone protette, come le deportazioni da un territorio occupato o a quello di qualunque altro Paese, sono vietati a prescindere dalle loro motivazioni”. Si stabiliva inoltre che nel caso in cui il numero delle vittime fosse molto alto, la deportazione potesse esser considerata un “genocidio” (termine coniato nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin per descrivere le politiche naziste in Polonia). La Convenzione di Ginevra ribadiva l’obbligo di consentire ai civili, dopo la cessazione delle ostilità, di ritornare, e il divieto di trasferire nel territorio occupato parte della popolazione civile dello Stato occupante.
Con l’approvazione nel 1966 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, che sancivano fra l’altro il diritto, per tutti i popoli, all’autodeterminazione, si cementava il nucleo giuridico fondamentale dei diritti dell’uomo.
Un ulteriore salto di qualità su questo piano venne registrato con l’istituzione fra il 1993 e il 1994, da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU, di due tribunali penali internazionali, il Tribunale per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia e il Tribunale internazionale per il Ruanda , nonché a livello europeo, con l’approvazione, nel 2000, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Va rilevato che la prassi giuridica del Tribunale dell’Aia per l’ex Jugoslavia ha posto in evidenza, in più occasioni, la necessità di ricorrere ad un’interpretazione estensiva del concetto di deportazione e di trasferimento forzato di popolazioni. Nel processo contro Milorad Krnojelac, l’accusa e lo stesso Tribunale rilevavano, infatti, nel 2002, che: “Il termine deportazione forzata non deve essere interpretato in senso restrittivo come se fosse limitato al ricorso della forza fisica. Tale termine può comprendere la minaccia dell’uso della forza o della coercizione, come quella causata dal timore della violenza, della costrizione, della prigionia, dalla pressione psicologica o dall’abuso di potere. L’elemento essenziale è il fatto che lo spostamento è in sé contro la volontà, dove le persone coinvolte non godono di una reale possibilità di scelta”.
Il principale riferimento per quanto riguarda la sanzione internazionale degli spostamenti forzati di popolazione rimane comunque l’articolo 7 dello Statuto della Corte penale internazionale siglato a Roma il 17 luglio del 1998 . Lo Statuto del Tribunale distingue nettamente il reato di genocidio dagli altri crimini contro l’umanità. Al punto d) dell’articolo 7 si configurano in particolare le caratteristiche del reato di “deportazione e trasferimento forzati di popolazione” a cui il Tribunale da un significato estensivo, quale espressione più generale dello “ius gentium”, considerando la punibilità di tali atti se perpetuati “contro la volontà” degli individui.
Tuttavia gli spostamenti coatti e i trasferimenti di popolazioni, nonostante le più severe disposizioni e i divieti del diritto internazionale, sono proseguiti, senza particolari interventi atti a prevenirli o a contenerli, anche nella seconda metà del ventesimo secolo per estendere le loro dolorose conseguenze al nuovo millennio.
Fra gli esempi più eclatanti vi è quello dell’espulsione di quasi 200.000 greci, nel 1974, dalla parte settentrionale dell’isola di Cipro, e di decine di migliaia di turchi dall’area sud-occidentale, a seguito del golpe contro Makarios (ordito dalle forze vicine al Governo militare dei colonnelli, che avevano proclamato l’“enosis”, l’unione alla Grecia) e dell’occupazione militare turca della metà settentrionale dell’isola.
All’occupazione militare turca è seguito l’insediamento, nella parte nord-orientale, di circa 150.000 turchi provenienti dall’Anatolia. Agli spostamenti forzati si è aggiunto il completo abbandono della città di Famagosta e di altre località divenute “zona morta” e disabitata (“nekri zoni”) e la netta divisione politica ed etnica dell’isola lungo una linea di demarcazione che ha separato in due la Repubblica cipriota (divenuta indipendente, dopo oltre un secolo di dominio britannico, nel 1960). La sua capitale Nicosia (Lefkosia), nonostante la Repubblica cipriota (solo la parte sud-occidentale) sia diventata parte dell’Unione Europea nel 2004, è tutt’oggi solcata dalla “green line”, la linea verde, divenuta un nuovo muro europeo.
Ancor prima, nel 1955, a seguito del “pogrom” di Istanbul (nel corso del quale furono distrutte le proprietà, i negozi, le fabbriche della comunità greca di Istanbul, con l’uccisione e il ferimento di decine di persone), si accelerò il processo che avrebbe portato all’esodo degli oltre 200.000 greci (risparmiati dal Trattato di Losanna) dalla città sul Bosforo. Il “pogrom” si accanì anche contro armeni ed ebrei. Nel 1964, dopo che il Governo turco si decise di denunciare la Convenzione di Ankara del 1933 (che stabiliva il diritto dei greci di continuare a vivere e lavorare a Istanbul) fu deportata dalla città, con meno di due giorni di preavviso, la gran parte della comunità dei “romei” (come venivano chiamati i greci della città), riducendola a poche decine di migliaia di persone.
