Intervista di Matteo Carnieletto (Il Giornale) a Davide Rossi, professore di storia e tecnica delle codificazioni e costituzioni europee presso l’Università di Trieste e rappresentante di Coordinamento Adriatico APS.
Professore Davide Rossi, partiamo dai silenzi sulle foibe e sul perché ci sono stati…
Per parlare di questo aspetto dobbiamo fare un piccolo passo indietro e partire dalla scelta della data del 10 febbraio. Non un giorno casuale: coincide con la firma del Trattato di Parigi del 1947, e con esso l’Italia perdeva alcuni comuni del confine occidentale, le colonie, ma soprattutto usciva letteralmente monca alla frontiera orientale, con l’Istria, Zara e Fiume cedute alla Repubblica Socialista di Jugoslavia. Alla città alabardata toccava una sorte differente, in quanto veniva creato il Territorio Libero di Trieste, amministrato dal Governo Militare Alleato. Lo stesso Trattato doveva quindi essere ratificato dall’Assemblea costituente, e non fu una votazione semplice. Da lì si iniziano ad intravedere in controluce una serie di problematiche che porteranno alle ragioni del silenzio. In che senso? La Democrazia Cristiana, per ottenere i numeri utili per la ratifica, aveva messo sul piatto i soldi del piano Marshall e la possibilità di entrare nella costituenda Organizzazione delle Nazioni Unite. A quel punto, inevitabilmente, pochi furono i voti contrari. Il partito Comunista si astenne, e addirittura Togliatti ebbe l’ardire di proporre lo scambio “Gorizia per Trieste”. Pietro Nenni rispose in maniera arguta: “Come fanno a darci Trieste, che non è loro, per avere Gorizia?”. Un vero paradosso! Il governo a guida De Gasperi oggi lo definiremmo di larghe intese, in quanto composto da due anime tra loro contrapposte: la Dc e i partiti filo occidentali che cercavano il consenso degli Inglesi e degli Stati Uniti, nel mentre in cui i comunisti, membri appunto dello stesso esecutivo, andavano a Mosca e Zagabria con intenti alquanto diversi, se non addirittura opposti. Già da subito, quindi, questa vicenda prende contorni sfocati, con partiti dello stesso governo che interagivano con due mondi diversi: quello occidentale e quello a socialismo reale. Da lì in poi le colpe ideologiche della sinistra sono sempre più emerse. Il confine orientale era la prova provata che la guerra si era persa e che per gli stranieri il contributo della resistenza era sostanzialmente considerato irrilevante. Basta interloquire oggi con cittadini di altre Nazioni, che faticano a comprendere che noi celebriamo la Liberazione: l’Italia semplicemente aveva perso. Logica conseguenza fu che l’Italia non potè partecipare alle trattative che portarono al Trattato di Pace di Parigi, dovendo subire scelte altrui. La perdita delle terre del confine orientale era la rappresentazione plastica della sconfitta internazionale. L’opinione pubblica dell’epoca era molto sensibile al tema, almeno fino al 1954, quando Trieste torna ad essere finalmente italiana. Dagli anni Sessanta cambia tutto, con l’emergere dei primi governi di centrosinistra, che avevano una visione differente nella gestione della politica interna. Da lì cala una cappa di assoluto silenzio. Un capitolo a parte sono poi le aspettative degli esuli, che si sono sempre sentiti traditi dai propri fratelli italiani.
Ci puoi spiegare meglio questo tradimento?
Le guerre si vincono e si perdono, i territori si annettono e si cedono. Fa parte della Storia dell’uomo. Il vero grande problema è che, nel nostro caso, le persone venute in Italia dall’Istria sono state letteralmente emarginate. Abbandonando quelle zone dove il socialismo reale si stava concretizzando, emerse una sorta di equiparazione – non corrispondente al vero – di “istriani come fascisti”. È la percezione verso queste persone a cambiare: non troveranno più una collocazione degna, relegati nei posti peggiori, in 110 campi profughi sparpagliati nella Penisola, sovente individuati ai margini della collettività, dove le loro storie potevano essere dimenticate. Quello è stato il secondo enorme vulnus nei confronti degli esuli. Una damnatio collettiva nel quale l’ideologia annebbiava la mente delle persone.
