Scritto da Kristjan Knez, «La Voce in più Storia Ricerca», 03/03/13
domenica 03 marzo 2013
Il 3 ottobre 1966, durante la riunione dell’ultimo consiglio direttivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, fu sancito il suo scioglimento e fu decisa la nascita di un nuovo organismo, non più politico ma associativo, l’Associazione delle Comunità Istriane. Essa, come sottolinea il suo presidente, Lorenzo Rovis, “nel suo operare s’ispira a questo storico Organismo”. La documentazione ereditata è stata affidata all’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-Fiumano- Dalmata (IRCI) di Trieste, con il fine di conservare e valorizzare la memoria storica di una stagione travagliata dell’età contemporanea nelle nostre terre. Il riordino delle carte è stato affidato allo storico Andrea Vezzà che all’argomento ha dedicato una tesi di laurea discussa all’Università del capoluogo giuliano.
A seguito della presentazione di alcuni risultati emersi dall’analisi delle fonti di prima mano, è sorta l’idea di confezionare una pubblicazione che raccolga e presenti al più ampio pubblico i risvolti delle azioni promosse a difesa della causa italiana nella Venezia Giulia.
Ne è uscito un agile volumetto intitolato semplicemente “Il C.L.N. dell’Istria” (Associazione delle Comunità Istriane, Trieste 2013, pp. 158). È un lavoro che desidera illustrare le complesse vicende dell’organizzazione politica nel periodo compreso tra il 1946 e il 1954. l’autore lo fa principalmente proponendo quanto ha ricavato dalle fonti prese in considerazione: i verbali delle sedute del direttivo ciellenista e l’archivio politico, i cui materiali di varia natura permettono di cogliere la difficile situazione in cui venne a trovarsi la resistenza italiana, non allineata alla politica jugoslava, al termine del secondo conflitto mondiale. Come si avverte nell’introduzione si è voluto “far parlare esclusivamente le fonti dirette”, perciò “ogni interpretazione degli eventi e ogni considerazione oggettiva sono lasciati al lettore, con il solo auspicio che possa pienamente comprendere tutti gli sforzi tentati, da poche ma decise persone, prima per riaffermare il diritto italiano sulla provincia istriana e poi per aiutare nel tragico percorso dell’esodo la sua popolazione” (p. 7).
Le origini
L’11 gennaio 1946, su incoraggiamento del capodistriano don Edoardo Marzari, nella città di San Giusto sorgeva il CLN dell’Istria, che si sarebbe adoperato nella difesa degli interessi sia dei connazionali esodati sia di quelli ancora residenti nella penisola, coordinando al tempo stesso l’azione dei comitati omonimi presenti in Istria, illegali e che si trovavano ad operare in un contesto avverso e pericoloso per l’incolumità di quei rappresentanti. I delegati erano nominati in base a un mandato territoriale e non politico, “prendendo il nome di fiduciari in quanto garanti dell’attività svolta oltreconfine” (p. 35). La trattazione si avvale anche dello spoglio della stampa clandestina dell’epoca: “Grido dell’Istria”, “Italia libera”, “La sferza”, “Osservatore”, “Va’ fuori ch’è l’ora”, delle testimonianze raccolte ad alcuni dei protagonisti: Giacomo Bologna, Giorgio Cesare, Gianni Giuricin, Olinto Parma, Ruggero Rovatti nonché della bibliografia specifica.
L’autore propone la ricostruzione degli accadimenti attraverso una selezione di documenti, molti dei quali sono proposti integralmente o parzialmente, ai quali si aggiungono i materiali iconografici: fotografie, riproduzioni di giornali, di volantini, di pubblicazioni e di carte prese in analisi. Si tratta di un lavoro documentato, che offre il percorso, accidentato e irto d’ostacoli, di questo organo politico; peccato solo sia privo dei riferimenti precisi alla documentazione inedita sulla quale è incentrato. Presumiamo non vi sia un apparato di note e i rimandi alle fonti, poiché, come abbiamo accennato, si desiderava offrire un testo accessibile a tutti. Auspichiamo pertanto che Vezzà, in un prossimo futuro, proponga un’opera di più ampia mole con l’indicazione dei materiali visionati, a beneficio degli studiosi. Siamo convinti che il giovane storico potrà offrire ancora importanti contributi, il volumetto che presentiamo ne è la prova evidente.