Un capitolo particolare spetta alla specifica esperienza della “Nakba” (catastrofe), lo spostamento e l’emigrazione forzata di circa 700.000 profughi palestinesi dai territori del mandato britannico della Palestina che entrarono a far parte dello Stato d’Israele a seguito della sua proclamazione nel maggio del 1948 e della successiva aggressione militare araba, conclusasi con la vittoria di Israele (nella prima guerra arabo-israeliana). Nonostante l’ONU stabilisse, nel dicembre del 1948, con la Risoluzione 194, il diritto al ritorno dei profughi (che nel frattempo erano stati sparsi in campi provvisori nei Paesi arabi vicini) questa possibilità finora è stata loro negata (dal 1948 ad oggi il numero dei rifugiati palestinesi insediati nei campi profughi è aumentato, considerati anche i loro discendenti, a 3,7 milioni).
Particolarmente difficile fu inoltre il destino della comunità turco-musulmana in Bulgaria. Dopo una fase di dure repressioni del regime comunista bulgaro nei confronti degli oltre 800.000 turchi ancora presenti nel Paese (caratterizzate dai “pogrom” e dalla campagna per il cambiamento forzato dei nomi del 1964), nel 1968 la Bulgaria e la Turchia firmarono un primo accordo che prevedeva l’espulsione e il trasferimento in Turchia di 30.000 turchi (tra cui i “pomacchi”, musulmani di lingua bulgara). Dopo un’ulteriore accentuarsi delle repressioni contro i turchi, nel 1989, alla vigilia della caduta del regime di Todor Živkov, oltre 250.000 turchi fecero domanda d’espatrio (che venne concessa solo a circa 150.000 di loro). La Turchia dopo breve tempo chiuse le proprie frontiere, causando delle colonne chilometriche di profughi. In soli tre mesi, dalla fine di maggio al mese di agosto del 1989 oltre 320.000 turchi abbandonarono la Bulgaria (50.000 tornarono nei mesi successivi, ed altri 100.000 vi fecero rientro entro il 1990).
Il culmine delle più recenti “pulizie etniche” in Europa, fu raggiunto con la guerra degli anni Novanta in Jugoslavia, che produsse, oltre a una gran quantità di vittime, all’innumerevole serie di stragi (come quella di Srebrenica), più di un milione di profughi e rifugiati, e lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di persone.
I massacri e il movimento di enormi masse di profughi in Ruanda e nell’Africa centro-orientale (con il conflitto tra tutsi e hutu e il genocidio di oltre 800.000 tutsi nel 1994) completò il tragico quadro di violenze e di crimini contro l’umanità commessi in quest’ultimo squarcio di secolo.
8. Lo sradicamento etnico e nazionale come problema del diritto internazionale: questioni e prospettive
L’enormità dei danni e delle sofferenze causati sinora dagli spostamenti coatti di popolazione hanno posto in risalto la desolante incapacità della comunità internazionale di opporsi efficacemente a queste inaccettabili violazioni del diritto umanitario. Gli strumenti giuridici adottati sinora per fungere da deterrente contro questi crimini e punire i loro autori sono stati applicati solo nei casi più gravi ed evidenti, o quando tali violazioni sono avvenute in contesti di profondo disordine internazionale suscettibili di sconvolgere consolidati equilibri geopolitici e di minacciare gli interessi delle maggiori potenze.
La gran parte degli spostamenti forzati, degli esodi indotti, degli sradicamenti di culture e popolazioni autoctone sono stati perpetrati senza suscitare alcuna reazione né provocare plausibili sanzioni da parte della comunità internazionale.
La difficoltà di distinguere fra le diverse tipologie e “graduazioni” degli spostamenti, nella complessa “zona d’ombra” che racchiude il passaggio, spesso quasi impercettibile, fra i crimini più efferati contro l’umanità e le forme meno cruente, indotte o relativamente “volontarie”, ma non per questo meno disumane, di trasferimenti di popolazione, ha contribuito a indebolire l’azione repressiva e, soprattutto, la capacità dissuasiva e di prevenzione del moderno diritto internazionale.
I trasferimenti forzati di popolazione, chiaramente contemplati dal diritto internazionale come crimini contro l’umanità, molto difficilmente possono trasformarsi in concreti capi d’accusa nell’ambito del diritto internazionale penale, sia perché le fattispecie criminose individuate dalle Convenzioni sono generalmente delineate in termini generici (in quanto frutto molto spesso di compromessi), sia perché si tratta di ipotesi di reato che mal si prestano ad una specificazione rigorosa (in quanto tante sono le possibilità ed i mezzi di realizzazione di tali crimini che prevederli ed enumerarli diventa particolarmente arduo).