Dopo lo strappo con l’Urss all’Italia Tito conveniva…
Questo è senza dubbio il più opportuno approccio interpretativo dal punto di vista della politica internazionale. Il confine orientale ha sostanzialmente vissuto una piccola Guerra Fredda anticipata. Dal ’43 insistono sullo stesso territorio la costruzione della Repubblica Sociale, la presenza delle strutture del Regno d’Italia, i nazisti che necessitano di uno sbocco sul mare, i partigiani (pensiamo a cosa accadde nella non lontana Porzus), i titini che salgono dalla pancia dei Balcani, Ante Pavelic con gli Ustascia. C’era insomma una condensazione di nazionalismi e ideologie che anticiperà le tensioni che il Mondo vivrà qualche decennio più tardi. Similmente, anche il ’48 sarà un anno cruciale: i governi americano, inglese e francese propongono una dichiarazione con cui prevedere un addendum al Trattato di Pace con cui lasciare Trieste all’Italia, mentre la Dc, grazie ai comitati civici di Gedda, stravince le più delicate elezioni del Novecento italiano. Nel frattempo Tito prende le distanze dalla Russia, strizzando l’occhio all’Occidente, soprattutto agli inglesi. Per un’emorragia celebrale, nel 1953 morirà Iosif Stalin.
Prima ha parlato della sua famiglia. Qual è il ricordo più nostalgico e drammatico delle terre che hanno dovuto lasciare?
La mia famiglia ha avuto la fortuna di evitare i campi profughi, essendo mio nonno ufficiale dei Carabinieri. Una volta i militari usavano abitare in caserma, e dunque i miei cari hanno trovato ricovero in posti decisamente migliori rispetto a quanto accaduto ad altri poveri esuli. Mi ha sempre però impressionato il silenzio: personalmente, vi è stato una sorta di salto generazionale, avendo raccontato a me ciò che non è mai stato narrato alle figlie. Mia mamma ancora oggi, quando le racconto di alcuni ricordi di suo padre, mi dice che non possono essere veritieri quegli accadimenti. Poi mi impressiona la diversa sensibilità esistente nei confronti di queste tematiche: parlarne a Gorizia anziché a Milano o Bari era ed è alquanto diverso. Basta pensare ai Moti del ’53, hanno segnato una città come Trieste e sono totalmente sconosciuti nel resto della Penisola.
Questo muro di silenzio di cui parlavamo si è infranto.
Faccio due riflessioni. La prima: è chiaro che la caduta del Muro di Berlino abbia aperto squarci che hanno modificato l’interpretazione degli avvenimenti collegati al confine orientale. Il crollo delle ideologie ha fatto sì che questi argomenti non siano più localistici, ma possano finalmente appartenere alla Storia patria. A ciò si aggiunge un altro dato: l’esplosione del fattore migratorio, e quindi di spostamenti di persone, che ha alimentato una certa percezione di solidarietà. Nei confronti degli esuli è cambiata la sensibilità collettiva, percepita come lesione dei diritti umani, a prescindere dalle motivazioni sottese. Si è quindi spostato il ragionamento dalle foibe all’esodo. Se le foibe sono l’elemento interpretativo di rottura, l’esilio è diventato l’elemento di sintesi. La foto della bambina con la valigia che se ne va, che lascia la propria terra, è un emblema di una sofferenza che non ha luogo e tempo. La seconda riflessione riguarda le occasioni mancate. Si può oggi affermare che nel biennio ’92-’94 forse l’Italia poteva giocare una partita diversa a livello internazionale. Eravamo schiacciati da problematiche interne (leggasi Tangentopoli) e questo ci ha reso deboli davanti a Stati come Slovenia o Croazia che stavano per nascere. Non abbiamo avuto, in sostanza, un ruolo nevralgico come hanno avuto invece Germania, Usa o anche la piccola Città del Vaticano.