Speranze e disillusioni
Il testo espone svariati aspetti, come, ad esempio: le speranze e le disillusioni presenti negli esponenti della resistenza italiana, il nodo della linea confinaria tra l’Italia e la Jugoslavia, la questione del plebiscito quale soluzione equa per risolvere lo spinoso problema dell’appartenenza della regione contesa; altrettanto significativa è la ricostruzione degli interventi assistenziali, infatti vi era una forte opposizione all’esodo completo della popolazione italiana, e della dimensione propagandistica.
Dopo una sintetica ma puntuale presentazione della situazione venutasi a creare dopo il 25 luglio
1943 e con il successivo armistizio, che portò al collasso istituzionale e militare del Regno d’Italia, nelle cittadine istriane gli esponenti antifascisti italiani iniziarono a prendere in mano la situazione, ma ben presto si trovarono in una situazione critica e andarono a cozzare contro il movimento partigiano il cui fine era l’estensione del controllo politico sull’intera Venezia Giulia. Ancora più difficile fu la situazione nelle zone interne ove il potere passò direttamente nelle mani dei partigiani i quali dettero vita a rivoluzionari comitati popolari sul modello di quelli sorti nei territori jugoslavi liberati. Si bloccava ogni iniziativa politica italiana e al tempo stesso si preparavano le condizioni che avrebbero portato al distacco delle province orientali dal nesso statuale italiano.
Le decisioni di Pisino del 13 settembre 1943 decretarono la fine della sovranità italiana su quel territorio. Di fronte alla debolezza del locale antifascismo italiano, sul finire del 1943 sloveni e croati ritenevano l’annessione della regione come un dato di fatto e di conseguenza si consideravano gli esclusivi e unici detentori dei poteri politici e militari sulla stessa. L’antifascismo democratico italiano si trovava su basi deboli e solo nelle località di Muggia, Capodistria,
Isola e Pirano riuscì ad organizzarsi autonomamente e poté dare vita a embrionali Comitati di Liberazione Nazionale, “che non superano però una fase puramente cospirativa, mentre a Pola opera un esiguo comitato che subisce la tracotanza del suo omonimo croato in città. Per questo motivo, la storia della resistenza politica e militare è essenzialmente la storia del movimento di liberazione titino” (p. 15).
Vita difficile
Con la fine delle ostilità furono proprio i CLN di Capodistria, Isola e Pirano ad uscire dalla clandestinità per prendere in mano la nuova situazione; essi erano formati da tutti i partiti antifascisti italiani, uniti con il fine di rimpiazzare le precedenti istituzioni. Ma ebbero vita difficile, come scrive Vezzà: “I vertici politici jugoslavi non tollerano la presenza di una forma di potere alternativa alla loro, decretando la prematura fine dell’esperienza ciellenista istriana: prima lecitamente, tramite rappresentanti comunisti, cercano uno spazio d’azione che non trovano, poi, con la forza delle armi, impongono i loro comitati popolari paralleli a quelli italiani, ottenendo così l’esclusività del potere politico. Per i CLN istriani inizia una nuova e difficile fase di clandestinità, orfani al loro interno della componente comunista, passata a collaborare con i nuovi ‘poteri popolari’” (p. 15). La condotta delle autorità jugoslave non considerava la provvisorietà dell’occupazione, bensì procedette immediatamente a consolidare le proprie posizioni. In un primo momento i partiti politici italiani risorti, come la Democrazia Cristiana e il Partito d’Azione, ebbero una certa libertà, erano in grado di aprire sezioni e non erano ostacolati nelle manifestazioni pubbliche. Ma nel momento in cui espressero la loro contrarietà alle rivendicazioni nazionali jugoslave, furono sciolti d’ufficio. Sorte identica toccò anche al Partito Comunista Italiano dal momento che rifiutò a fondersi con il Partito Comunista della Regione Giulia, che obbediva alle direttive jugoslave.
