Per carità di patria quest’anno risparmiamoci di ricordare l’8 settembre del 1943, il giorno nefasto della morte presunta della patria. Ma per tirarci su, ricordiamo un altro 8 settembre glorioso, che quest’anno compie giusto cento anni: l’8 settembre del 1920 a Fiume fu promulgata la Carta del Carnaro. Quella si, fu davvero “la più bella Costituzione del mondo”. Per i contenuti, lo stile, la prosa, l’idealità che emanava.
di Marcello Veneziani – o6/09/2020 – Fonte: La Verità
La Carta del Carnaro non fu scritta da insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la Carta del ’48; ma fu scritta da un grande sindacalista come Alceste de Ambris e rivista da un grande poeta-soldato, Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire di tre grandi energie: l’amor patrio, lo spirito poetico e lo slancio sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale, scritta da De Ambris sono condensate tutte le parole chiave della Carta: democrazia diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, lavoro produttivo e “sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione”.
È d’Annunzio a parlare nella sua stesura di “perpetua volontà popolare”, di “fato latino”, è lui a evocare il Carnaro di Dante, estremo confine della civiltà latina, e il culto dantesco della lingua; a sostituire il riferimento alla Repubblica con quello più classico alla Reggenza, intesa come “governo di popolo”. Fu lui a richiamarsi ai “produttori” e agli “ottimi”. E fu lui a indicare nella bellezza della vita, del lavoro e della virtus, “le credenze religiose collocate sopra tutte le altre” che avrebbero guidato lo Stato. La forte impronta sociale e popolare della Carta non impediva il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle arti più nobili.
Nella Carta erano garantite tutte le libertà dei cittadini, il voto universale e la parità dei diritti tra uomo e donna; era poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era disegnato l’assetto della Corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra, mare, operai, impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima era enigmaticamente riservata “alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento”, al “genio ignoto”, all’”uomo novissimo”, a colui che “fatica senza fatica”. Era riconosciuta centralità al lavoro e sovranità al popolo dei produttori; era introdotta la figura del Comandante, inteso come il dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un arco di tempo.
Punti fermi erano l’autodecisione dei popoli, la possibilità di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà italiana e latina, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella Costituzione “come un’istituzione religiosa e sociale”. Oggi diremmo che sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della Carta del Carnaro; fusione tra poesia, trincee e sindacalismo.
Veniva costituita la Lega di Fiume che “univa in un solo fascio le forze sparse di tutti i popoli oppressi della terra”; cercava l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolgeva anche ai paesi islamici: D’Annunzio esaltò il risveglio dell’Islam, “auspice Italia, dispensatrice di diritto e giustizia”.
Il 21 settembre, su La vedetta d’Italia, D’Annunzio scrive queste parole da antenato nobile del populismo antipolitico: “La casta politica che insudicia l’Italia da cinquant’anni non è capace se non di amministrare la sua propria immondizia…Basta! grideremo su la piazza di Montecitorio e su la piazza del Quirinale… Da troppo tempo il popolo attende una parola di vita…Ci siamo levati soli contro l’immenso potere dei ladri, degli usurai e dei falsarii… Loro sono morti. Guardateli in viso, quando seggono al banco del Potere con le braccia conserte e contemplano il soffitto che non crolla. Le vecchie seggiole sono più vive di loro. Affrettiamo l’ora del seppellimento”. Cent’anni dopo stiamo ancora lì…
Tra i sermoni fiumani di D’Annunzio del settembre 1919 sono memorabili L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. L’ultimo discorso di D’Annunzio a Fiume si conclude con un Viva l’Amore. Quasi un promo del ’68 e della fantasia al potere, degli hippy, degli indiani metropolitani; un riassunto anticipato di tante rivoluzioni, compresa quella fascista e parallela a quella dei soviet, di cui all’epoca d’Annunzio era ammiratore (sognava un comunismo libertario ma aristocratico, anarchico ma nazionalista). Rispetto al ’68 restano due differenze: i legionari di Fiume venivano dalle trincee e non dal boom economico. E il loro capo spirituale non era un agitatore, un comico o un demagogo. Ma un poeta grande, mitico e inimitabile.
La Carta del Carnaro non fu il sogno proibito di una città-utopia fuori dalla storia e non fu nemmeno il frutto di un’avventura velleitaria di “un eroe disoccupato a caccia di emozioni”, come la liquidò Emilio Gentile. Fu invece la visione più lucida e ardita della politica e della società nel Novecento di combattenti che la guerra l’avevano fatta sul serio.
In una lettera al Vate, De Ambris così sintetizzò la Carta: “Diamo al mondo l’esempio di una Costituzione che in sé accolga tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno, facendo rivivere le più nobili e gloriose tradizioni della nostra stirpe”. Esempio perfetto di rivoluzione conservatrice.
La reggenza del Carnaro dura dall’autunno del ’19 al Natale del 1920, quando verrà cannoneggiata Fiume e poi evacuata dai soldati. Avevano cercato di sedare d’Annunzio prima con le trattative e le promesse – ci provò pure Badoglio, mandato dal presidente del consiglio Nitti, ribattezzato da d’Annunzio il Cagoja – poi Giolitti, tornato premier, fece bombardare Fiume e costrinse il Poeta alla resa. Finì una storia, restò la Carta del Carnaro.