Cosa si può fare per mantenere quella che è una tradizione, una cultura, in quelle terre che non ci sono più?
Oggi, a ottant’anni di distanza, noi dobbiamo avere il coraggio di guardare avanti. Dobbiamo avere questo coraggio, perché i ragazzi oggi ragionano con schemi mentali diametralmente differenti. Dobbiamo coniugare lo specchietto retrovisore, con cui non scordarci il passato, con la capacità di “andare avanti”. A me, ad esempio, piace utilizzare il lemma “frontiera adriatica” e non “confine orientale”, in quanto evoca un limes più poroso, dove ognuno avrà la sua storia e tutti rispettano le storie altrui. Non ho ambizione di modificare il racconto di altri, è impossibile. La memoria condivisa non esiste. Se però oggi si parla di oltre 100mila morti nelle foibe balcaniche, e circa 10mila sono italiani, significa che all’appello mancano 80mila vittime. C’è stata quindi una eliminazione ideologica. Paradossalmente, ci sono sloveni che, sotto Tito, hanno subito il medesimo trattamento degli italiani. Troveremo uno sloveno che ha avuto un parente infoibato o che ha avuto una storia forse simile a quella di tanti istriani. Anche questo ci deve indurre ad un ragionamento differente. Significativamente la Slovenia per alcuni anni – oggi purtroppo alcuni equilibri politici si sono modificati – ha adottato una legge sul risarcimento dei crimini del comunismo, a prescindere dall’etnia di coloro che avevano subito i torti. Quindi, anche applicabile agli italiani. Poche migliaia di euro, certo, ma concettualmente è stata una norma dal forte impatto positivo. Il vero problema del secondo Novecento è stato l’oblio degli italiani nei confronti di una storia che riguardava loro connazionali, sulle cui causa prima abbiamo riflettuto.
Lei ha parlato al Quirinale per il Giorno del Ricordo. Che effetto le ha fatto, da discendente di esuli, quel momento?
Negli anni addietro ho avuto l’onore di intervenire al Senato e alla Camera, mai mi sarei atteso di farlo anche al Quirinale. È stata un’emozione incredibile e spero di esser riuscito a creare una sorta di cinghia di trasmissione generazionale. Sono nato dopo il Trattato di Osimo, queste terre di cui parlo devono tornare a far sì che le differenze creino qualcosa in più e non in meno. È difficile, ma nodale. Il tempo della Storia è diverso dal tempo degli uomini. Per noi 40 anni possono rappresentare la metà di una esistenza, per la Storia sono un battito di ciglio. Bisogna lasciare tempo al tempo. Dobbiamo guardare avanti, ma sempre nel rispetto di quanto accaduto e delle sofferenze patite e non dimenticando le cause.
Il 12 aprile l’Università degli Studi di Trieste, in occasione del suo centenario, concede una laurea honoris causa al Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella e all’ex Presidente della Repubblica Sloveno Borut Bahor e lei è sei stato individuato per tenere la laudatio.
Ritengo sia un passaggio nodale per il futuro di queste terre in un luogo simbolo dedicato alla formazione dei giovani. Superare i totalitarismi del Novecento in nome dei valori democratici europei, con la speranza che nel tempo il contesto continentale oltrepassi le tensioni vissute dalle generazioni che ci hanno preceduto. In questo senso, paradossalmente la visita nell’estate 2020 dei due Capo di Stato alla foiba di Basovizza ebbe una enorme eco soprattutto in Slovenia, dove queste tematiche hanno un valore nazionale e toccano nervi scoperti per la politica attuale. Da noi ci fu quella vicenda veramente poco piacevole dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce allo scrittore Boris Pahor, noto e apprezzato scrittore che ha però sempre avuto posizioni tendenti al negazionismo sulla questione degli infoibamenti.
Fonte: Il Giornale – 10/04/2024