L’auspicio della convivenza fra genti
Dopo gli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945 e il ritiro delle truppe jugoslave da Trieste e Pola, l’antifascismo istriano democratico conobbe una nuova stagione. Se nella città dell’Arena poté organizzarsi il CLN cittadino, ciò non valse per il resto della penisola. Si guardava a Trieste e alla rinascita delle libertà politiche per dare vita a un comitato che fosse in grado di chiamare a raccolta tutti coloro che si opponevano al regime d’occupazione.
I principali protagonisti provenivano dalle file del combattivo movimento repubblicano, che già verso la fine del conflitto si era esposto per contrastare la politica annessionista jugoslava, ed erano: il piranese Rinaldo Fragiacomo e il pinguentino Ruggero Rovatti ai quali si affiancavano il socialista capodistriano Giorgio Cesare e il democristiano umaghese Redento Romano; un ruolo non indifferente fu svolto anche dal già ricordato don Marzari. Il Comitato Istriano auspicava la convivenza tra le genti di un territorio plurale e interpretando il pensiero della maggioranza desiderava che: “1. l’intesa tra italiani, sloveni e croati sia basata sull’uguaglianza di diritti e di doveri; 2. siano formate delle consulte municipali liberamente elette dal popolo e rappresentanti tutte le tendenze politiche; sia garantita la libertà di stampa e di pensiero, unica garanzia per un elevamento delle masse e sicurezza contro ogni forma di tirannia e demagogia; ogni italiano, sloveno, croato possa professare la propria nazionalità, senza atti minatori esteri; possa parlare la propria lingua, esporre le proprie bandiere, professare la propria religione se capace, porre la propria candidatura alle libere elezioni comunali (…) ecc.” (p. 30).
Tenere uniti idealmente tutti gli istriani
Al tempo stesso estese una serie di indicazioni comportamentali alla popolazione italiana residente nella zona B. Con l’aumento del numero degli esuli che riparavano nel capoluogo giuliano per sottrarsi alle persecuzioni politiche messe in atto oltreconfine, alla fine dell’estate 1945 nacque il Gruppo Esuli Istriani, il cui fine associativo, come si legge nello statuto, era: “tener riuniti idealmente tutti gli istriani, che in seguito a persecuzioni, pressioni, timori o per la coartazione di essere costretti od invitati a collaborare con le autorità d’occupazione, hanno dovuto abbandonare le loro case e riparare a Trieste, indifferentemente la data del loro esodo, purché gli stessi non siano stati squadristi, antemarcia, ufficiali della milizia, abbiano coperto cariche nel partito, appartenuto al fascio repubblicano e comunque si siano resi colpevoli di faziosità e di crimini politici e comuni” (art. 3, p. 33). Vi era anche la proposta di Romano di organizzare una sezione militare, per una resistenza con le armi, destinata a compiere sabotaggi e azioni dimostrative nelle zone controllate dagli jugoslavi. Fu considerata troppo audace e fu scartata, poiché ogni azione offensiva avrebbe avuto conseguenze negative sulla popolazione inerme, oltre a provocare la cesura di ogni forma di dialogo con il Governo e le istituzioni italiane. Nella primavera 1946 il CLN non si spingeva oltre Rovigno (pertanto si firmava CLN per l’Alta Istria), a sud di questa città agiva clandestinamente il CLN di Pola, mentre dall’11 agosto di quell’anno esso si trovò inserito di diritto nel CLN della Venezia Giulia.
Rivendicare la linea Wilson
Il primo grande impegno del CLN dell’Istria, che lo vide schierato con il Governo, fu la rivendicazione della linea Wilson, vale a dire il confine proposto dal presidente statunitense al termine della Grande Guerra, che si basava sul principio etnico, oltre che geografico ed economico della regione interessata. Ad est di quella ipotetica linea, cioè Fiume, i territori gravitanti sul Quarnero e Zara erano da considerarsi già persi per l’Italia. Il rimanente territorio sarebbe stato visitato (7 marzo-5 aprile 1946) da una commissione composta dai rappresentanti delle quattro potenze vincitrici: Stati Uniti d’America, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica. “l’attesa della visita alleata segna l’aggravarsi della situazione nella zona B, con il ritorno della violenza politica che si traduce in un periodo di costante intolleranza e intimidazione.
