Scritto da Vittorio Filippi
Venti anni fa l’89. Si tratta di una data – come il ’68, il ’48, il ’17 – che segna simbolicamente e perfino emotivamente un mutamento di rotta storicamente forte, deciso, netto. Il simbolo fu allora un muro famoso, il muro di Berlino, che nel novembre 1989 venne preso d’assalto ed abbattuto, come esattamente due secoli prima avvenne con la Bastiglia. Venne così sancita non solo la fine della Repubblica democratica tedesca ma, con un grandioso effetto domino, di tutto il sistema del cosiddetto comunismo reale. Non solo: alla fine di quello stesso annus mirabilis, attorno a Natale, ci fu l’inatteso e veloce “tirannicidio” di Bucarest con l’eliminazione della coppia Ceausescu. Ma in realtà l’89 non è stato solo questo, e non è stato nemmeno solo un anno del calendario, per quanto importante. Secondo lo storico marxista inglese Hobsbawm con l’89 si chiude anche un secolo, il Novecento, iniziato con la guerra del 1914 e divenuto così un «secolo breve», secondo la sua fortunata definizione. Ma l’89 segna anche, inequivocabilmente, l’inizio “visibile” della fine della Jugoslavia federale socialista, quella “seconda Jugoslavia” concepita da Tito già durante la seconda guerra mondiale.
Enzo Bettiza, scrittore e politico sensibile per forza di cose alla ex Jugoslavia (è nato a Spalato da madre di origine montenegrina) nel suo libro offre non a caso quasi un terzo del totale delle pagine al paese balcanico, pur non dimenticando i casi della DDR, della Romania e naturalmente dell’URSS della perestrojka ormai agonizzante di Gorbaciov. Osserva subito Bettiza che l’89 rappresenta, per la Jugoslavia, l’acuirsi ed il precipitare di quella lunghissima agonia avviatasi nel 1980 con la morte del Maresciallo. Cronologicamente l’89 jugoslavo comincia a febbraio con la protesta di 1800 minatori albanesi a Trepca, in Kosovo, protesta che sarà seguita dalla dura repressione poliziesca di Belgrado. Prosegue in giugno con il famoso ed infiammato discorso di Milosevic a Gazi Mestan, ancora in Kosovo, nel luogo dove seicento anni prima i Turchi del sultano Murat Primo avevano sbaragliato nel sangue le truppe condotte dal knez serbo Lazar. Ad agosto il governo emette una nuova banconota da due milioni di dinari con su riprodotte tante stelle a cinque punte, simbolo del comunismo ma anche dell’inflazione che va proprio alle stelle, dato che toccherà, in quell’anno, l’astronomica quota del mille per cento. Il triste 1989 jugoslavo si conclude quando, verso Natale, le leadership della Lega dei comunisti slovena e di quella croata (quest’ultima con non poche esitazioni) decidono di chiudere con il monopartitismo di stampo leninista e di affrontare le libere elezioni l’anno dopo, quando il partito che fu di Tito scomparirà definitivamente nel caos nazionalistico.
Di solito la crisi jugoslava viene ricordata invece con un’altra data, il 1991, anno in cui la guerra esplode in Slovenia per poi estendersi in Croazia in un susseguirsi di incendi che bruceranno fino al 1999 con i noti fatti del Kosovo. Infatti, osserva l’autore, «Il 1989 jugoslavo non solo è stato il più terribile in Europa, ma anche il più lungo. Più lungo delle due guerre mondiali messe insieme. Per molti versi cominciò a profilarsi già con i funerali del titoismo; poi il vuoto, anziché preludere all’attesa metamorfosi della federazione comunista in una confederazione democratica, si riempì strada facendo di muffe abrasive e ancestrali. Si vide il più morbido dei comunismi riciclarsi nei veleni del nazionalismo, avvitarsi su se stesso, percorrere una disastrosa retromarcia dalla sepoltura solenne di Tito alla morte solitaria di Milosevic nel carcere di Scheveningen. Di fatto, disintegrandosi come una foresta marcia per un quarto di secolo, la Jugoslavia non si fermò al 1989 ma lo scavalcò. Per essere esatti lo prefigurò con nove anni d’anticipo, poi lo attraversò e lo prolungò di violenza in violenza fino al Duemila».
Ecco allora l’89 jugoslavo, incredibile per almeno due motivi. Il primo è dato appunto dalla sua eccezionale lunghezza, che ne fa un anno dolorosamente spalmato nel tempo ed anche nel sangue di violenze che si pensavano lontane da noi, storicamente e geograficamente. Il secondo motivo è dato poi dalla sua assoluta imprevedibilità, dato che la Jugoslavia sembrava mostrare – a differenza degli altri paesi dell’est – il volto dolce, fascinoso perché utopico ed assolutamente originale di un socialismo liberale e perfino libertario, di una economia fondata sull’autogestione operaia, del mito della “fratellanza e unità”, del carisma apparentemente inossidabile di Tito, della scelta del non allineamento tra i grandi blocchi americano e sovietico. Oggi, venti anni dopo, le conseguenze del disastro balcanico pesano ancora, e in taluni casi – vedi Bosnia e Kosovo – le cose (e le memorie) non appaiono certo risolte e sopite. Un motivo in più per riflettere su di un anno – l’89 appunto – fin troppo denso, che ha certamente chiuso il Novecento nutrendo però troppe ingenue speranze sul dopo, speranze che sono state spesso tragicamente deluse. E la Jugoslavia è stata di ciò, purtroppo, un caso davvero paradigmatico.
Enzo Bettiza, 1989. La fine del novecento, Mondadori, 2009, pp. 168.
Fonte: Osservatorio Balcani, 24/07/09.