Scritto da Chiara Mattioni
La storia del nostro confine orientale, unica, articolata e drammatica negli anni tra il 1943 e il 1947, segnata dalla tragedia delle popolazioni di questa terra dopo l’annuncio dell’armistizio, è stata ampiamente raccontata in decine, centinaia di libri. Spesso in modo arbitrario però, smembrata in pezzi di cui si sono appropriate varie parti politiche facendone cosa loro e sottraendola alla conoscenza e alla riflessione critica generale.
Non è più, dunque, procrastinabile una conoscenza obiettiva e integrale di quelle pagine della nostra storia, senza strumentalizzazione politica da una parte o dall’altra, per contribuire alla costruzione di un nucleo di valori condivisi. Ricostruire storicamente un fatto, senza cadere nell’insidiosa trappola di un giudizio implicito, non è cosa facile. Metodologicamente possibile, forse, attraverso un resoconto più scarno possibile dei fatti e la raccolta di testimonianze dirette della gente comune, che sulla propria pelle ha vissuto gli eventi. Questo è il primo pregio di Capodistria 1947. L’ultimo confine (Franco Rosso, pagg. 37, euro 13,00) un libro – intervista di Edoardo Gridelli (con due prefazioni, di Claudio Magris e Roberto Spazzali e l’introduzione dell’autore) a don Lucio Gridelli, sacerdote seminarista nel 1945 a Capodistria e testimone diretto, due anni dopo, del linciaggio di monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, da parte delle truppe jugoslave. «So perfettamente che molto si è scritto e detto su questo argomento – scrive l’autore nell’introduzione, – ma cercherò di portarvi, attraverso questa mia intervista, in un racconto storiografico, a una verità, quella della storia, dei puri e semplici fatti accaduti . Sarà una storia sincera, pulita e semplice, come lo è l’intervistato».
La seconda particolarità e quindi il secondo pregio di questo libro si fonda sull’amore di don Lucio per la fotografia. Il testo infatti è corredato da fotografie scattate dall’intervistato, mai viste, del seminario di Capodistria occupato dalle truppe titine – l’entrata in seminario con la stella rossa, i soldati che fanno ginnastica nel cortile, le persone tratte in arresto, le lettere del Comitato cittadino di liberazione popolare. Nell’ambito della campagna di snazionalizzazione, intrapresa dal Movimento di Liberazione jugoslavo in Istria con arresti, deportazioni, fucilazioni su accusa di “nemico del popolo”, i soldati titini si accanivano su quanti rappresentavano l’apparato statale italiano, militari o civili che fossero, senza risparmiare gli esponenti della chiesa tergestina e capodistriana «che voleva dimostrare che la vita della Chiesa doveva continuare, indipendentemente dai regimi e dalle occupazioni militari. Si spiega così l’aggressione al vescovo Santin il 19 giugno 1947, giorno di San Nazario, patrono di Capodistria».
Racconta, don Lucio, che ci fu una sorta di purga dei preti italiani. Siccome il clero rappresentava un punto di appoggio importante per la gente, colpendo i preti, si pensava di indebolire la resistenza della popolazione italiana. Monsignor Santin era un bersaglio perfetto: figura rappresentativa e poi, certo, istriano, quindi coinvolto in prima persona. Un episodio brutale e sconcertante, non il più grave di quegli anni di infoibamenti, assassinii, vendette, esodi, ma illuminante. Nel 2007 sono caduti tutti i confini. E quello che dovremmo augurarci è che, rimosso il confine sul terreno, lo si rimuova anche dagli animi.
Fonte: «Il Piccolo», 28/05/09.