Ogni manifestazione è preclusa alla popolazione italiana di sentimenti nazionali, mentre l’UAIS e il PCRG, assieme agli emissari politici del Governo belgradese, si danno da fare per indurre i delegati stranieri che a breve giungeranno in zona B a giudicarne la popolazione compattamente favorevole al suo ingresso nel nuovo stato jugoslavo, eliminando ogni traccia di residua italianità” (p. 39). Poi vi era l’attività assistenziale, che rappresentò un segmento centrale tra i compiti svolti. Come scrive l’autore: “nella zona B, gli aiuti erogati tramite i CLN clandestini hanno il duplice scopo di aiutare economicamente i più disagiati, evitando così un loro esodo che andrebbe a indebolire la componente italiana del territorio, e di premiare, in qualche modo, i membri più attivi della resistenza italiana, che spesso sono oggetto di spiacevoli atti intimidatori o hanno subito la perdita dei propri beni” (p. 42). Con la proposta confinaria francese, una sorta di compromesso che avrebbe dovuto portare ad una soluzione del problema e lo svanire dell’idea originaria, cioè la linea Wilson, s’iniziò ad avanzare la richiesta del plebiscito; la gente residente nei territori interessati avrebbe deciso la propria sorte in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli.
La mancanza di appoggi
Non se ne fece nulla. Il CLN istriano non poté contare sull’appoggio del Governo italiano, il ministro francese George Bidault proponeva invece di risolvere il problema giuliano internazionalizzando lo spazio geografico compreso tra il Quieto e il Timavo, formando il Territorio Libero di Trieste con a capo un governatore eletto previa consultazione tra Roma e Belgrado. Il primo agosto 1946 a Parigi iniziavano i lavori della Conferenza di Pace. La delegazione italiana era guidata da Alcide De Gasperi affiancato da Ivanoe Bonomi per le questioni del confine orientale. Consiglieri di quest’ultimo erano il polese De Berti, fermo sostenitore della linea Wilson, e il goriziano Bettiol, contrario alla proposta del plebiscito, affiancati da Giuricin e Romano. Alla fine quegli uomini rientrarono senza aver riportato alcun risultato.
Il 12 dicembre 1946 si chiudeva a New York la sessione del Consiglio dei ministri degli Esteri iniziata otto giorni prima.In quell’occasione fu fissata la data del Trattato di pace: 10 febbraio 1947. Il CLN istriano sollecitò il Governo a non firmare quel documento, anche perché quest’ultimo aveva promesso di non sottoscrivere alcun documento che avesse portato a importanti rinunce territoriali.
Al contempo si pensava anche alla nuova situazione che inevitabilmente sarebbe emersa da quella firma. “Realizzata l’ormai prossima costituzione del TLT, il CLN istriano affronta il problema relativo alla popolazione italiana che passerà entro lo stato jugoslavo, chiedendo al Governo nazionale di intervenire a Belgrado per richiederne garanzie di tutela: se durante la Conferenza di Pace era infatti passata l’ipotesi di un esodo di massa per fini puramente politici, ora prende corpo la volontà di non pregiudicare la componente italiana, in previsione di possibili future revisioni del Trattato di Pace in seguito a trattative dirette” (p. 58).
Tra le altre attività svolte ricordiamo la stampa clandestina il cui scopo precipuo era proporre un’informazione alternativa in contrasto al monopolio informativo in mano ai “poteri popolari” nella zona B. “La diffusione della stampa oltreconfine si spiega inoltre allo scopo di far pervenire alla popolazione istriana le indicazioni comportamentali e i proclami politici della resistenza, rendendone percettibile l’attiva presenza su tutto il territorio occupato” (p. 67). Il foglio più importante e longevo fu il “Grido dell’Istria”, che si stampava in tipografie venete e friulane per sottrarsi ai controlli del Governo Militare Alleato che mal tollerava qualsiasi forma di attività politica diretta nell’area occupata dagli jugoslavi. L’introduzione del giornale non era un’operazione facile, veniva affidata ai fiduciari ciellenisti e ai membri più attivi della locale resistenza che lo diffondevano tra la popolazione.