L’articolo 7 dello Statuto del Tribunale penale internazionale e le altre norme del diritto internazionale umanitario definiscono chiaramente il delitto di genocidio, quello di deportazione e quello di trasferimento forzato di popolazioni . Non contemplano però né enumerano specificatamente le varie “graduazioni” o “tipologie” di spostamenti, né prevedono (pur riconoscendo la necessità di un’interpretazione estensiva dei concetti di “deportazione e “trasferimento forzato”) altre specifiche definizioni come potrebbero essere, ad esempio, quelle riferite agli “spostamenti indotti”, ai “trasferimenti semi-volontari” (semivoluntary compulsed expulsions)”, o i termini di “genocidio culturale” e di “eradicazione etnica”.
La gran parte degli spostamenti semi-forzati o semi-volontari, ovvero degli esodi e dei trasferimenti avvenuti oggettivamente contro la volontà della popolazione non sono sanzionati dalla comunità internazionale; rimangono pertanto impuniti come delitti contro l’umanità. Essi rimangono nella “zona grigia” dell’interpretazione estensiva dei crimini di genocidio, deportazione e trasferimento forzato di popolazioni, alla mercé dei meccanismi straordinariamente complessi della giurisdizione penale internazionale. Rimane l’esecrazione morale, la condanna, la ripulsa o l’inaccettabilità dal punto di vista politico, etico, civile e culturale e, quanto meno, la loro messa al bando in quanto violazioni dello “ius gentium” umanitario.
Ma il punto fondamentale non è tanto quello di condannare i responsabili (che spesso, ad onta dell’imprescrittibilità dei reati, a distanza di tanti anni, non sono più vivi, perseguibili o ritracciabili) quanto quello di garantire una possibile “riparazione” per le sofferenze subite dagli individui e dalle collettività, e favorire un “superamento” parziale delle fratture civili e culturali prodotte a danno non solo di una comunità quanto all’insieme di un ambiente sociale.
L’esilio collettivo, lo sradicamento totale o parziale di una popolazione, della sua lingua e della sua cultura è una delle violazioni più gravi dei diritti universali dell’uomo e del patrimonio collettivo dell’umanità. Tale violazione nega una delle sfere più intime e profonde dell’identità, della dignità, e dell’esistenza dell’uomo; quella dell’appartenenza nazionale, culturale e linguistica, dell’attaccamento alle proprie radici, dell’esigenza di far parte di una comunità, di coltivare un rapporto con il proprio territorio di nascita o di provenienza. Gli esodi provocano dei danni incalcolabili al patrimonio sociale, culturale ed umano e rischiano di cancellare per sempre, oltre alla presenza di una componente nazionale, l’identità plurale di una società.
Da qui l’esigenza, oggi, di un nuovo “patto internazionale”, a livello europeo (ma anche tra i singoli Stati), per la tutela dei patrimoni culturali e sociali delle comunità e dei territori colpiti dagli esodi e dai trasferimenti in massa delle popolazioni (a cui dovrebbe essere concesso comunque, nel caso di successioni statati o mutamenti di confini, il diritto all’autodeterminazione).
A distanza di tanti anni è certamente difficile concepire e, soprattutto, realizzare delle misure atte a ristabilire, almeno in parte, i valori di un “ecosistema” culturale e sociale distrutto dall’esodo. Ma se vogliamo dare vita ad una società europea realmente democratica, basata sui principi del pluralismo culturale, della tolleranza, del rispetto delle diversità e delle specifiche identità (linguistiche, nazionali, religiose e culturali) non vi sono alternative.
Il nostro comune destino di cittadini europei non può basarsi sul tacito riconoscimento degli effetti nefasti provocati dagli esodi e dai trasferimenti di massa, dallo sradicamento di comunità e culture. Per affrontare le nostre sfide future dovremo emanciparci dal peso delle sofferenze del passato ed avviare, laddove possibile, dei progetti di ripristino del patrimonio umano e culturale compromesso dal trasferimento di centinaia di migliaia di persone.
Tali progetti dovrebbero prevedere, laddove possibile, il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi e dei loro discendenti; la facoltà cioè, per chi lo desideri, di rientrare nei luoghi d’origine creando le condizioni per favorire dei percorsi individuali o collettivi di reinsediamento e di integrazione sociale senza arrecare alcun nocumento alle popolazioni insediatesi successivamente.
Ma appare ancora più importante la necessità di attuare, attivando dei progetti europei, delle iniziative atte a preservare il patrimonio culturale e civile, le presenze nazionali e linguistiche, così come l’identità plurale del territorio minacciati dagli sconvolgimenti causati dai trasferimenti coatti o indotti di popolazioni.
Si tratterebbe di un nuovo “salto di qualità” del diritto umanitario, ma anche nelle relazioni bilaterali, che ci consentirebbe di chiudere finalmente il vergognoso capitolo storico degli esodi e degli spostamenti forzati di popolazioni, ma che soprattutto ci aiuterebbe a costruire un’Europa dei popoli e delle minoranze realmente democratica e plurale.
Per dare vita ad una società non più ostaggio dei nazionalismi e degli esclusivismi etnici, ma orgogliosa erede di un ricco mosaico di culture e di antichi percorsi di convivenza.
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Fonte: Cdm – Arcipelago Adriatico, 22/08/12