Il 7 novembre 1947 si riuniva nuovamente il Consiglio direttivo del disciolto CLN dell’Istria e fu ricostituito l’organismo, questa volta non più su una base territoriale bensì politica. Continuava l’attività verso i connazionali residenti nella zona B e in occasione delle elezioni amministrative del 1950 indette dagli jugoslavi nei distretti di Capodistria e Buie invitò la popolazione a disertare i seggi elettorali. La reazione non si fece attendere e, dopo l’allontanamento dei giornalisti italiani presenti in zona, fu usata la forza, costringendo i recalcitranti a votare. In quel clima intimidatorio l’Unione Antifascista Italo-Slava raccolse quasi il 90 per cento delle preferenze, molto alto fu il numero delle schede bianche, a Capodistria, ad esempio, superavano il 13 per cento. “Il pesante clima di violenza riemerso in quel 16 aprile sancisce però la fine di ogni possibilità di resistenza, anche solo passiva: da questo preciso momento, il CLN dell’Istria non si oppone più all’esodo della popolazione italiana dalla zona B, comprendendo l’impossibilità di qualsiasi pacifica forma di convivenza oltreconfine” (p. 108). Dopo quei fatti dall’area esodarono 85 nuclei familiari e 225 persone singole. Da quel momento le partenze crebbero sensibilmente, perciò si chiese la realizzazione di altre baracche nel Centro di Raccolta di Prosecco che potessero raccogliere complessivamente altri 300 nuclei familiari. Da Roma giunse intanto la notizia di uno stanziamento di 250 milioni di lire per la costruzione di alloggi destinati ai profughi, “Giuricin e Lonza si oppongono però a quello che viene definito un puro gesto politico che va a indebolire la resistenza in zona B, incoraggiando l’esodo anche di chi non è perseguitato” (p. 114).
Nel 1953 l’agenzia di stampa United Press diramò la notizia della prospettata eventualità di un ritiro delle truppe alleate dalla zona A per favorire i rapporti tra l’Italia e la Jugoslavia e risolvere il contenzioso del TLT. Il CLN dell’Istria era fortemente preoccupato che l’ingresso di truppe italiane nella zona A potesse pregiudicare la sorte nella zona B, perciò s’impegnò a far rispettare le clausole del Trattato di pace. Dopo la Dichiarazione bipartita dell’8 ottobre 1953, esso comunicò al primo ministro Giuseppe Pella l’apprensione per le conseguenze negative che quell’accordo avrebbe prodotto sulla zona B, “la cui sorte non deve essere diversa da quella di Trieste” e di conseguenza invitava sia il Governo sia il Parlamento “a respingere la nota proseguendo l’azione per una soluzione unitaria delle due zone conforme alla volontà della popolazione” (p. 124).
Gestione dell’esodo
Con il Memorandum di Londra dell’ottobre 1954 la questione giuliana arrivava al capolinea. Da quel momento in poi il CLN si trovò a gestire l’ultima ondata dell’esodo che si sarebbe protratta per oltre un anno. Andrea Vezzà evidenzia che si pensò anche a salvaguardare chi era rimasto sul territorio, al fine di non compromettere definitivamente la presenza italiana. “A metà 1956, i rappresentanti socialisti del CLN istriano Cesare e Miglia intraprendono un viaggio in Istria per constatare di persona le reali condizioni di vita oltreconfine a quasi due anni dall’annessione, lontano dalla partigiana propaganda anticomunista. Ne esce una realtà per certi versi diversa, almeno nel territorio meridionale, dove la situazione generale pare, in alcuni casi, forse anche migliorata, anche se gli italiani sono costretti a muoversi esclusivamente sui binari del regime comunista. Giunge quindi la proposta del dialogo oltreconfine con i rimasti e l’invito posto al Governo nazionale di contribuire al sostegno alla cultura italiana (…)” (p. 127).